Non sarà l’anno della Palma, per Xavier Dolan, ma nessuno come il ventisettenne canadese è stato accolto con tanto entusiasmo da critici e fan in questa sessantanovesima edizione del Festival di Cannes. File chilometriche per le prime proiezioni di Juste la fin du monde, suo sesto lungometraggio, e adorazione senza freni in occasione dell’arrivo di regista e cast per la conferenza stampa. Inoltre, pare che una miriade di cloni della giovane superstar si aggirassero alla festa inaugurale della Queer Palm. Insomma, difficile immaginare il peso che il cineasta canadese deve essersi sentito addosso dopo la consacrazione di Mommy, il film che ha portato nel cuore degli appassionati un autore fino ad allora ammirato quasi esclusivamente dalla critica. Dopo l’exploit del 2014, chiunque avrebbe accettato di lavorare con lui, e lo dimostra il cast messo insieme per questa nuova fatica: Vincent Cassel, Marion Cotillard, Lea Seidoux, Nathalie Baye, e Gaspard Ulliel, già Yves Saint Laurent per Bertrand Bonello qualche anno fa sempre qui a Cannes. Proprio quest’ultimo è il protagonista di un dramma familiare girato quasi esclusivamente in interni e tratto da una piece teatrale scritta nel 1990 da Jean-Luc Lagarce (morto qualche anno dopo di AIDS), arrivata al regista per tramite della sua attrice feticcio Anne Dorval.

Chi si aspettava un’opera incendiaria come la precedente o un melodramma fiammeggiante a la Laurence Anyways – a oggi ancora il suo film migliore – potrebbe essere rimasto deluso: Juste la fin du monde risulta essere un’opera di ripiegamento, o meglio di alleggerimento – in fondo un tentativo parzialmente riuscito di schivare le attese. Realizzato quasi esclusivamente per mezzo di strettissimi primi piani, il film racconta poche ore di una giornata in cui uno scrittore trentacinquenne fa ritorno in famiglia dopo dodici anni di assenza, per annunciare la propria morte imminente. Ad attenderlo, una madre ciarliera ai limiti del sopportabile (Baye), un fratello maggiore cinico e provocatore (Cassel) con moglie al seguito (Cotillard), e una sorella minore irrequieta e ribelle (Seydoux). L’atmosfera si scalda immediatamente, complici anche le temperature di un’estate indiana, e antichi risentimenti mettono a repentaglio la serenità dell’incontro. La tensione dei dialoghi assicura un ritmo privo di cedimenti, ma la messa in scena, per quanto contenuta, pare fin troppo studiata, esibita, imbrigliata dalle esigenze di una programmaticità già inscritta nel testo di partenza. L’intenzione è quella di produrre nello spettatore il medesimo senso di opprimente claustrofobia che imprigiona il protagonista del film, spinto in un angolo dalle voci altrui e incapace di manifestare la propria; ma l’effetto rischia di essere piuttosto quello di un fastidio diffuso nei confronti di tutti e delle loro problematiche, senza sollievi di sorta. Servono a poco, infatti, i momenti di apertura immaginifica che in un paio di occasioni spalancano l’andamento della narrazione in quei mix emotivi di immagini e musica che sono ormai marchio di fabbrica del regista quebecoise. Mai cosi banalmente estetizzanti come in quest’occasione, sono i momenti peggiori del film e disegnano un punto interrogativo sulla futura evoluzione del suo stile. [Alessandro Stellino]

SOGNI INFRANTI

Sembrava che, dopo anni di grande rinascita del cinema rumeno, la tensione creativa d’inizio millennio si fosse dispersa in opere non più così convincenti. Invece quest’anno sono proprio due registi rumeni a mettersi in evidenza nella competizione di Cannes. Da una parte la perfetta macchina scenica di Cristi Puiu con Sieranevada (di cui abbiamo parlato i primi giorni del festival), dall’altra la sofisticata parabola di Cristian Mungiu con Bacalaureat, entrambi degni candidati alla Palma d’Oro. Un riconoscimento non nuovo al regista, che lo ricevette già con la sua opera seconda 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, storia di un aborto difficile in una Bucarest segnata dai cascami di un regime estraneo alle giovani protagoniste. In qualche modo il tema ritorna in Bacalaureat, opera concentrata nelle poche giornate che separano una ragazza dal suo esame di maturità. Il padre le ha già designato un futuro migliore, lontano dalla Romania, nella fulgente Inghilterra, dove – secondo il genitori – la ragazza potrà realizzarsi, volando via dalle minacce incombenti della “troglodita” società rumena.

