Difficilmente si sarebbe potuto immaginare un tempismo più azzeccato per l’uscita di The Emigrants e The New Land (in Italia Karl e Kristina e La nuova terra, Jan Troell, 1971-72). L’epopea di una famiglia svedese di metà Ottocento che, non riuscendo più a sopravvivere con i frutti del proprio lavoro, decide di inseguire il miraggio della terra promessa e cercare fortuna negli Stati Uniti non può non suggerire associazioni  facili con questioni di pulsante attualità – tanto sul versante geopolitico quanto su quello assai più modesto della vita quotidiana. Che questo sia possibile è uno dei meriti più evidenti dei due film, oggi dimenticati eppure eccezionali anche al di là delle suggestioni immediate. Adattamento di un ciclo di quattro romanzi molto popolari scritti tra il 1949 e il 1959 da Vilhelm Moberg di cui anche John Ford tentò di comprare i diritti, il dittico di Troell è un kolossal di oltre sei ore eccessivo e ambizioso nei mezzi, sobrio e aggraziato nella forma.

La semplicità universale di vicende che avrebbero potuto riguardare famiglie di epoche e latitudini disparate è una delle ragioni dell’enorme successo dei due film[1]. I coniugi Karl-Oskar (Max von Sydow) e Kristina Nilsson (Liv Ullmann), come gran parte degli abitanti del piccolo villaggio contadino nello Småtland, dipendono dalle intemperanze della natura e dall’ingiustizia di un sistema feudale. Il fratello minore Robert (Eddie Axberg), che con l’amico Arvid (Pierre Lindstedt) sogna un’America ritagliata da volumetti procurati chissà come, è ricercato dai gendarmi per aver abbandonato il podere in cui lavorava a seguito delle violenze del padrone, dalle quali per giunta ha guadagnato un danno permanente all’udito. Il mistico Danjel (Allan Edwall), cugino di Kristina, è perseguitato dalle autorità religiose per alcune idee ortodosse che gli hanno procurato anche un gruppetto di adepti, tra cui la prostituta redenta Ulrika (Monica Zetterlund). Stimolato dalle lettere del figlio di compaesani emigrato anni prima, il gruppo si imbarca nell’impresa, che The Emigrants racconta fino all’insediamento in Minnesota (Karl-Oskar raggiunge il proprio appezzamento e incide su un albero la scritta “K.O. Nilsson – Svensk”). Con The New Land, che narra la vita americana dei Nilsson nella morsa tra grande storia (la corsa all’oro, la guerra civile, la guerra dakota) e lotte quotidiane (tra assimilazione e tradizione, aspettative e realtà, libertà e uguaglianza), Troell e lo sceneggiatore-produttore Bengt Forslund indagano gli effetti dell’emigrazione sul carattere dei personaggi, realizzando uno studio intimo e intimista che si contrappone all’epica di The Emigrants.

A suturare l’apparente distanza tra due sguardi differenti, quello epico e quello intimista, Jan Troell (nelle vesti di regista, sceneggiatore, operatore e montatore) impone ai due film un ritmo molto discontinuo, alternando in maniera non sempre prevedibile sequenze meditabonde, affondi sperimentali a dir poco spiazzanti e slanci naïf in cui la macchina da presa si lascia distrarre dalle vicende dei personaggi per inseguire suggestioni liricheggianti dettate dal caso. I momenti antinaturalistici, teneramente modernisti nel loro tentativo di sovraeccitare lo spettatore per mezzo della tensione tra immagine, suono e montaggio, sono tra i più memorabili: l’arrivo in America puntellato da un vociare incomprensibile di uomini e animali sovrapposto a scene sincopate e caotiche; la lunga digressione californiana di Robert e Arvid sonorizzata da Georg Oddner improvvisando alla batteria e montata da Troell, nei segmenti ambientati nel deserto, intervallando sequenze brevissime; il massacro della famiglia di Danjel, ripreso da due punti di vista distinti e reso più intenso da un abile uso della musica e del silenzio. Più in generale è lo stile di Troell, fatto di frequenti sgrammaticature e improvvisazioni estemporanee, a dimostrare una libertà espressiva sorprendente per il kolossal che fino a non molto tempo fa è stato il più costoso film della storia del cinema svedese. Niente di strano però per la Nouvelle Vague svedese, di cui Troell è stato uno degli esponenti di punta. Rispetto alle più celebri Vague nate all’inizio degli anni Sessanta, la variante svedese aveva infatti per posa di presentarsi come un gruppo di amatori dalle provenienze più improbabili, digiuni di cinema e distanti dal professionismo[2], e proprio per questo capaci di catturare la realtà nella sua purezza, senza compromessi. Per The Emigrants e The New Land, nonostante le apparenze di film in costume derivati da una matrice letteraria, la questione dell’autenticità è centrale.

