A riavvolgersi su se stessa, la filmografia di Julio Bressane aveva cominciato già nei primi anni Settanta. Già allora, pochissimo tempo dopo il suo esordio (Cara a cara, 1967), i suoi film avevano cominciato ad ospitare il riuso di brevi scene di film già realizzati in passato, a mo’ di ricorrente rima intra-filmografica (ad esempio, un impassibile primo piano di Helena Ignez dalla cui bocca esce un imprecisato liquido rosso). Negli ultimi anni, questa tendenza si è intensificata. Lo mostra soprattutto Rua Aperana 52 (2012), bachelardiana cripto-autobiografia found footage in cui vengono montati insieme spezzoni da tutti i film (praticamente tutti quelli da lui realizzati) in cui appare una certa curva su una strada in salita non lontana da casa sua. Come ha dichiarato lo stesso Bressane, è come se sempre più spesso lui venga “visitato” da immagini girate molto tempo prima, le quali chiedono ulteriore attenzione. Chiedono, insomma, che ci si occupi ancora di loro.

Quelle che con maggiore impellenza domandano un corpo a corpo non più rinviabile, sono le immagini girate durante un viaggio in Oriente (India, soprattutto) negli anni Settanta insieme alla compagna Rosa Dias, che di queste immagini è il plateale centro di gravità. Materiale da quel girato chiudeva già Rua Aperana 52 – e viene anche incluso in questo ultimo, straordinario Beduino. In ambo i film, di quelle immagini colpisce come l’occhio della cinepresa finisca per relegare sullo sfondo l’esoticità dei luoghi, e venga attratto quasi magneticamente dal corpo della compagna, in una stretta ultravoyeurista e al di là della voyeurismo, in maniera non dissimile a come la cinepresa di un Brakhage si è trovata ad esplorare un corpo femminile amato. Beduino sembra dunque avere finalmente centrato (e dunque esorcizzato?) quello che costituiva il cuore oscuro di quelle immagini: la differenza sessuale, e di conseguenza l’asimmetria scopica tra l’occhio del voyeur maschile perverso e il corpo femminile.

Per cimentarsi frontalmente con la differenza sessuale, Bressane ha scelto, molto appropriatamente (quanto inaspettatamente) la cornice del doppio sogno – proprio in senso kubrickian-schnitzleriano. Esattamente come in Eyes Wide Shut, c’è una donna che sogna e che sa di sognare, o meglio, che si identifica così tanto col suo sogno che automaticamente crea una distanza rispetto ad esso, e dunque una qualche forma di consapevolezza catartica che consenta di maneggiare il sogno, e metterlo coscientemente da parte. E poi c’è l’uomo, che parte ottusamente dal punto opposto, e cioè dalla distanza, solo per venire, al contrario, posseduto integralmente dal proprio sogno, in totale passività.

L’uomo e la donna, in Beduino, vengono visti all’inizio incrociarsi in direzione ostinatamente contraria, guarda caso di nuovo sulla strada “protagonista” di Rua Aperana 52. Solo alla fine potranno camminare, sulla medesima strada, l’uno accanto all’altra; solo dopo un intero film consumatosi tutto dentro lo stesso interno dominato dal colore rosso (toh, un altro significante kubrickiano), nel quale i due arrivano in fondo a ciò che li separa irrimediabilmente, ovvero la differenza sessuale, ovvero il diverso modo di sognare. Lei (Alessandra Negrini, musa di tutto l’ultimo Bressane), la vediamo dormire, sognare (eccole) le immagini di repertorio di Rosa Dias nel viaggio in Oriente degli anni Settanta, e stringere, mentre dorme, quella stessa fune che vediamo in quelle immagini. Lui, non lo vediamo sognare. Vediamo però passare svariate scene (incorporate come sono incorporate le schegge di quel lontano “home movie” indiano) di un vecchio film di Bressane, quel Memorie di uno strangolatore di bionde che il regista girò a Londra nel 1971, e nel quale si vede esclusivamente il maniaco del titolo indulgere in una incessante ripetizione del suo gesto omicida, ai danni di innumerevoli vittime. Dopodiché, il “lui” di Beduino racconta la storia dello strangolatore, e… senza che lui se ne accorga, finisce per diventarlo. Sta persino per mettersi a strangolare “lei” ma… qui il film vede smarginarsi i propri contorni. Gli attori smettono di recitare, tornano loro stessi, la troupe invade il campo. Vediamo persino un ciak davanti all’obbiettivo. La barriera della finzione è stata infranta, e con essa si infrange pure quella barriera la cui tenuta giustificava e permetteva il godimento dello sguardo voyeurista, che ora vede smarginarsi il proprio oggetto nell’informità del passaggio senza soluzione di continuità dalla finzione al “making of”, alle riprese “documentarie” della troupe di Beduino che si appresta a girare, con ciak e quant’altro. Lo sguardo prettamente maschile del voyeur vorrebbe entrare in un oggetto (“il film”) che gli sta davanti e che gli è separato. Ora però quest’oggetto perde la sua consistenza, vede vanificare i propri bordi. Inseparabilmente, lo strangolatore rimane senza oggetto da strangolare (la barriera della finzione si infrange proprio mentre lo strangolamento sta per avere luogo), e il voyeur rimane senza un oggetto da penetrare, dal di fuori, con gli occhi.