Il film inizia con un sasso lanciato contro la finestra dell’appartamento della famiglia: un buco nel vetro, un brutto presagio che destabilizza una normale uscita di casa di un padre e di una figlia verso il liceo. Proprio quel giorno sembra destinato a infrangere i sogni del padre: la ragazza subisce un’aggressione, si rompe un braccio e l’infortunio rischia di interferire con l’andamento dell’esame (e quindi anche con la possibile partenza per l’università). Quando la possibilità di realizzarsi di un sogno viene messo in crisi, cosa siamo disposti a mettere in gioco? Partendo da un “accidente”, Mungiu intesse una teoria di piccole scelte quotidiane che porterà al frantumarsi di un’intera vetrata, mettendo in crisi non solo la possibilità educativa ma soprattutto una certa perseveranza dell’etica quotidiana. Di fronte al progetto, quello imposto da un padre a una figlia (ma anche quello di una nazione sul suo popolo), ogni individuo si troverà costretto a scegliere l’inganno, per perseguire un piano che supera la realtà delle cose. Anche quando la via d’uscita si offre in maniera più semplice e raggiungibile, mettendo a nudo le vere motivazioni che hanno spinto a costruire questo futuro alternativo.

Dirigendo in maniera magistrale il gruppo di attori, Mungiu sceglie di seguire i passi incerti di un padre che vede crollare le proprie sicurezze nel momento in cui intuisce di non avere il controllo (che forse si illudeva di mantenere) su sua figlia. Una presa di consapevolezza che tarda ad arrivare, nel film, segnando un finale sospeso sul quale grava il peso delle aspettative degli adulti sui ragazzi. In una società sofferente, dove il fantasma del passato è ben rappresentato dai palazzoni fatiscenti in cui abitano i protagonisti, la conquista della libera scelta è raggiunta a fatica, come lo sguardo su una figlia che è altro da sé. [Daniela Persico]

VIAGGIO NELL’IBRIDO

Dopo Todos vós sodes capitáns, presentato nel 2010 alla Quinzaine e vincitore del premio FIPRESCI, Oliver Laxe torna a Cannes con Mimosas, un film di straordinaria maturità, giustamente vincitore del Gran Premio della Semaine de la critique, che lo impone come uno degli autori più significativi della sua generazione. In un tempo lontano uno sceicco morente viene scortato verso la propria città e le persone che ama da una carovana. L’unico modo per giungere a destinazione prima che la morte sopraggiunga è trovare un sentiero attraverso i monti dell’Atlante marocchino. Tutti si rifiutano di intraprendere quel viaggio così rischioso e incerto, ad eccezione di due giovani, Ahmed e Saïd, che si ritroveranno soli ad affrontare una natura impervia e le minacce di oscure e misteriose presenze. Parallelamente al percorso dei due portatori, in un tempo che potrebbe essere il nostro, Shakib, dai più considerato l’idiota del villaggio, viene incaricato di prendersi cura di Ahmed e di accompagnarlo in un percorso che lo porterà a fare i conti con se stesso e con la propria natura più profonda. Laxe rivendica con forza l’idea di un cinema che possa essere strumento per una ricerca spirituale, trasformando un viaggio nello spazio in una esplorazione tutta interiore. In questo il regista conferma e rilancia le scelte ibride di Todos vós sodes capitáns. Che la lavorazione del film fosse stata complessa era chiaro guardando The Sky Trambles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers, ultimo film di Ben Rivers girato proprio sul set di Mimosas e questo rende agli occhi di chi ha visto il film di Rivers ancora più straordinario il lavoro di Laxe.

La forza e la “fatica” tutta documentaria cercata nel lavoro con gli attori, unita ad un profondo senso della dimensione spaziale e del paesaggio, si sposano perfettamente con una matrice quasi di genere, per come nel film risuonano echi di western che vanno da Ford a Monte Hellman. Il mito e l’epica del genere cinematografico per antonomasia segnano la cornice e le linee prospettiche del film. Quello che Laxe dipinge all’interno di questo frame è invece qualcosa di profondamente radicato nella prassi del cinema del reale. La fede (aconfessionale e ageografica) di cui è pervaso il film è quella in un cinema che sappia essere un atto etico ed estetico radicato nell’immaterialità della visione, ma al contempo mosso da una dialettica costante con il mondo e la sua materialità. Questo per sgomberare il campo da ogni forma di estetismo. L’invisibile che respira in tutto il film risiede nello spazio e nei corpi ed è la sostanza di cui è fatta questa parabola di crescita. L’invisibile attraverso il visibile. Il superamento di sè attraverso il miracolo impossibile del cinema. Come dice Shakib ad Ahmed prima di lanciarsi in uno scontro finale il cui esito il film non mostra: non importa se la sfida pare troppo ardua e la battaglia destinata alla sconfitta. Nel perseguire ciò che pare impossibile ai più risiede la vera strada verso il superamento di sè. “Noi vinceremo” grida Shakib prima di sfoderare la sua spada. Armati soltanto dell’amore. [Francesco Giai Via]