Con il suo primo film in competizione a Cannes, il regista occitano Alain Guiraudie dimostra di saper entrare in dialogo con il cinema d’autore francese senza lasciarsi troppo imbrigliare, costruendo un’opera che è anche una sorta di manifesto della sua poetica. Rester vertical (in italiano “Stare diritti”) porta già nel titolo, ripreso nel simbolico finale, una dichiarazione: andare avanti, contro ogni imprevisto od ostacolo che la vita presenta, rimanendo fedeli a se stessi e alla propria natura.

Partendo da un problema concreto, il ritorno dei lupi nelle campagne francesi e l’impossibilità di portare avanti una pastorizia all’aria aperta, Guiraudie intesse nel racconto elementi mitici, con la profondità simbolica della fiaba e l’asciuttezza della parabola. Così, questa storia di lupi e agnelli diventa il modo per parlare di un padre che si ritrova ad occuparsi da solo di un neonato, tra i mille ostacoli dell’esistenza quotidiana. Ma anche di un regista che non trova il tempo per fermarsi a scrivere la propria sceneggiatura, se non imprigionato nella grotta di una strega. E ancora di un uomo che vive fuori dalle regole sociali e per questo è bandito, costretto a confrontarsi con il lupo che terrorizza il paese.

Il realismo della regia, che lascia ampio spazio ai paesaggi del Lozère, è rotto dal consapevole intento di costruire i personaggi come “figure del desiderio” (dal giovane angelo perduto, al vecchio per mezzo del quale il protagonista giunge alla presa di coscienza della propria natura), che si muovono come in una commedia dell’arte, scambiandosi ruoli e ribaltando rapporti. A ben vedere, in Rester vertical, che all’apparenza è quasi una fiaba in cui un bel cavaliere risveglia una bella addormentata al pascolo, dopo il bacio nessun personaggio si trova a proprio agio nella posizione che la società gli ha imposto: le madri non riconoscono i propri bambini, i padri non sono realmente tali e anzi imprigionano i figli, i nonni sono pronti a sacrificare i nipoti e a dar via libera a un amore con i cognati. In questa ronde, l’artista tiene la strada (non a caso il film si apre con un “vissuto” cameracar, in cui i sobbalzi del terreno brullo di una stradina di campagna fanno traballare il quadro dell’immagine), o almeno ci prova, tra una nascita e una morte, tra una sparizione e una riapparizione del desiderio, tra un biberon e l’altro. E se alla fine la consegna della sceneggiatura è solo un rito, un atto che imprigiona il film sulla carta, il vero gesto di rottura sarà tenere stretto un bambino anche quando sarà spogliato di tutto o, più metaforicamente, restare in piedi di fronte al lupo con tra le braccia un agnellino.

In questo finale, che riesce a fondere magistralmente le diverse tracce di una fiaba contemporanea, Alain Guiraudie si dimostra ancora una volta pronto a varcare i confini segnati dal codice borghese e ribalta le attese di chi vorrebbe ridurre questa storia di pastori e registi a un’accomodante metafora per le famiglie allargate. Leo è solo di fronte ai lupi.  [Daniela Persico]

C’ERA UNA VOLTA IN ROMANIA

La morte di un familiare, in particolare quella di un genitore, costringe a ripensare un intero sistema di valori e dati acquisiti, fino a rimettere in discussione la propria visione del mondo. Si tratta di un azzeramento che dal piano emotivo passa a quello conoscitivo, ed è a partire da questa consapevolezza che il rumeno Cristi Puiu elabora con Sieranevada, presentato in concorso a Cannes, un articolato e complesso film corale a sfondo autobiografico. L’occasione che riunisce i vari membri di una famiglia in un interno di Bucarest è la commemorazione rituale del padre defunto, con la lunga preparazione di un pranzo e il raccogliersi, intorno al tavolo imbandito, di figli, nipoti, fratelli, sorelle, zie e zii, non tutti ben disposti o ben accolti. Lo spaccato inter-generazionale si presta a una riflessione a più voci intorno ai temi della memoria, della mistificazione, della fede e della fedeltà, elaborati su vari piani, da quello puramente familiare a quello politico, sociale e religioso. La ricerca di risposte definitive sembra stare particolarmente a cuore ai componenti della generazione “di mezzo”: i giovani adulti che hanno vissuto il crollo del comunismo e che a scuola hanno studiato “una certa verità”, per poi fare i conti con lo smantellamento di una versione dei fatti a favore di un’altra. Intorno a loro anziani che difendono le posizioni del passato e ragazzi ignari del futuro.

