A partire da Michèle, la protagonista del magmatico romanzo Oh… di Philippe Djian, si potevano tirare un gran numero di ritratti femminili, anche molto diversi fra loro. Soprattutto, il trauma che le segnò l’infanzia (da bambina, fu in qualche modo coinvolta nel crimine del padre, che entrò nelle case di una via di Nantes, una ad una, per sterminarvi tutti i bambini presenti) poteva venire giocato in un gran numero di maniere diverse. Un Gaspar Noé, i cui film si attaccano con le unghie e con i denti a quell’implacabile determinismo che piace tanto ai fasci (Irreversible, anyone?), avrebbe detto: bene, questa subisce un trauma infantile, quindi da grande ha le fantasie di stupro e, avendo lei due palle così, le mette in pratica.

Verhoeven, che per conoscere le donne non ha bisogno né di videocamere intravaginali (quelle usate sempre da Noé in Enter the Void) né di nessun’altra protuberanza, tutte (e sottolineo: tutte) di rilevanza in fin dei conti limitata, capisce bene che nel caso di Michèle il trauma deve avere necessariamente una funzione assai diversa. Michèle non è una che si fa stuprare perché ha subito traumi da piccola. Michèle è una che, già in tenerissima età, è stata piazzata dal padre in quello che è il luogo della perversione più tipico possibile: essere, come diceva Lacan, strumento del godimento dell’Altro – che in questo caso significa: aver aiutato il padre a liberarsi, bruciandoli, degli oggetti delle piccole vittime, dopo una strage degli innocenti che più veterotestamentaria non si può (il padre, insomma, ha giocato psicoticamente a sostituirsi a Dio, a quell’Altro che più Altro non si può). E tutta la sua vita, allora, sarà orientata al dimostrare indirettamente al padre (in carcere), ignorandolo senza pietà, che no, lei non è stata traumatizzata. Elle comincia in medias res con uno stupro da lei subìto, e da lì in poi sistematicamente minimizzato – come del resto lo minimizza Verhoeven: ogni tanto il malfattore mascherato arriva, stupra Michèle e se ne va, ma in fondo il suo film si concentra su tutt’altro, ovvero sulla fitta rete di rapporti che stringe insieme i personaggi. E anzi se si comincia direttamente con lo stupro è perché nell’ottica di Michèle lo stupro non traumatizza un bel niente: prima della tempesta (cioè del trauma) non c’è alcuna quiete, perché tutta la sua vita ruota intorno al rendere onnipresente il trauma, in modo da renderlo indifferente. Il che significa: cercare costantemente il godimento nel suo essere eccesso strutturale (quello in cui piacere e dolore sfumano i reciproci confini), e più ancora il conflitto (il cui eccesso non simbolizzabile è appunto godimento in quel senso), solo per vanificarli, solo per ribadire nei confronti del godimento una sostanziale indifferenza. La scena più esemplare, in questo senso, è quella in cui Michèle va di propria iniziativa a scovare e a conoscere la nuova compagna dell’ex marito: con una excusatio clamorosamente non petita, va a riappacificarsi per un conflitto che non è mai esistito, e che peraltro nulla sembrava far presagire che dovesse minimamente deflagrare. E infatti il godimento è, per lei, qualcosa che essenzialmente si finge dentro ai videogiochi (che lei produce con successo): per nulla attaccata ad esso in se e per se come invece la madre (la quale infatti, in punto di morte, sembrerà fingere agli occhi della figlia), Michèle si attacca al godimento solo nella misura in cui esso è uno strumento indispensabile per raggiungere il vero fine, che è quello di ostentare una fondamentale indifferenza al godimento.

