Se sgombriamo il campo da ogni ambizione di definire o rifiutare l’etichetta “cinema omosessuale” e se, ispirandoci a Guy Hocquenghem, partiamo da una definizione minimalista che ne fa l’espressione di una cultura legata a preferenze sessuali perverse e polimorfe rispetto alla norma eterosessuale, ci troviamo nell’ambito di un cinema in cui il sesso costituisce una dimensione fondamentale. Dunque in un territorio interessante per esplorare le forme e i cambiamenti dello sguardo che il cinema oggi porta sia sulle pratiche sessuali sia sugli interrogativi soggettivi, sociali, politici connessi alla sessualità.

Ciò è tanto più vero se teniamo conto di come il mondo omosessuale è stato investito da un evento che ha inciso profondamente sui costumi sessuali del mondo occidentale negli ultimi trent’anni, cioè l’avvento dell’Aids. L’Aids ha infatti trasformato la sessualità in qualcosa di pericoloso a livelli che nessuna malattia venerea aveva mai raggiunto. Per giunta, come notò Susan Sontag ne L’Aids e le sue metafore, la sindrome si prestò a una strumentalizzazione moralista e omofoba che favorì una politica globale neoconservatrice di intolleranza e sessuofobia: “Parlare di preservativi e di aghi puliti viene percepito come occasione per giustificare e favorire i rapporti sessuali illeciti e i prodotti chimici illegali (e in un certo sesso è proprio così. L’educazione alla difesa dall’Aids ammette, dunque tollera, la varietà di espressione della pulsione erotica)”.

Un film come Philadelphia (1993) di Jonathan Demme è paradigmatico del modo in cui il cinema mainstream ad alto budget si sia fatto carico di testimoniare l’Aids e la stigmatizzazione della comunità gay ad esso associata: identificando il virus dell’HIV con una condanna a morte, spettacolarizzando il corpo martirizzato della vittima e infine evacuando, sublimando se non addirittura condannando, la dimensione sessuale dei personaggi. Da questo punto di vista, neppure Dallas Buyers Club (2013) segna significativi cambiamenti nel racconto dell’Aids al cinema: sebbene i due protagonisti non disdegnino una vita libertina, il sesso che consumano è sempre astratto o fuori campo.

Ma se torniamo al cinema omosessuale e ci allontaniamo da Hollywood, ci accorgiamo di un potente ritorno del sesso sullo schermo nonostante e, anzi, talvolta insieme al problema dell’Aids. Prendiamo il film che quest’anno ha vinto il premio del pubblico ai Teddy Awards (riconoscimenti gay) della Berlinale e sta girando i festival GLBT di mezzo mondo: Théo et Hugo dans le même bateau (Paris 05:59) di Jacques Martineau e Olivier Ducastel. Si tratta di un lavoro che per via dei venti minuti di orgia gay con cui si apre probabilmente non vedremo mai nelle sale italiane. Esso però condivide a grandi linee la costruzione narrativa di un altro gay movie fortunosamente approdato sui nostri schermi come Weekend (2011) di Andrew Haigh. In entrambi, infatti, assistiamo all’inversione delle tappe narrative in cui si svolge la frequentazione tra due personaggi: dal sesso alla relazione sentimentale. La scena di sesso si rivela così il centro nevralgico da cui prende impulso tutta una costruzione relazionale che in tal modo diventa il vero oggetto del film.

Il lavoro di Ducastel e Martineau è una storia d’amore che parte da un sex club per soli uomini di Parigi con musica techno che pompa a pieno ritmo. In questo universo rovesciato, che ha sede sotto terra come un oltre-mondo, il cuore della notte brulica d’azione come fosse l’ora di punta a Châtelet. Quel che vi si consuma è una sorta di “rito della festa”, inversione e trasgressione dei divieti conosciuti in superficie e sotto il sole. Per esempio, il dress code è rigorosamente adamitico per favorire il libero sfogo dell’esuberanza sessuale. Il rito della caccia si riduce all’osso, a qualche sguardo, a una carezza esplicita, consentendo ai baccanti la consacrazione di più energie al banchetto orgiastico. Al centro della sala principale del locale, i corpi intrecciati non si contano e a fatica si distinguono gli uni dagli altri. È la stessa scena che descrisse quel giudice della Corte Suprema di New York, citato da Leo Bersani in Is the rectum a grave?, che per giustificare la chiusura cautelativa di una sauna nel 1985, dichiarò: “Una sauna come questa istituisce una condotta orgiastica di partners multipli in successione, tale per cui in cinque minuti si possono avere anche cinque rapporti”.