Definito da qualcuno un “Ceylan desublimato”, il film di Puiu può superficialmente richiamare alla mente il lavoro del regista turco, o essere visto come una versione in negativo del momento centrale di Cous cous di Kechiche: all’allegria si sostituisce la mestizia, e nel susseguirsi di incidenti, piccoli drammi, discussioni e litigi il pasto viene costantemente rimandato. Anche quando, nel finale, sembra finalmente arrivato il momento di consumarlo, un nuovo strappo costringe i presenti ad alzarsi uno dopo l’altro dal tavolo. Notevole il lavoro sugli attori, impegnati in un tour de force di messinscena che vive di lunghi piani sequenza, con la macchina da presa che, nell’arco di quasi tre ore di film, si muove irrequieta tra le varie stanze dell’appartamento, a volte sostando nel corridoio, come incerta sulla soglia da varcare, per poi osservare composta ma non priva di sussulti i dibattiti in corso. Come se l’anima del defunto, insieme alla sua muta coscienza, aleggiasse tra i componenti del gruppo. Tanti i film che partecipano alla competizione, e tutti ancora da venire, ma con Sieranevada Puiu avanza una seria candidatura per la Palma alla miglior regia.  [Alessandro Stellino]

RECIPROCA ASSEGNAZIONE

Come nel suo film d’esordio La Battaille de Solférino, Justine Triet ha il merito di prendere sempre sul serio le sue protagoniste e soprattutto la professione che esercitano, che non è mai accessoria ma funzionale alla narrazione e alla costruzione del personaggio. Questa volta la Victoria del titolo (control-freak e madre single sull’orlo di una crisi di nervi) è un avvocato, e la trama si snoda attorno ai concetti base della sua disciplina, che vengono costantemente tematizzati ma mai messi in discussione. Se quello relativo al giudizio appare impraticabile e naïf (“io non ti giudico” continuano a ripetersi tra loro gli amici e gli amanti), la dialettica vittima-colpevole si ribalta continuamente nelle due cause che Victoria (Virginie Efira) si trova ad affrontare nel film: una contro l’ex compagno scrittore che sul suo blog l’accusa di arrivismo e sete di potere, l’altra in cui deve difendere un amico accusato di avere accoltellato la sua donna. Calata da sempre nel ruolo di donna fallica, che ragiona come un uomo e che con gli uomini si schiera volentieri, nel tentativo di scrollarsi di dosso l’etichetta di vittima che abitualmente spetta alle donne, a partire dall’accettazione della propria vulnerabilità riscoprirà l’amore e la sessualità tra le braccia dell’unico che sa ascoltarla e prendersi cura di lei. Sam (Vincent Lacoste) è un principe azzurro atipico, più giovane e instabile, in linea con l’idea di indulgente celebrazione delle fragilità umane di tanto cinema indipendente, soprattutto americano. Qui, tuttavia, il rapporto tra i due si risolve nella reciproca assegnazione di un ruolo, in contraddizione con il tentativo di decostruzione delle identità (soprattutto di genere) che il film cerca di mettere in scena. Un happy ending sbrigativo, purtroppo irenico e nient’affatto ironico, che è la pecca più grave di una commedia altrimenti godibile. [Elisa Cuter]