Ispirato a un fatto di cronaca del 2007 culminato con l’omicidio di un produttore di video porno gay, King Cobra racconta l’ascesa al successo di Brent Corrigan (al secolo Sean Paul Lockhart), il twink più famoso del web. Che anche l’industria dell’hardcore omosessuale avesse una sua dark side era cosa risaputa, e non sorprende vederla portare alla luce da Justin Kelly, allievo di Gus Van Sant e già regista di un film controverso, I Am Michael, anch’esso basato su una storia vera, quella di un ex attivista gay riconvertitosi al cristianesimo e all’eterosessualità.

Il suo secondo film è scandito da svolte ben distinte. La prima parte racconta dell’arrivo dell’ancora minorenne Brent nella casa di Bryan Kocis (nel film chiamato Stephen) e serve a introdurci nel mondo sotterraneo dell’industria del porno omosessuale. Siamo in California, ma lontanissimi dalle sfavillanti mansion del porno mainstream ritratte da Paul Thomas Anderson nel malinconico e insuperato Boogie Nights. Quello gay è un porno ancora closeted, girato e prodotto dietro la facciata di rispettabilità tristanzuola dei sobborghi: Stephen ha fondato la fortunata Cobra Video, ma conduce un’esistenza understated fingendosi fotografo. Del resto, gran parte delle sue pur copiose entrate viene reinvestita nel cachet delle giovani star che coltiva e promuove. Sull’altro fronte abbiamo la coppia formata da Joe (James Franco, che ha coprodotto il film), produttore della casa rivale Viper Boyz, e la sua star principale Harlow, ancora più ai margini, fra ambizione spropositata e squallida realtà fatta di marchette e anabolizzanti. Nonostante gli inequivocabili segnali di desolazione, la parte iniziale sembra vista attraverso gli occhi del giovane Brent: la combo vincente di sesso vorace e facili guadagni fa sembrare a questa novella Alice la modesta villetta di Stephen un paese delle meraviglie, e il regista riesce a escogitare soluzioni ironiche e convincenti per rappresentarne i baccanali.

Nella seconda parte, quando i rapporti tra Stephen e Brent prendono a incrinarsi e Joe e Harlow iniziano a prospettare all’enfant prodige una collaborazione con la Viper, i toni virano bruscamente al thriller e il film lascia spazio a una triangolazione tra i personaggi più sofisticata, ma non sostenuta da un ritmo adeguato. Emergono tuttavia i caratteri emblematici dei protagonisti e le relazioni che li legano: la coppia grottesca e sopra le righe composta da Joe e Harlow svela il proprio rapporto di dipendenza, rispecchiando la dinamica servo-padrone che intercorre tra Stephen e Brent. Il giovane attore, da agnello iniziale, si rivela un piccolo squalo ben deciso a sfruttare autonomamente il proprio potenziale, mentre la vera vittima è non a caso il King Cobra del titolo, il personaggio in tutto e per tutto tragico di Stephen (interpretato magistralmente da Christian Slater), già dall’inizio più un kubrickiano Humbert Humbert che non un professor Higgins, lo scaltro Pigmalione di Cukor. Sarà lui infatti a finire ucciso da Joe e Harlow, decisi a togliergli i diritti su Brent. L’omicidio però è dilettantistico come i suoi esecutori, che vengono subito catturati in una lunga e drammatica sequenza al ralenti in cui Franco sembra sforzarsi di riportare in vita il suo indimenticabile personaggio in Spring Breakers.

Questa terza virata, stavolta nel mélo, si spiega se si intende tutta l’operazione come un tentativo di raccontare un fatto di cronaca attraverso l’estetica camp della pornografia che produceva Kocis e che oggi produce (occasionalmente prestandosi anche come attore) lo stesso Corrigan. Ne sono una prova i cammei di Alicia Silverstone nel ruolo della madre di Brent e di Molly Ringwald in quello della sorella perbenista di Stephen, e la spassosa sequenza finale, che mostra Brent su un set idillico e bucolico, all’apice della carriera. È quando si rivolge al dramma e al thriller che Kelly mostra i suoi limiti di scrittura e regia. Dimostra di non cogliere il potenziale e l’importanza della strategia estetica legata alla sottocultura omosessuale che vorrebbe raccontare, quell’ironia camp a cui ricorre solo come divertissement. Nel tentativo di appigliarsi a generi più canonici e “seri” scade invece, purtroppo ma inevitabilmente, nel kitsch.