Bruno Dumont non ha mai incontrato un consenso diffuso. Il suo cinema, così fuori dalla normalizzazione del cinema d’autore francese, è provocante e come tale fa discutere, spesso persino incazzare, ma non può mai lasciare indifferenti. Qualcosa è cambiato da quando, due anni fa, ha presentato alla Quinzaine des Realisateurs una miniserie, ideata e girata per la televisione, che lo ha portato a ripensare, forse per gioco o per necessità, il suo cinema. Non tanto in relazione ai temi quanto al tono.

Ricordo, al termine della proiezione di P’tit Quinquin, di aver seguito l’incontro in sala con il regista e per la prima volta ho visto un uomo rilassato che, forse sorpreso dal boato di applausi in un Theatre Marriot gremito di pubblico, si dilungava in aneddoti, con la piacevolezza di raccontare qualcosa di un suo set. Alla fine dell’incontro ho pensato che era stata la forza di una maggioranza a farlo uscire dalla difensiva in cui lo vidi in una delle mie prime Venezia, in occasione della presentazione di Twentynine Palms. E da allora tante altre volte.

Ieri, con Ma Loute, presentato in concorso, Dumont ha ricevuto uno scroscio di applausi, tutti meritati: questa storia di rivalità tra due famiglie, i borghesi Van Peteghem e i pescatori Brufort, uniti dalla fugace storia d’amore tra i loro ragazzi su una ventosa spiaggia del Nord della Francia d’inizio secolo, riporta sul grande schermo quel cambiamento di tono che ha investito il suo cinema: dalla tragedia alla farsa. Un cambiamento riuscito, perché Dumont si è messo in discussione e ha elaborato una messa in scena (già presente in P’tit Quinquin) che parte da elementi chiave del suo cinema per ribaltarli, fino a ricercarne l’antitesi. Ne nasce un film limpido, netto, composto di quadri scolpiti dalla luce e capaci di isolare i luoghi in cui si manifesta il Male o il miracoloso. In uno scenario quasi teatrale, l’autore muove le proprie marionette, che stavolta hanno i volti noti del cinema francese “d’autore”, ma sono scardinati come bambole snodabili costruite per compiere gesti eccentrici e perfetti (Juliette Binoche approda a una delle sue migliori interpretazioni, sopra le righe più – e meglio – di tutti).

Se i borghesi dominano dall’alto il paesaggio ma sono impossibilitati all’azione a causa delle loro deformità (fisiche o morali), i proletari sono gli unici traghettatori della baia, e proprio grazie a questa “missione” colgono gli amori e mietono morte. Nella dicotomia tra due classi sociali, che sono mondi autonomi e isolati, tenta di tenere il controllo una polizia da operetta (o meglio da fumetto, visto che gli agenti sembrano usciti da un episodio di Tin Tin), incapace di vedere persino quando è miracolata dal dono del volo. Nel mondo di Ma Loute tutto cigola e sembra pronto a esplodere: nella staticità del quadro, nel moto perpetuo dei corpi, è il suono a portare l’inquietudine di un mondo alla deriva, come il relitto di una nave che compare sulla spiaggia o l’enorme pancia dell’investigatore capo che esplode nel finale, segnalando che la fine di un’epoca è vicina.

Ma Loute è il compimento di un percorso ma anche il possibile (forse appena dietro l’angolo) ammaestramento di un autore che nella sua dissidenza ha toccato l’abisso umano e la sua resistenza. Tra i roveti ardenti e le grotte del demonio che abita in noi. [Daniela Persico]

TALKING ABOUT A REVOLUTION

Presentato fuori concorso, Exil di Rithy Panh è un’indagine nel passato autobiografico dell’autore che, come in ogni suo film, si serve del cinema quale strumento della memoria atto a ripercorrere un tempo dolorosamente trascorso: quello della natale Cambogia investita dalla macchina di morte dei Khmer Rouge. L’interno spoglio di una capanna si trasforma nello scenario in cui un giovane uomo mette in scena semplici atti di sopravvivenza, in una sorta di perpetuo riallestimento onirico del proprio passato, mentre intorno a lui le pareti e il pavimento di terra rivelano o accolgono oggetti provenienti da un’altra epoca: sbiadite fotografie in bianco e nero, documenti, diari, sedie, macchine da scrivere, e un carillon che suona l’Internazionale… Le immagini sono accompagnate da una lunga riflessione consegnata a una voce fuori campo maschile che ragiona intorno al tema della rivoluzione, della sua necessità e della sua distruttività, della mistificazione forse inevitabile che come un morbo si insinua tra l’atto teorico e l’atto pratico della sommossa, della rivolta nei confronti dell’ordine costituito, servendosi di citazioni che spaziano da Robespierre a Mao Tse-Tung.

