All’annuncio della selezione di Cannes, tra gli addetti ai lavori si sono sollevate le solite lamentele a proposito di una selezione composta da cineasti già più volte presenti a Cannes e da titoli che garantivano un’annata di “conservazione”. A giudicare dalle prime giornate, e dall’alta proposta dei film nella selezione principale, c’è da credere che il festival, pur ancorandosi a nomi importanti, abbia anche saputo accogliere un rinnovamento delle estetiche, portato in particolar modo dai due film a regia al femminile: lo stupefacente Toni Erdmann di Maren Ade e il vitale American Honey di Andrea Arnold (di cui parleremo domani).

In pochi in Italia conoscono Maren Ade, nonostante abbia all’attivo una vittoria al Sundace e un premio alla Berlinale con i suoi due film precedenti, eppure questa autrice tedesca – dalla grande consapevolezza formale – è uno dei rari registi che credono nel potere di cambiamento del cinema e lavorano sullo sguardo dello spettatore. In Toni Erdmann affronta i legami familiari e la loro trasformazione nei tempi del lavoro espanso, che occupa ormai l’intera vita. Winfried è un insegnante di musica sessantenne, a cui piace scherzare con gli altri, conduce una vita tranquilla accompagnato ovunque dal suo cane. Quando incontra la figlia Ines, donna in carriera che lavora in una multinazionale in Romania, si accorge che ormai non esiste più un dialogo tra loro. Così decide di recuperare il legame che li univa. Parte per la Romania e si presenta nell’ufficio della figlia travestito: uno scherzo, che poco a poco diventerà la giusta messa in scena per “svegliarla” dai condizionamenti sociali.

Quasi interamente girato in Romania (curiosamente simile al bel romanzo di Bajani “Se consideri le colpe”), il film ci immerge nella routine quotidiana di Ines, nelle sue giornate fatte di riunioni interminabili, nelle serate in cui ancora una volta è il lavoro (con le forze di potere in gioco) a regolare i rapporti, tra manager disincantati e donne d’affari inarrestabili. In questo contesto fa il suo ingresso in scena l’improbabile Toni Erdmann (ovvero il padre della ragazza travestito da eccentrico uomo d’affari dalla buffa dentatura) che arriva a scardinare i comportamenti consolidati dall’abitudine e a rivelare l’inconsistenza dei rapporti. In una vita in cui domina il lavoro e tutto è produzione, non c’è più spazio per la persona, che progressivamente abbandona ogni possibile relazione con gli altri, e di conseguenza con la parte più profonda di sé (non a caso l’unica scena di sesso, non prevede alcun contatto tra corpi). Solo l’humor può scardinare il sistema: l’eccentrico che si palesa nelle situazioni più diverse e ogni volta, cercando di farsi specchio della realtà che lo circonda, ne restituisce una visione deformata e grottesca, fornendo alla figlia la giusta distanza per guardare alla vita che si è scelta. Le continue apparizioni del padre sono una vera e propria esperienza sensoriale anche per lo spettatore, perché l’abilità della regista sta nell’utilizzare di volta in volta, dal punto di vista della struttura narrativa del film (di quasi tre ore), lo stesso meccanismo di sorpresa spiazzante. E se Ines progressivamente si spoglia di una sovrastruttura, lasciandosi andare al canto (in una scena liberatoria) o ribaltando come il padre una situazione stabilita (il restare nuda mentre accoglie i suoi colleghi per una festa casalinga), suo padre Winfried si traveste sempre più, finendo per perdere il suo volto, ormai ricoperto da un bizzarro costume peloso, pura essenza – quasi feticcio – di una presenza paterna che vuole lasciare un segno nella vita della figlia. I ricordi si colgono retrospettivamente, la ammonisce il padre, che nel finale vorrebbe scattarle una foto ma non riuscirà a cogliere il momento in cui il loro rapporto sembra nuovamente consolidarsi. L’attimo è fuggito, ma forse ha lasciato una traccia. [Daniela Persico]

SHE LIKES SEX AS SHE LIKES HER STEAK: RAW

A decretare il successo di Grave (titolo internazionale Raw, cioé crudo), più che il giustamente entusiastico applauso che ha concluso la proiezione alla Semaine de la Critique, è stato il cospicuo numero di persone che hanno abbandonato la sala durante alcune scene, appunto, troppo crude. Perché Grave è un horror, e di quelli capaci di disturbare sul serio. Ambientato nel campus di una facoltà di veterinaria, il film vede la sedicenne Justine, figlia modello di una famiglia di animalisti vegetariani, alle prese con la scoperta dei suoi istinti, non solo sessuali: costretta dalla sorella maggiore a mangiare carne, realizza con crescente orrore di essere una cannibale.

