Cosa esattamente non funziona in un film come The Lost City of Z, girato in 35mm, in formato 2.35:1 e illuminato da una meravigliosa, sognante luce opaca, modellata in maniera maniacale sull’allure del cinema hollywoodiano di fine anni ’70 e dei primi anni ’80? Perché, nonostante lo straordinario talento di James Gray per la composizione delle singole inquadrature, il suo ultimo film è velato da una nebbia soffocante, mortifera, come se uno spettro attraversasse le immagini in tutta la loro ampiezza e profondità? E di che spettro stiamo parlando? E perché la cosa riguarda, non solo il cinema di Gray, ma tanto cinema hollywoodiano di questi anni?

The Lost City of Z realizza un sogno. E così facendo lo consuma. Quale sogno? Il sogno di rivedere il cinema d’un tempo, di ricrearlo in maniera letterale. La luce, le ombre, i riflessi, la matericità della fotografia di Darius Khondji fanno di tutto per rievocare l’aura perduta delle immagini di I cancelli del cielo o di Momenti di gloria, l’audacia di Vilmos Zsigmond così come la normalizzazione di David Watkin. L’effetto toglie il fiato, ma delle immagini non riporta in vita l’essenza, la loro natura caduta ormai nell’oblio, solo il ricordo che ne abbiamo. E dunque toglie loro il riverbero, la possibilità di andare oltre i limiti dello schermo, come se si specchiassero l’una nell’altra in un’unica grande sovrapposizione.

The Lost City of Z è soprattutto la messa in opera di un’ossessione; un esperimento così personale e solipsistico da rendere evidente la sovrapposizione fra regista e personaggio, e quasi superfluo il racconto stesso, i suoi spazi, i suoi tempi. Come in C’era una volta a New York, l’ultima inquadratura del film è sdoppiata grazie alla presenza di una superficie riflettente, là un vetro qui uno specchio: una donna esce da un palazzo e, inquadrata di spalle, entra contemporaneamente in una foresta. Un sogno che si trasforma in materia concreta; vale a dire, il cinema di James Gray immobilizzato da una convergenza di forze opposte la cui risultante è zero.

Ricalcato maniacalmente su un modello perduto perché superato, The Lost City of Z è il film che si sarebbe voluto vedere da sempre. E dunque un film che non andava fatto né visto. La dimostrazione che il cinema di un tempo è ancora un’ipotesi possibile, ma è il tempo stesso a sfuggire alla nostra percezione. Se questo avviene, se Gray è in grado di fare una copia carbone dei propri ricordi, il suo peccato di hubris è forse il sintomo di un’afasia che supera le ossessioni affascinanti e folli di un regista e sfocia nella natura stessa del cinema contemporaneo.

Ciò ha anche a che fare con il ritorno della pellicola: se la pellicola prima o poi ritornerà – e se le cose resteranno come adesso – ritornerà inevitabilmente come versione di sé stessa, come calco o racconto di una decadenza (si veda la luce giallognola e declinante di È solo la fine del mondo). Mentre se in futuro vorrà esistere e resistere al digitale dovrà trovare il modo di rigenerarsi, di far germogliare dalla propria luce pastosa una realtà inattesa, quel riverbero che alle immagini di Gray manca e che invece possiedono quelle di Personal Shopper di Assayas, dove tocca alla profondità di campo – e alla tenuta di una luce materica – far nascere l’imprevedibile.

È il digitale stesso, in fondo, a puntare non sulla profondità ma, all’opposto, sulla piattezza della superficie, sulla convivenza di forze contrapposte. In 20th Century Women di Mike Mills, ad esempio, gli anni ’70 non sono riproposti nei loro presunti colori e umori trasmessi dalla vulgata vintage: il 1979 di Jimmy Carter è quasi un pretesto, o forse, proprio per la sua invisibilità, un puro e semplice contesto. Tutto ciò che Mills si limita fare, per giunta solo in un paio di momenti, è aggiungere alle immagini qualche effetto fluo che scontorna i bordi o qualche filtro processing in stile Instagram. Il passato, più che un fantasma, è un presente in divenire, la realizzazione del sentimento del tempo. E per questo la voce off dei personaggi risiede in un al di là indefinito (l’al di là del film stesso) che passa indistintamente dal ’79 al ’99 («It’s 1979, I’m 55 years old… It’s 1979, I’m 55 years old, and in 1999 I will die of cancer from the smoking…») e porta ogni elemento idealmente in superficie. Come per James Gray, il cui film è fondato piuttosto sulla memoria del sentimento, anche per Mills all’immagine tocca esprimere una visione ambigua e conflittuale del passato: il desiderio d’immersione (non filmica ma personale) da una parte e la necessità di liberazione dall’altra.