Nell’iperbole si nasconde il fantasma e anche la scena iniziale di Théo et Hugo è una visione fantasmatica in cui si coagulano desideri e paure arcaiche che i registi scelgono di trattare frontalmente e in modo spoglio, quasi a scoprire il volto della bestia, guardarla dritto negli occhi per procedere oltre. Ai due autori non interessa infatti la dimensione morale o scandalosa della vita sessuale di chi frequenta i sex club ma la possibilità di raccontare l’emergere di un amore in condizioni che sembrano insolite o impossibili. Per questo, attraverso la massa dei corpi in azione, Théo incontra Hugo ed è amore a prima vista. Come hanno infatti dichiarato i due registi, “il film è un invito a godere della possibilità che un amore nasca a partire da un solo sguardo e ad accettare contemporaneamente che esso emerga nell’intreccio complesso di diversi corpi su cui si posano più sguardi”.

Dopo aver avuto un rapporto, i due ragazzi lasciano insieme il club e si avviano leggeri per le strade della città. Il film, scandito dai nomi dei quartieri che i due attraversano e dagli orari in cui lo fanno, è un omaggio a Cléo de 5 à 7 (1961) di Agnès Varda con l’Aids al posto del cancro. Nel giro di poco, infatti, Hugo scopre che durante il loro coito Théo non ha usato il preservativo e sprofonda nella paura perché è sieropositivo e teme il aver contagiato il partner. Ciò che segue è quasi pedagogia sanitaria: la chiamata al servizio d’urgenza Aids, la parola chiave per informare sinteticamente e discretamente l’accettazione ospedaliera dell’accaduto, il dialogo con la dottoressa sulla possibilità di neutralizzare la carica virale e la profilassi da seguire. Ormai legati dal rischio di sviluppare l’Aids, Théo e Hugo sono nella stessa barca (dans le même bateau) ma decidono di affrontare insieme il mare in tempesta, in barba a chi identifica l’omosessualità con l’individualismo e la mancanza di responsabilità.

Théo et Hugo dans le même bateau è un film sull’Aids in tempi in cui l’Aids non è più una sentenza di morte immediata ed è forse per questo che il mondo gay fa i conti con la possibilità di riconquistare la libertà sessuale perduta negli anni ’80 (per esempio con l’aiuto di Internet) autorizzandosi una più ampia riflessione sul rischio come dimensione inerente non solo al sesso ma anche all’amore e in genere alle relazioni. Ne è un esempio il classico del cinema francese dedicato al virus, Once More – Ancora (1988) di Paul Vecchiali, sorta di musical à la Demy che in dieci sequenze condensa dieci anni di vita tra il ’78 e l’’87 di un quarantenne sposato che scopre la sua omosessualità e l’affronta negli anni in cui scoppia l’epidemia come se il desiderio e il desiderio di morte fossero una cosa sola. Desiderio di morte che, sempre Vecchiali, ha esplorato raccontando il mondo dei cultori del sesso non protetto a tutti i costi (tra cui i cosiddetti “bug-chaser”) in Bareback ou la Guerre des sens (2006). Il rischio di contagio e di morte diventano metafore di un erotismo estremo che diventa quasi religioso, per cui si è pronti alla perdita di controllo, al sacrificio e al dono di sé. Slittamenti tra realtà e metafora di un eros eccessivo, pericoloso, contagioso, che porta alla frenesia, alla vertigine e alla perdita di coscienza e minaccia tutte le possibilità vitali: “Si tratta di impegnare la totalità dell’essere in un cieco precipitare verso la perdita, che è il momento decisivo della religiosità” (Bataille, L’erotismo).

In Kater di Händl Klaus, film austriaco che ha vinto il Teddy Award alla Berlinale 2016, questa perdita di controllo, questa carica mortifera dell’amore assume i contorni di un inspiegabile atto violento che si manifesta all’improvviso all’interno di un ménage altrimenti armonioso. Le ragioni sfuggono a chi lo ha compiuto come se qualcosa di estraneo e incontrollabile prendesse possesso del sé, che è sempre anche altro da sé. La coppia subisce il contraccolpo e va in crisi ma il film racconta il processo che i protagonisti intraprendono per resistere all’annientamento del legame. Il loro è quasi un processo ascetico di cura del sé e della relazione, un esercizio spirituale. Kater racconta insomma l’omosessualità maschile come un processo di distruzione del fallocentrismo che, come scrive Leo Bersani, non è semplicemente la sottrazione del potere alle donne ma in primo luogo l’ossessione per l’Io padrone, la negazione del valore dell’impotenza, dell’eventualità di essere distrutti, di perdere di vista il sé (e infatti uno dei due personaggi a un certo punto subisce un incidente agli occhi). Una perdita di vista che dà quasi i brividi quando nella colonna sonora di Kater i momenti d’amore scaturiscono dal suono delle note di Kind of Blue di Miles Davis e viene in mente il blu del capolavoro di Derek Jarman, un film radicale su omosessualità, Aids, perdita della vista e limiti della rappresentabilità. Al contrario, i film citati (ri)scoprono la visione frontale dei corpi e degli atti sessuali, non per fare scandalo ma per depotenziarne i tabù, compreso quello della malattia, e per tentare nuove esplorazioni narrative.