Poi, però, il padre muore. E muore (suicidandosi) dal non reggere il pensiero che Michèle stava andando a trovarla (sotto ingiunzione della madre morente) – al punto che lei stessa sussurrerà al suo cadavere “sono stata io ad averti ucciso”. Fino a quel momento, il padre era indispensabile affinché lei potesse ignorarlo: affinché cioè la sua stessa esistenza potesse essere un continuo “sono io stessa a limitare quel godimento di cui tu, padre che non fu mai un padre, non hai saputo fornire un limite”. Ma una volta morto? A chi indirizzare questa rivendicazione? Non essendoci più la sua fantasia fondamentale a proteggerla, ecco che immediatamente dopo si imbatte nel trauma nudo e crudo (l’incidente stradale provocato dal cervo che di punto in bianco le attraversa la strada). Urge dunque una nuova protezione. Solo allora emerge la fantasia di stupro. Prima che muoia il padre, di farsi stuprare non ne ha nessuna voglia, anzi adotta ogni precauzione possibile, e si innamora del bellimbusto che sembrava difenderla dallo stupratore. Ma non appena viene palesata la coincidenza tra i due (lo spettatore naturalmente ha avuto modo di intuirla già da tempo), si creano i presupposti affinché, dopo la morte del padre e solo allora possa balenare l’idea che facendosi strumento del godimento dello stupratore (e insieme minandolo, perché godendo Michèle si sottrae dal ruolo di vittima in cui lui vorrebbe confinarla), quest’ultimo può utilmente fungere a propria volta da strumento: al contempo perpetratore della e difensore dalla violenza, grazie a lui Michèle può inscenare assai meglio di prima la mascherata per cui il godimento (nel senso, di nuovo, di eccesso, di sostanza propria del trauma, nel quale piacere e dolore sfumano i reciproci confini) viene convocato solo per essere esorcizzato (e per ritrovare il godimento proprio in questo esorcismo).

Ma se mascherata è, quali sono gli occhi per cui viene messa in scena? Elle è interamente quanto segretamente strutturato intorno a questa domanda. Si apre coi rumori dello stupro su schermo nero, seguiti dalla prima immagine: un gatto che osserva il crimine, ancora in corso e ben udibile. Da subitissimo, insomma, ci viene detto che lo stupro in sé conta meno dello sguardo per cui verrà inscenato. Di chi è questo sguardo? Lo si scopre nel climax, non prima di tutta una serie di indizi che hanno sotteraneamente costellato il racconto: la prima volta che lo stupratore viene ferito, è perché Michèle gli fa cadere una culla addosso; più avanti, la violenza consenziente ha luogo in un seminterrato al di sopra del quale dorme, ubriaco, il figlio di Michèle… e infine, una soggettiva in movimento proprio del medesimo figlio (che in qualche modo “riempie” il posto vuoto segnalato già dalla primissima inquadratura dallo sguardo del gatto), che di lì a poco ucciderà lo stupratore con le mani nel sacco, ci conferma che gli occhi in questione, sono i suoi, proprio quelli di quel ragazzotto completamente incapace di diventare uomo, succube della giovane moglie, e con un bisogno così disperato di presumersi padre che sceglie di credere suo un figlio di un colore della pelle sfacciatamente diverso. Perché il perverso, dice sempre Lacan, si fa strumento del godimento dell’Altro affinché la Legge venga posta in essere: per colmare, cioè, lo scarto tra un’originaria alienazione dal godimento operata da un padre che non arriva ad assumere fino in fondo la funzione paterna, e invece una compiuta separazione da esso, ottenuta arrivando fino in fondo della funzione paterna, che assunta pienamente può finalmente garantere l’accesso regolato al godimento. In poche parole: la consapevolissima Michèle non lo sospetta nemmeno, ma se si fa stuprare è affinché l’inettissimo figlio diventi uomo e assuma fino in fondo la funzione paterna (al punto da non avere nemmeno più bisogno del suo bébé, dimenticato in macchina nel prefinale come fosse un autoradio qualsiasi). Affinché ciò in cui il padre fu tragicamente mancante sia invece assicurato dal figlio.

Il merito principale di Elle è quello di avere costruito un inconscio a un personaggio totalmente privo di inconscio come Michèle, caso di perversione da manuale. E lo fa, appunto, distribuendo e trovando il modo di evidenziare subdolamente, a lato della narrazione, gli indizi che, come accennato poc’anzi, uno dopo l’altro vanno in direzione del finale intervento risolutivo da parte del figlio. Istillando questo sottotesto, viene creata una sorta di zona grigia della causalità: il film non arriva certo a dire che Michèle si sia di proposito fatta stuprare per istigare l’intervento del figlio, tuttavia, trova il modo di suggerire una sorta di generica plausibilità per quest’ipotesi (ad esempio inquadrando il figlio che dorme mentre la madre si intrattiene con il partner mascherato nel piano di sotto). E vale la pena ricordare che un altro film che giocava ambiguamente con la causalità in questo modo era proprio Grazie per la cioccolata di Claude Chabrol, altra pellicola cucita su misura di Isabelle Huppert.

