“I libri non sono soltanto la somma arbitraria dei nostri sogni, la nostra memoria. Ci offrono anche un modello di autotrascendenza. C’è chi pensa che la letteratura sia soltanto una forma d’evasione: un’evasione dal mondo “reale” di tutti i giorni, verso uno immaginario, quello dei libri. Ma i libri sono molto di più. Sono una maniera per essere pienamente umani”. Con queste parole Susan Sontag chiosava il senso della sua passione per la letteratura, filtrata attraverso gli scritti di Borges in una lettera postuma, scritta nel 1996. E anche se a volte sono solo le circostanze che ci fanno riscoprire parole che illuminano film, o viceversa film che illuminano le parole, l’“autotrascendenza” a cui fa cenno Sontag – e attorno al quale ruota la letteraratura metariflessiva dello scrittore argentino – sta al cuore del nuovo documentario di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi, Spira Mirabilis, viaggio avvolgente e suggestivo all’inseguimento della spinta umana verso l’immortalità.
I documentari della coppia di registi lavorano su diversi piani, stratificando in maniera raffinata ed esemplare un’esplorazione sensoriale in luoghi chiave della contemporaneità (l’aeroporto de Il castello, il poligono militare di Materia oscura), i cui meccanismi vengono disinnescati grazie al viaggio compiuto dagli spettatori nel film. Il passaggio da cinema diretto a un modello più contemplativo nel raccontare i dipartimenti disciplinati di Malpensa si trasforma in una presa di coscienza del nostro ruolo di spettatori di fronte a una società vittima (o fautrice) di un controllo totale, fuori dal quale ci sentiamo smarriti, privi delle coordinate necessarie per procedere nella narrazione, posti di fronte al puro scorrere del tempo e alla libertà di guardare finalmente con i nostri occhi. Spira Mirabilis parte da questa consapevolezza, già nei suoi presupposti: alla semplice sinfonia visiva ripartita sui quattro elementi naturali (acqua, fuoco, aria e terra) se ne aggiunge un quinto, l’aristotelico etere. Nella scelta possiamo leggere l’intuizione che il viaggio non sarà soltanto il dispiegamento di una storia o di una teoria, ma anche un percorso nel cinema e in quel suo potere di “autotrascendenza”.
Posti in questa prospettiva, i soggetti scelti per raccontare la tensione dell’uomo verso l’immortalità sono necessari quanto intercambiali, perché non conta tanto una tesi da dimostrare (cosa che può mettere in crisi lo spettatore, ma anche il critico, come dimostrano alcune reazioni veneziane), ma piuttosto uno sguardo da sostenere. Un atto di resistenza deciso, incessante, dolorosamente solitario che nel suo compiersi cambia se non il mondo, almeno la percezione che ne abbiamo. Per questo, il film si apre con il buio rotto dai fulmini e dalla parola misteriosa degli indiani d’America: una cosmogonia raccontata da Leola One Feather, donna sacra, alla luce del fuoco che ci rimanda all’origine dell’universo e al contempo al mistero di una lingua che sta svanendo, trascinando con sé la cultura di un popolo. A fare da eco a questo mito ne compare un secondo, che prende vita con l’accensione di un proiettore cinematografico: la lettura del racconto L’immortale (tratto da L’Aleph) spalanca il film alla dimensione del doppio, alla quale appartiene tutta la letteratura di Borges, e la voce suadente di Marina Vlady enuncia la strenua ricerca dell’uomo verso l’eternità, di cui è lei stessa traccia: voce (che si farà corpo solo nel finale) eternata da un mezzo che dona l’immortalità attraverso l’impressione di realtà.
Lontano dal tempo e dallo spazio, c’è l’incipit di un’opera che si articola come una sorta di genesi, un processo creativo messo in moto dall’uomo in una danza avvolgente che spazia dal principio del mondo alla sua fine, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, dalla passione del singolo alla resistenza di una società, senza mai dimenticare la dimensione concreta e laica da cui tutto si genera: l’ostinato lavoro dell’uomo. Se è l’incavo nero di una grotta arcaica, da cui emerge il marmo che darà vita al Duomo di Milano, il luogo in cui ancora una volta tutto ha origine, è nei gesti concreti di uomini e donne che si sperimenta la lotta contro il tempo e il suo incessante atto di erosione. Quello atmosferico che corrode le statue sulle guglie del Duomo, intente a compiere il loro viaggio verso la continua rinascita grazie all’incessante restauro di un monumento simbolo della città (nell’episodio che ha dato vita a un film a se stante, L’infinita fabbrica del Duomo, sorta di spin-off rispetto a questo progetto più complesso e articolato). Quello della Storia che riduce ogni alterità, schiacciando i popoli che tengono in vita la loro cultura, come accade nella riserva Lakota che ha difeso con la forza i propri confini, ma è destinata a una lenta dissolvenza della propria cultura. Quello della società che isola e separa il lavoro artistico, condotto con la cura e la consapevolezza dell’artigiano, in tempi in cui domina il mercato globale, facendo risultare due “angeli” stranieri (e non per nazionalità ma per spirito) i musicisti Felix Rohner e Sabina Schärer intenti nella costruzione dell’Hang, strano strumento musicale dalle (ri)percussioni profonde. E infine il tempo che risuona in ogni individuo che sogna la vita eterna, come la minuscola medusa dalle proprietà rigeneratrici scoperta in Giappone da Shin Kubota, scienziato con la passione per il canto, che ha dedicato la sua esistenza allo studio del ciclo immortale dell’orgainismo.
Contro la dimensione temporale si dispone il montaggio del film che, per la prima volta nella filmografia dei due registi, cerca di rintracciare una possibile “drammaturgia del bene” fuori dai conflitti che regolano la tradizionale narrazione cinematografica (non solo nella finzione ma anche, e soprattutto, nel documentario). Da qui origina lo straniamento spettatoriale, perché durante la visione non si avverte mai la costrizione di un incedere fatto di cause ed effetto (se non in rarissime sequenze poste nella parte finale del film), quanto piuttosto l’essere di fronte al lavoro del tempo contro il tempo del lavoro: in questo sdoppiamento, che resiste per tutto il film, è chiamato in causa lo spettatore, libero di confrontarsi con un nuovo statuto delle immagini che sfidano la durata dello sguardo, e poco a poco conducono a guardare oltre i gesti delle mani, oltre i volti delle statue, oltre i corpuscoli al microscopio e le immagini di un passato che riaffiora da lontano. Ogni atto diventa puro movimento, rivelando lo sforzo nell’istante e il pensiero (oserei dire l’ideale) che domina ogni fase. Forse per questo il film sembra cedere spazio, soprattutto nella seconda fase, ai ricordi riflessi su superfici trasparanti, luogo di sogno dove ogni responsabilità prende vita.
Parafrasando Sontag, “il cinema non è solo la somma arbitraria dei nostri sogni, della memoria”: il cinema ha in sé il dono della autotrascendenza, in grado di rivelarci profondamente umani. Una dichiarazione che raccoglie perfettamente l’impresa impossibile di Spira Mirabilis, un film che chiede di essere spettatori partecipi, portatori di un nuovo pensiero, più libero e consapevole.
Spira Mirabilis di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi, Italia/Svizzera 2016, 121′, in sala dal 22 settembre, I Wonder.