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Beduino, del resto, comincia proprio alludendo a una tale “penetrazione con gli occhi”. Riprese “documentarie” sul set della troupe intenta a preparare una scena, appena prima del ciak, “coperte” da un mascherino nero con in mezzo un buco a forma di occhio. Il voyeur “penetra” con lo sguardo al di là, ma trova solo l’oggetto inconsistente di questa “informe” restituzione documentaria del “making of” – al posto del film. Tutto Beduino è infatti, nel suo complesso, una sorta di chiosa sull’intrinseca impossibilità della penetrazione (ovvero, il che è lo stesso, sull’invalicabilità strutturale della differenza sessuale). Tra le molte immagini indimenticabili del film, spicca probabilmente il trenino giocattolo su cui viene montato l’occhio della cinepresa, sopra la cui pista si accovaccia gattoni “lei”. Man mano che il trenino avanza, abbiamo l’impressione che l’occhio che lo accompagna stia per penetrare il suo corpo… ma immediatamente essa si rivela una mera illusione (è del resto davanti a lui cieco, che lei si denuderà più avanti nel film).

In un’altra scena, si nota quello che è uno schema fotografico assai ricorrente in Beduino: una luce di calore e intensità quasi accecanti invade l’interno tendente al monocromatismo, e interagendo con quest’ultimo viene riflessa su una superficie. Al che, “lei” fa il gesto di prendere il fascio di luce con le mani, e su di esso simula una sorta di cunnilingus. Viene voglia di fare di quest’immagine una sorta di chiave complessiva dell’intero film. Quella fenditura che è la differenza sessuale non si presta ad essere “penetrata”: non può cioè essere oggetto di un inquadramento frontale, di una definizione stabile, di una risoluzione soddisfacente. È, piuttosto, un buco a cui si può solo girare intorno. Ed è questo che il film fa, dall’inizio alla fine. Inanella una serie di brevi scene, tutte o quasi fatalmente irrelate le une dalle altre, ognuna delle quali corrisponde a una brillante intuizione visuale, un guizzo figurativo, una felice invenzione formale, e ognuna di esse, e al contempo nessuna può venire vista quale raffigurazione della differenza sessuale. Letteralmente, il film continuamente gira intorno al punto (la differenza sessuale) senza mai centrarlo, perché non lo si può.

E qui ritorna il nietzscheanesimo che il regista ha sempre professato (tanto più che a un certo punto viene mostrata nientemeno che la roccia davanti a cui Nietzsche fu travolto dall’idea dell’eterno ritorno): c’è solo un infinito sfogliarsi di maschere, ma mai un approdo definitivo. Perché impossibile da racchiudere una volta per tutte è la fondamentale asimmetria tra uomo e donna. In una di queste scene, “lei” guarda verso la cinepresa, avvicinandosi in movimento, sciorinando una parabola sull’immancabile Pigmalione di turno che fa irrefrenabilmente pensare a Vertigo. E lui? Lui intanto sta di fianco, si avvicina e si allontana, ma mai conquista rispetto a lei una posizione accettabilmente simmetrica. Ed è per questo che tra uomo e donna può esserci solo la guerra. E guerra è: nell’elegante interno che ospita il film, lui e lei si combattono dietro il filo spinato, con armi, esplosioni ed elmetti in piena regola (toh, la guerra: un altro significante kubrickiano).

Non c’è penetrazione: il vuoto non si riempie con un pieno, perché mancanza ed eccesso, paradossalmente, coincidono senza mai stabilizzarsi. E qui torna in mente un’altra memorabile scena, quella in cui un bicchiere è piazzato davanti all’obbiettivo durante un suo movimento rotatorio a 360°. Quando è fuoco il bicchiere, lo sfondo non lo è. E viceversa. E quando vediamo quello che dobbiamo vedere (cioè lui e lei) il bicchiere è vuoto, ma più si allontana da questo “centro”, più si riempie.

Non si penetra la luce; non si buca un cerchio di fumo con un ago. L’unico che penetra, è quello che procede nel deserto, sapendo di percorrere sempre e solo il deserto: il beduino.