Da anni il lavoro di Tizza Covi e Rainer Frimmel ci riporta a una dimensione altra di fare cinema: il loro metodo, che si è affinato di film in film, non ha mai osato superare la dimensione artigianale e familiare, consegnando un corpus di opere la cui sincerità si rispecchia con la pratica messa in atto. Da Babooska a La pivellina (unico film che ha avuto una seppur piccola distribuzione in sala), da Der Glanz des Tages fino a Mister Universo (presentato quest’anno in concorso al Festival del film Locarno), si snoda un percorso volto a seguire un gruppo di circensi nella periferia romana, utilizzando il loro essere apolidi e svincolati da ogni forma di globalizzazione per offrire un punto di vista alternativo sulla società che stiamo costruendo.

Per chi non si è perso un tassello, ma anche per chi ha avuto l’occasione di vedere soltanto La pivellina, Tairo è un personaggio noto: bambino indipendente e estremamente espansivo, intento a studiare la storia italiana senza voglia, rapidissimo ad apprendere qualsiasi insegnamento dagli adulti, in Mister Universo lo ritroviamo ormai uomo. Sedicenne, innamorato della snodata Wendy e depresso per i suoi leoni ormai vecchi e malati, si esibisce senza troppa convinzione nel suo numero da domatore, incerto sul proprio futuro. Sarà la scomparsa del suo portafortuna, un ferro piegato dal Mister Universo del titolo, a farlo muovere per cercare “quel qualcosa” che gli manca in un viaggio lungo l’Italia da Roma verso Milano. Poche situazioni, estremamente semplici, per raccontare un passaggio d’età, una presa di distanza da madri e padri (reali o fittizi che siano) incontro a “un mago” che nonostante la sua attuale debolezza fisica possa rinfrancare da quella esistenziale il ragazzo. Come accade nel regno di Oz, la bufera che ha portato Dorothy lontano da Kansas è pronta a riportarla a casa cambiata: senza alcun premio tangibile, ma con qualcosa che nessuno può toglierle.

C’è una perfetta assonanza tra la dimensione circense che avete scelto di seguire in questi anni e il lavoro che fate: il vostro è un cinema marginale rispetto sia al contesto italiano sia a quello europeo, e “familiare”, nel vostro essere solo voi due sul set. Queste pratiche si rispecchiano con quello in cui credono le persone che filmate: portano avanti un progetto, il circo, che è un’arte marginale e familiare. Come è iniziato questo doppio rispecchiamento?

Tizza Covi: In effetti è veramente così. Abbiamo studiato entrambi fotografia e il primo lavoro che abbiamo fatto insieme era un piccolo reportage fotografico sui circhi in Italia e in Austria. In quel periodo abbiamo conosciuto così tanta gente interessante, che abbiamo cercato il modo di restare con loro: guardando la vita degli artisti dietro le quinte, si è accesa una passione che fino adesso non si è spenta. Ad esempio Mister Universo lo abbiamo conosciuto diciotto anni fa, lo abbiamo visto esibirsi. In realtà il ferro, l’amuleto portafortuna del film, è nostro: lo ha piegato nel suo show e ce l’ha regalato: lo conserviamo ancora a Vienna, dove abitiamo, ed è sacrosanto. L’idea farlo diventare protagonista di un nostro film l’abbiamo da allora, poi siamo tornati a cercarlo, come ha dovuto fare Tairo. Inoltre il nostro modo familiare di fare film, il nostro essere in due e abitare nell’ambiente in cui scegliamo di girare, è stato pienamente capito e accettato dai circensi. In questi anni ci hanno fatto un grande dono, permettendoci di far parte della loro famiglia: non è per nulla scontato, noi restiamo pur sempre “gaggi”, quelli di fuori.

Rainer Frimmel: Abbiamo un grande amore per i margini, no? (domanda, cercando conferma nella compagna) E così abbiamo provato a immaginare un metodo giusto per fare finzione ma usando il documentario, qualcosa che potesse essere in dialogo con la loro marginalità che è diventata anche la nostra. Comunque tra noi e loro sono subito apparse delle chiare somiglianze: entrambi stiamo sempre sperando che venga il pubblico!

FI: Anche se la vostra idea di cinema resta la stessa, da La Pivellina ad oggi possiamo immaginare che il vostro modo di lavorare si sia evoluto. Ad esempio Mister Universo sembra un film più scritto rispetto ai precedenti.