C’è in tutto questo uno scontro evidente, una visione morale del mondo e del tempo che prova a tirare le somme di una vita e a combattere con i propri fantasmi. L’opposto, per dire, di Vizio di forma, in cui l’annegamento nella luce del passato riusciva per davvero a trasmettere la complessità tentacolare della Storia colta nell’attimo; non più simulacro ma creature viva. Vizio di forma è però un film unico nel cinema americano di oggi: un film in prima persona plurale, un racconto collettivo della giovinezza di questo nostro mondo presente.

Come dimostra il finale di La La Land, l’unica idea possibile di passato, di storia individuale e collettiva, per il cinema risiede nel cinema stesso. È una fuga, non un confronto. E non può esserci liberazione dai fantasmi se l’immagine resta ferma alla necessità postmoderna della citazione e della rielaborazione. Quel finale a Parigi del film di Chazelle, con gli amabili resti di Minnelli e Lamorisse ben esposti perché li si possa riconoscere, fa pensare a L’età dell’innocenza di Scorsese, che presenta una scena molto simile durante il viaggio di nozze di Archer e Mia. In entrambi i casi, Parigi è un fondale fasullo, una scenografia di luci: per Scorsese, però, è il passato impossibile delle sue figure ottocentesche, l’origine europea della cultura americana che la società newyorchese ha replicato come forma vuota; per Scorsese Parigi è l’impossibilità dell’innocenza. Per Chazelle, forse, vale lo stesso discorso – anche il mondo fatato del musical e del cinema perduto è un’origine comune, il sogno di una verginità perduta…. Ma si tratta di cinema sovrapposto ad altro cinema; è il complesso della mummia che replica sé stesso.

In molto cinema americano di oggi, l’immagine – la sua origine, la sua inevitabilità, la sua necessità – è rimasta l’unica passione spendibile; una fede laica, mai scettica (almeno nei casi di Gray e Chazelle) nella capacità del cinema di arginare l’incedere del tempo. L’effetto di immobilità, di soffocamento nasce inevitabilmente da questa consapevolezza granita, dalla sovrapposizione esente dal dubbio.

Viene ancora in mente L’età dell’innocenza, la famosa scena in cui Archer fa visita alla contessa Olenska nella sua abitazione newyorchese e in cui si vede, appeso alle pareti, La carezza della sfinge di Khnopff: un dipinto simbolista, dato 1896, in un film ambientato negli anni ’70 del XIX secolo. Non un errore, vista la precisione della ricostruzione, ma uno sfasamento storico voluto; un messaggio allo spettatore, un suggerimento sull’anima fuori dal tempo della protagonista. La passione di Scosese per l’immagine cinematografica e non solo, esemplificativa di un altro modo di considerare il passato, la sua eredità, le ossessioni di cui si prende carico, è inesausta, non si ferma alla semplice riproduzione ripetitiva. E per questo ammette una dimensione scettica, un particolare che sfugga alle proprie stesse creazioni. L’insaziabilità e l’indeterminatezza sono costitutive, nel miglior cinema di Scorsese; aiutano l’immagine a fuggire dalla mummificazione dell’effetto visivo ed emotivo. C’è il passato, sì, ma è stravolto dalla creazione nel presente. Come il sole di Silence, quello verso il quale punta il dito padre Ferreira durante il dialogo con padre Rodrigues: quel sole è il sole di Van Gogh, citato da Kurosawa in Sogni, dove Scorsese interpretava Van Gogh stesso. Quel sole è la stessa immagine di allora – lo stesso primissimo piano – ma la pittura ripresa dal cinema è diventata immagine cinematografica che riprende la realtà. Un effetto di spostamento, uno slittamento di piani che si sovrappongono, eppure sfuggono l’uno all’altro. Il cinema è ancora vivo. Se sfugge alla tentazione di aderire perfettamente ai propri passi.

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