Da subito si comprende come l’esordiente regista Julia Ducournau voglia rendere palpabile l’animalità che soggiace alla civilizzazione, o meglio il confine labilissimo tra esseri umani e animali: nell’incipit una ragazza si getta sotto a un’auto in mezzo alla campagna come uno dei tanti animali che si vedono schiacciati in autostrada, i goliardi del campus invitano a camminare carponi e perdersi nel gregge o nel branco, la zoofilia è evocata a piene mani nel rapporto simbiotico con i cani… Ma lo scopo della regista non e tanto quello di riflettere sulla violenza che si nasconde (per palesarsi però spesso e volentieri) nei riti della socialità, quanto rivelare con dovizia di particolari gory il rapporto tra eros e thanatos e la sua traumatica scoperta durante la pubertà. Grave è chiaramente un film sugli aspetti più terrificanti e atavici del desiderio, e regala, tra le altre scene memorabili, anche una delle prime volte più belle viste al cinema: violentissima, tra un ragazzo omosessuale e una cannibale vergine.

I temi sono espliciti, tutte le metafore (come quella del desiderio che implica il consumare l’altro, il sesso come cannibalizzazione, il cannibalismo reciproco che caratterizza i rapporti fra sorelle) sono rappresentate alla lettera. Fortunatamente a Ducornau non interessa fare un film “sottile”, anzi è proprio il gusto che prova nel rappresentare le scene più splatter a valorizzare Grave. Vorace come la sua protagonista, la regista francese pesca a piene mani nella tradizione dei b-movies, da Rob Zombie a La bambola assassina, ma anche naturalmente dal body horror alla Carpenter, da Zulawski, cita De Sade, si rifà a film recenti che giocano la tematica femminista in chiave grottesca come Denti o Wet Lands, fino ai manga e a serie tv come Buffy l’ammazzavampiri. In questa sua fame inesauribile riesce a regalarci una rappresentazione fedele, complessa e entusiasmante dell’adolescenza. [Elisa Cuter]

INTRIGHI DIABOLICI

Il cinema di Park Chan-wook si configura sempre più come un cinema delle apparenze: abile a giocare con la superficie fuggevole delle immagini, ogni sua opera è percorsa da una tensione volta a sconfessare dimensioni assodate solo per creare nuovi, instabili (e quasi sempre ingannevoli) equilibri. Nella prima parte di Mademoiselle, il suo ultimo film presentato in concorso a Cannes, il regista coreano elabora un reticolo di relazioni basate su differenti rapporti di potere che nella seconda viene messo più volte in discussione, quando non addirittura ribaltato. Una ladruncola diventa servitrice presso una giovane ereditiera giapponese, e scopre che vive segregata all’interno di un castello di proprietà di uno zio collezionista di letteratura erotica. La ragazza accudisce la donna, ma in realtà è lì per portare a compimento il malefico piano di un truffatore che intende mettere le mani sul patrimonio del vecchio… Ma – appunto – ogni apparenza, cosi come ogni movente, è destinata a essere smontata per rivelare un ulteriore versante dell’intrigo, in un continuo scambio dei ruoli tra vittime e carnefici.

L’impianto tiene, e il calligrafismo del regista riesce a non essere mai stucchevole, ma il gioco di scatole cinesi non rivela altro che l’essere tale: se al fondo di Stoker stava l’imprinting de L’ombra del dubbio, qui è inevitabile pensare a I diabolici, ma né Hitchcock né Clouzot avrebbero mai messo sul tavolo le proprie carte alla maniera di Park, che invece si sente in dovere di scomporre la narrazione fornendo allo spettatore tessere utili a una migliore comprensione del puzzle – utili ovvero a portarlo fuori strada. Qui sta il versante più prettamente postmoderno del regista ma anche tutta l’incapacità di superarlo per affrancarsene – basti pensare all’abisso che separa due opere potenzialmente affini come Mademoiselle e Gone Girl di Fincher. In questo caso, le immagini sono ingannevoli non per via della loro natura ma perché c’è chi se ne serve per ingannare e sedurre (e qui si potrebbe aprire un rimando alle immagini erotiche che illustrano i libri collezionati dal padrone del castello…), e allora va bene essere sedotti e ingannati, se si vuole, ma giusto per il tempo di una proiezione.

Tratto da un romanzo inglese, la cui ambientazione viene spostata dal periodo vittoriano agli anni ’30 coreani, il film è evidentemente pensato per il mercato internazionale: difficilmente porterà a casa un premio, ma è già stato venduto in 140 Paesi.  [Alessandro Stellino]