Simili libertà con le cause e con gli effetti possono permettersele solo coloro che seguono la scia delle cause e degli effetti fino in fondo, e cioè fino a scoprire l’intrinseca inconsistenza di questa scia, a mille miglia da ogni puerile determinismo: segreto radicalmente inaccessibile ai Gaspar Noé di turno, ma perfettamente chiaro ai pochi superstiti depositari dell’arte del cinema classico. E Verhoeven indubbiamente lo è: ne è prova anche solo la maestria con cui crea movimento non per sostanziare qualche mezzuccio drammaturgico, ma per prosciugare lungo la via ogni scena e ogni dialogo fino all’osso, ovvero fino a quel tanto che basta alla densa tessitura dei rapporti tra i personaggi per formarsi istante dopo istante (ed è per fare spazio a questo formarsi, ricordiamolo, che lo stupro viene ricacciato sullo sfondo, e con esso naturalmente qualsiasi potenziale genuinamente thriller). Questa medesima, disarmante franchezza viene applicata ugualmente a quei numerosi momenti in cui fa capolino l’eccesso, in primis la violenza fisica: di sberla in sberla, il montaggio prende e costruisce all’improvviso accelerazioni perfette, che guardano l’eccesso dritto in faccia, ma al contrario dei Gaspar Noé di turno non lo mettono su un piedistallo, beandosi della puerile soddisfazione di fornire un duplicato sensibile della sostanza del corpo, del sesso, del godimento, del trauma, ma lo fanno travolgere e polverizzare da quel vortice che, nel complesso, è la franchezza stilistica che innerva il film. E polverizzato deve essere, perché l’eccesso è una mera illusione prospettica priva di sostanza propria, un’illusione su cui ruota l’intera vita di Michèle, ma proprio in quanto illusione. Anzi la forma principe attraverso cui la regia lascia fuoriuscire e propriamente sfiatare la maggior parte di ciò che eccede l’addensarsi spettrale della scrittura è la risata. E non a caso, l’unica immagine “eccessiva” su cui Verhoeven si compiace di soffermarsi senza farla travolgere da quel vortice che è la sua franchezza stilistica, è un cervello aperto.

Cineasta classico, Verhoeven ha una visione tipicamente organica: l’immagine di una società è l’immagine delle sue élite. E la nostra società è, come Michèle, perversa: ha deliberatamente rifiutato l’autorità paterna, ma ancora vuole la Legge senza averne piena coscienza. Portando la perversione alle sue estreme conseguenze, vengono portate a piena maturazione anche le premesse del folto universo umano che ruota intorno a Michèle. La vicina fondamentalista cattolica non fa una piega quando le si ammazza il marito stupratore a sua insaputa, e accetta volentieri di ripiegare sulla perversione, diventando cioè strumento diretto di Dio, una volta mozzato un vertice della sua triangolazione nevrotica. L’ex marito scrittore e il collega Kurt, creatore di videogames attaccato alla mitica “giocabilità”, si ritrovano tra loro annullando reciprocamente il godimento fallico che accomuna penna e joystick. Cineasta classico, Verhoeven ci mostra ciò che la società, senza davvero saperlo, sogna: il porsi in essere della Legge e allo stesso tempo rifiutare questo stesso porsi (Michèle lo demanda al figlio), per arrivare così a rifiutare compiutamente il godimento fallico (normalmente inseparabile, invece, dall’instaurarsi regolare della Legge): chi abbraccia la Legge è comunque sempre un altro, e a Michèle non rimane, finalmente, che il corpo a corpo non sessuale col proprio Io ideale (nella persona dell’amica del cuore, con cui comincia una casta convivenza proprio sui titoli di coda). To have the cake and eat it too.