Se sul piano stilistico la mescolanza di epica e intimismo si infiltra nella struttura formale del film e produce dei cortocircuiti di un certo effetto, su quello narrativo l’impatto non ha nulla di disturbante. Anzi, epica e intimismo si compenetrano con efficacia e creano le fondamenta di un edificio drammatico estremamente stabile, contrassegnato proprio dall’autenticità della scrittura: l’emigrazione e la vita coniugale di Karl-Oskar e Kristina, per esempio, si riflettono l’una nell’altra, stabilendo così un gioco di assonanze e di analogie che rafforza il dramma nel momento stesso in cui lo riconduce a una dimensione quotidiana, anti-spettacolare e anti-tragica. Quella di Troell e Forsulnd è una scrittura di sentimenti complessi, invisibili e silenziosi che si insinuano e crescono nei personaggi. Max von Sydow e Liv Ullmann mettono a frutto l’intesa stabilita grazie a Ingmar Bergman, con cui hanno dato vita alle travagliatissime coppie de La vergogna e de L’ora del lupo, per offrire due interpretazioni che restituiscono la complicità di un matrimonio felice ma pieno di dolore e di disillusione (i figli nascono e muoiono talmente in fretta che non ci si premura nemmeno di dar loro un nome).

L’aspetto più importante rispetto al quale la questione dell’autenticità si dimostra essenziale, tanto da improntare ogni aspetto dei due film, è però un altro. Anche se il coinvolgimento di Troell nel progetto è da autore a tutti gli effetti, la personalità che probabilmente ha influito maggiormente sull’esito finale del film è per stessa ammissione del regista lo scenografo P.A. Lundgren, collaboratore di Ingmar Bergman dagli anni Quaranta. Proveniente da una famiglia di contadini, Lundgren è al tempo stesso artefice di ambienti e utensili e consulente per gesti e tecniche, tutti armoniosamente coordinati per avvicinare la verosimiglianza storica. I due film si nutrono di un’attenzione particolarissima per la dimensione materiale della vita quotidiana. Gli oggetti più svariati popolano l’inquadratura, la macchina da presa li isola e li trasforma in dettagli narrativi, emotivi, intimi. Questa esaltazione della vita quotidiana nei suoi aspetti materiali è ribadita dalla figura forse più ricorrente nelle oltre sei ore di durata: il dettaglio della mano, una figura che connette idealmente lavoro e affetto (una sequenza molto affascinante del viaggio in nave è raccordata tramite dei dettagli di mani che fanno il bucato, si grattano, cuciono, spidocchiano i pargoli, vestono, sorreggono, accarezzano, si macchiano di sangue).

Antinaturalistico, intimista ed epico al tempo stesso, il realismo di The Emigrants e soprattutto di The New Land prova le capacità espressive del cinema di coniugare l’introspezione e la critica sociale, l’effimero e l’epocale, il quotidiano e la Storia. Il dittico è una dimostrazione pratica (una “object lesson”) di autentica umanità.

The Emigrants/The New Land di Jan Troell, Ed. Criterion Collection, versione originale svedese, sottotitoli in inglese.


[1] Dimostrato dalla candidatura di The Emigrants all’Oscar 1972 (miglior film straniero) e da quelle all’Oscar 1973 (quattro di peso: film, regia, attrice protagonista, sceneggiatura non originale), e dal remake del 1974 di The New Land realizzato dalla ABC con una serie omonima in tredici puntate con Kurt Russell e Bonnie Bedelia.

[2] Troell in effetti era un maestro elementare, ma Mai Zetterling un’attrice famosa, il capofila Bo Widerberg il critico cinematografico del più importante quotidiano nazionale, Vilgot Sjöman un ex secondino che studiò cinema all’UCLA e fece da assistente a Bergman, Stefan Jarl e Roy Andersson furono tra i primi diplomati della scuola nazionale di cinema.