Legato allo straordinario L’image manquante da una evidente continuità emotiva e tematica nel sovrapporre storia familiare del regista e storia collettiva di un popolo, Exil manca della forza evocativa propria del predecessore: nonostante un testo lucido e commovente, l’apparato visuale da videoinstallazione anni ’90 e un accompagnamento musicale ingombrante mortificano il risultato complessivo, producendo un effetto di stonatura insanabile. Il dispositivo di messa in scena cosi genialmente studiato per l’altro film – nel quale si ovviava all’assenza di documentazione visiva del genocidio per mezzo di innumerevoli statuine di terracotta che sembravano letteralmente prendere vita sullo schermo – qui non trova un’adeguata rielaborazione, e il transfer che il solitario protagonista dovrebbe compiere nei confronti dello spettatore cade a vuoto. Il senso di necessità dell’opera resta saldo nella potenza delle parole e nel carattere testimoniale delle straordinarie immagini d’archivio che puntellano il film: sono esse a farsi carico dello strazio di un sopravvissuto all’olocausto che, più fortunato di tanti altri, è scampato alla morte nel 1979 solo per convivere con il rimorso di una fuga trasformatasi in un lungo esilio.  [Alessandro Stellino]

LE MILLE LUCI DI PNOHM PEHN

La domanda che si pone Davy Chou nel suo primo lungometraggio di finzione Diamond Island, presentato alla Semaine de la Critique, riguarda il tempo. Cosa resta del passato nel presente, sia in termini individuali che di memoria collettiva? Sulle prime, si direbbe pochissimo. Il film del regista franco-cambogiano ci mostra adolescenti ossessionati dal nuovo, ipnotizzati dalla tecnologia, ammaliati dai bagliori dell’urbanizzazione selvaggia della capitale. La trama è quella tipica del coming of age e segue il diciottenne Bora nel suo oscillare fra passato (la campagna e la famiglia), presente (il cantiere in cui lavora a orari massacranti, i primi amori) e futuro (promessogli dal riavvicinamento con il fratello maggiore inserito negli ambienti “in” della città).

L’ambientazione in cui la trama si svolge, però, rende la storia di Bora (Sobon Nuon, attore non professionista come tutti quelli usati dal regista) una vicenda esemplare che riflette quella del suo Paese, in cui il passato negato riemerge dai racconti, dai riti familiari e anche da quelli del corteggiamento. È importante anche l’uso che il regista (già alla Berlinale nel 2012 con il documentario Golden Slumbers) fa del materiale pubblicitario realmente esistente sulla Diamond Island del titolo, un complesso turistico e residenziale lussuoso e “avanguardistico” nelle intenzioni, in realtà altrettanto infarcito di citazioni parodistiche e stereotipate di un mondo passato idealizzato come quello della vecchia Europa: in una grafica da videogame datati, siamo invitati a entrare nell’autorappresentazione del futuro di un Paese che non ha fatto ancora del tutto i conti con il proprio passato. Un futuro kitsch, posticcio, che sembra tanto datato quanto la sua promessa di sviluppo.

Chou sceglie di guardare il cambiamento della città con gli occhi affascinati dei suoi protagonisti. Ma se la (splendida) fotografia fluo di Thomas Favel rispecchia nei suoi colori iper saturi la fascinazione dei ragazzi verso quella che sembra una vita vissuta in un parco di divertimenti, la camera fissa restituisce invece l’aria di alienazione che si respira in un paese nel pieno di una modernizzazione brutale imposta dall’alto. E lascia presagire l’ombra che gli imponenti cantieri proiettano sul futuro. [Elisa Cuter]