TC: Dopo tanti anni che lavori, ti accorgi di quanto alcuni sbagli continui a farli. Avevamo scritto l’idea del film e steso una sceneggiatura: un piccolo racconto di circa venti pagine in cui a grandi linee impostiamo cosa succederà prima e dopo, cerchiamo un possibile svolgimento drammatico ma alcune sequenze decidiamo di non inserirle immediatamente. Faccio un esempio: c’è questa strada in salita vicino a Castel Gandolfo dove tutto sale, fin dall’inizio volevamo girare una scena lì ma solo al montaggio abbiamo deciso dove collocarla rispetto alla storia. Diciamo che al montaggio facciamo sempre dei piccoli miracoli… A parte questa sequenza, ce ne sono molte altre che abbiamo girato: ad esempio mentre eravamo in viaggio lungo l’Italia con Tairo ci si sono presentate diverse occasioni interessanti, ma abbiamo capito che se le inserivamo nel film sarebbe diventato troppo sociale e specifico, sui problemi che sta affrontando l’Italia. Quindi, anche se comporta una grande fatica, bisogna saper rinunciare ad alcuni attimi, seppur belli e veri, per seguire la storia. Altri si può accoglierli invece nella narrazione per farla diventare più ricca e profonda.

Cosa vi interessava particolarmente della strada di Castel Gandolfo?

TC: Abbiamo pensato il film come attraversato da tantissimi movimenti controcorrente, abbiamo questa strada dove tutto sale, abbiamo Tairo che cammina contro il flusso della processione, abbiamo la candela che va contro la corrente del fiume, abbiamo Wendy che piega il suo corpo contro quella che dovrebbe essere la spina dorsale normale. E anche noi andiamo controcorrente nei nostri film, lavorando in due, lavorando tantissimo ma con pochi mezzi.

Ci interessa capire da cosa è composto il canovaccio da cui siete partiti e che avete proposto a Tairo per Mister Universo.

TC: L’idea era compiere un viaggio alla ricerca di Mister Universo: il nostro intervento, per essere efficace, deve restare minimo. Più piccola è la storia, meglio possiamo mostrare e dare spazio alle cose quotidiane. Abbiamo una predilezione per i piccoli gesti che normalmente non si notano e che si dice che al cinema annoino. Comunque rispetto alla storia che abbiamo raccontato all’inizio a Tairo, più o meno è rimasta la stessa, c’è solo un personaggio che abbiamo aggiunto, un altro che non abbiamo trovato che invece era scritto.

RF: Dobbiamo però far notare che nessun dialogo è scritto, i nostri film si nutrono delle cose che succedono per caso. Specialmente nei dialoghi, abbiamo bisogno di persone che hanno questa voglia di mettere la loro vita in parole e che hanno il coraggio di farlo a modo loro.

Come è cambiato il rapporto con Tairo rispetto a La Pivellina in cui era un bambino? Siete tornati a filmarlo in un momento veramente complesso della sua vita, come adolescente ha molta attenzione all’immagine di sé, quindi è forse più problematizzato di fronte alla camera oppure no?

TC: È stato il nostro primo pensiero! Temevamo anche che Tairo avesse delle grandi aspettative sul film e che si comportasse diversamente con noi, ma fortunatamente non è stato così. Siamo così in intimità con lui, lo conosciamo sin da bambino, e alla fine non è stato diverso dalle altre volte. Il bello di Tairo è il suo essere poco prevedibile: ci piace tantissimo, può essere molto provocante, può essere dolcissimo, può essere più scontroso, questa suo essere imprevedibile lo rende perfetto di fronte agli altri personaggi con i quali deve entrare in dialogo.

La storia con la contorsionista Wendy partiva dalla realtà?

TC: No, abbiamo cercato noi una fidanzatina per Tairo. Quando facevamo le ricerche, abbiamo incontrato Wendy e ce ne siamo innamorati subito: bella e dolcissima, recita anche molto bene. Ma la cosa che ci ha convinto era la sua superstizione, stavamo cercando qualcuno che lo fosse e portasse nel film questo aspetto. Un esempio di come “rubiamo” dalla realtà sta nel fatto che avevamo scritto che Wendy indagava sul proprio futuro attraverso le carte, avevamo anche scelto una cartomante, ma Wendy ci ha fatto scoprire che è sempre la cartomante ad andare nelle case. Perciò abbiamo usato la sua vera cartomante: in fin dei conti adattiamo sempre la storia ai nostri protagonisti per non essere troppo lontani dalla loro vera vita.

In un momento de La Pivellina si diceva che i leoni di Tairo stavano crescendo: la morte dei leoni è un espediente drammaturgico o un fatto reale da cui siete partiti?

TC: Ci piaceva raccontare la crisi dell’adolescenza non solo come qualcosa d’interiore. Allora abbiamo aspettato che i leoni invecchiassero: poi improvvisamente abbiamo sentito Tairo e un leone era morto, gli altri voleva cambiarli prima di partire per un lavoro in Ucraina. Era un momento cruciale, in cui non potevamo ritardare oltre l’inizio delle riprese, ora o mai più. Siamo partiti senza sapere se avevamo i soldi per portare a termine il progetto, inoltre ero pure infortunata (mi ero rotta il tendine d’Achille dieci giorni prima), però ce l’abbiamo fatta. Qualche volta si deve essere testardi per ottenere qualcosa.

Da chi è prodotto il film, e come avete collezionato i fondi per produrlo? Voi avete una vostra società, la Vento Film.

RF: Fortunatamente in Austria esiste un fondo che dà i soldi a film non commerciali, siamo indipendenti e possiamo fare quasi qualunque cosa vogliamo senza pensare che debba essere un grande successo. Questo è un bel fondo, non hanno tanti soldi ma è una realtà molto importante per i filmmaker austriaci.

TC: Bisogna lottare per avere la massima libertà sul set e questo non vuol dire avere assistenti, un grande cast ma vuol dire anche poter spendere due giorni senza lavorare, ma pensando a come si potrebbe migliorare. Questa libertà non la vogliamo perdere, qualche volta facciamo anche un passo più lungo della gamba perché in due sul set a volte è dura però ti dà veramente l’impressione che puoi fare quello che vuoi. Poi il film non diventa mai come lo immagini, ti sorprende.

Quando Tairo incontra Mister Universo, l’impressione è che fosse una sorta di Dorothy nei confronti dell’omino che sta dietro il mago di Oz. Per tutto il film si attende e si narra dell’uomo più forte del mondo e quando finalmente arriva quasi non ci si accorge che è lui, invece ha comunque un potere grandissimo da offrire a Tairo.

TC: Esattamente. E sai cosa ci piace tantissimo in questa scena? Tairo non lo aveva più visto da quando era bambino, quindi è cento per cento documentario: quando lo incontra, quasi non lo riconosce ma poi il viso gli si illumina, come se fosse ancora innamorato di lui, anche se è un vecchietto. Poteva non interessargli più, rimanere deluso, e invece come era contento di potersi allenare con lui! Una volta tanto è andata come l’avevamo scritta e immaginata.

RF: Ma ci sono stati diversi momenti accolti dalla realtà nella parte finale del film: ad esempio la scena in cui Tairo entra in casa di Arthur Robin (alias Mister Universo) e riesce a riparare il guasto all’impianto dell’acqua è un fatto che non potevamo prevedere. E la moglie di Arthur che gli dice: “Ti ha mandato Dio”. Quando è avvenuto abbiamo capito che era un momento chiave del film.

TC: Arthur Robin è un uomo veramente molto modesto. Per noi è stato un grande regalo il fatto che abbia accettato di fare il film, lo abbiamo cercato per tanto tempo e lui ci ha riflettuto molto. Era un uomo conosciuto, bello e tante produzioni cinematografiche volevano lavorare con lui negli anni ’60 e ’70 ma nel circo, avendo un contratto, non si poteva assentare per mesi dal lavoro ed essendo molto corretto non aveva mai accettato. Era un rischio farsi vedere ora, da anziano, ma penso che abbia accettato perché ci conosceva a tal punto da darci fiducia.

Pensate di aver esaurito il vostro sguardo su questo mondo?

TC: Assolutamente si, ci sono altri universi che ci aspettano e speriamo di riuscire a iniziare una nuova strada già dal 2017. E poi Mister Universo è il nostro primo film in cui alla fine si trova qualcosa, gli altri hanno tutti un finale aperto, qui invece Robin trova il ferro o lo trova Wendy e c’è una vera e propria fine. Questo è un segno: abbiamo trovato una fine.

A livello globale si sente molto dire che il cinema commerciale è ormai passato al digitale però molti tra gli autori della vostra generazione e quelli più giovani stanno in realtà tornando alla pellicola. Ci sono diversi film – anche in questo festival – girati in pellicola, stavo guardando adesso quello di Eduardo Williams, che è un filmmaker ventenne nato con il digitale ma ha scelto la pellicola.

RF: Molte persone hanno perso il proprio lavoro nel mondo dei laboratori della pellicola (a loro abbiamo dedicato il nostro film), che purtroppo diminuiscono di anno in anno. È un grande peccato che una conoscenza così approfondita vada persa per sempre perché questa gente ha un’esperienza che andrà perduta…

TC: Questo è il quinto film che facciamo in pellicola, crediamo tra l’altro sia il modo più economico: è vero bisogna girare poco materiale, però poi abbiamo una qualità ottima, non bisogna più farci niente. La post produzione è molto più facile che in digitale ed è il nostro modo di lavorare. Noi vorremmo continuare e speriamo che un po’ di laboratori riescano a proseguire questa attività.

Mister Universo ha una distribuzione italiana?

RF: Ancora no, speriamo. Ci farebbe piacere, una piccola distribuzione per condividere questo film anche con il pubblico italiano. In fondo è la chiusura di un percorso, fatto dall’Italia verso l’Europa.

(Intervista realizzata al 69° Festival del film Locarno, realizzata insieme a Alessandro Stellino e Lara Saderi)