I

Come quegli eroi cinici, idealisti prima di scoprire che il mondo era più marcio di quanto pensassero, siamo un po’ tutti fuori posto, “lontani da casa”. Quando ci sentiamo sconfitti e immaginiamo che potremmo stabilirci, mettere su casa e tutto ciò che rappresenta, quella casa non esiste più. Ma esistono i cinema: in ogni città, possiamo infilarci in una sala e osservare sullo schermo i vecchi, noti ideali invecchiare insieme a noi e apparire sempre meno ideali. In quale altro luogo possiamo alimentare il fuoco del nostro masochismo meglio di uno squallido cinema in città intercambiabili, accomunate dai film e dall’anonimato? Il cinema – un’arte pacchiana e corrotta per un mondo corrotto e pacchiano – ben si adatta al modo in cui ci sentiamo. Il mondo non è come ce lo raccontavano i libri di scuola e noi non siamo ciò che si aspettavano che i nostri genitori e insegnanti. I film ci rappresentano a buon mercato, sono l’arte squallida per persone fuori posto. Depressi, sprofondiamo nella noia, abbandonandoci all’irresponsabilità, e ghigniamo quando il pistolero mette in fila tre uomini e li uccide con un solo proiettile, qualcosa che per noi non è meno “reale” della storiella che ci raccontavano da bambini sul piccolo sarto coraggioso. Non abbiamo bisogno di sentirci dire che si tratta di immagini, di attori che interpretano personaggi. Lo sappiamo, e a volte sappiamo più degli attori, dei loro personaggi e di come e perché sia stato fatto il film di quanto sarebbe lecito per mantenere l’illusione drammatica. Hitchcock ci ha provocato eliminando presto l’unica star di Psycho (Psyco, 1960), una mossa che ci ha sorpreso non tanto per le modalità dell’omicidio inaspettato ma perché rompeva una convenzione del box-office ed era dunque uno scherzo giocato alle attese del pubblico. Infrangeva le regole del gioco cinematografico e la nostra reazione ha dimostrato quanto siamo consapevoli delle norme che lo regolano. Davanti ai brutti film (e a brutte scene di buoni film) la nostra consapevolezza dei meccanismi diventa particolarmente alienante, così come il cinismo riguardo i loro valori e le loro mire. Il pubblico risponde per le rime all’accondiscendente e fasullo The Detective (Inchiesta pericolosa, 1968), emette gemiti di sconforto di fronte a The Legend of Lylah Claire (Quando muore una stella, 1968) e, forse, qualche saltuario risolino di disperazione. Quanto conosciamo bene quell’avvilito scoraggiamento che prende il sopravvento quando le nostre speranze vengono disattese per l’ennesima volta. L’alienazione è lo stato più comune di un pubblico cinematografico preparato e, benché la sensazione di familiarità nei confronti di quello che vediamo offra un particolare riconoscimento – un misero piacere in cambio di un misero favore –, il desiderio è sempre quello di venire sorpresi: non la sospensione dell’incredulità né lo straniamento brechtiano ma una sensazione di piacere, qualcosa che possa essere definito buono senza provarne disgusto.

Un buon film può sottrarci alla depressione e alla disperazione che accompagna spesso l’ingresso in una sala cinematografica, può farci sentire di nuovo vivi, in contatto con gli altri, non più persi nella città. I buoni film spingono a confidare ancora nelle possibilità. Se da qualche parte, a Hollywood, qualcuno ha fatto in modo di raggiungervi e parlare proprio a voi, allora non tutto è corrotto. Il film può non essere eccellente, può essere stupido e vuoto, e offrirvi ugualmente la gioia di una buona recitazione o di una buona battuta. Il cipiglio di un attore, un piccolo gesto sovversivo, un’osservazione maligna buttata lì da uno con la faccia da finto innocente, e il mondo riacquista un po’ di senso. Seduti da soli, dolorosamente soli, perché quelli che vi stanno accanto non reagiscono allo stesso modo, sapete che devono esserci altri, forse in quella stessa sala o nella stessa città, di certo in altre sale e in altre città, che ora, nel passato o nel futuro, reagiscono allo stesso modo. E poiché i film costituiscono la forma d’arte più totale e onnicomprensiva che conosciamo, tali reazioni possono sembrare le più personali e persino le più degne di rilievo immaginabili. Ciò che c’è di affascinante nei film non sta solo in quelle storie e in quella gente sullo schermo ma nel sogno adolescenziale di incontrare altri che si sentono come noi riguardo quello che vedono. Li incontriamo e li riconosciamo a prima vista, perché non parliamo tanto dei buoni film quanto di ciò che amiamo in quelli brutti.

II

Oggi si fa così tanto parlare del cinema in quanto arte che si rischia di dimenticare che la maggior parte dei film che ci piacciono non sono opere d’arte. The Scalphunters (Joe Bass l’implacabile, 1968), per esempio, è stato uno dei pochi film americani divertenti dell’anno scorso ma, per quanto realizzato con mestiere, difficilmente lo si potrebbe considerare un’opera d’arte – sempre che tale espressione abbia un significato. O, per fare un esempio ancora più grossolano, un film rozzo come Wild in the Streets (Quattordici o guerra, 1968), messo insieme alla bell’e meglio con opportunismo e furore, può risultare divertente anche se rappresenta un classico esempio di film non-artistico. Cosa rende apprezzabili questi film, che non sono opere d’arte? The Scalphunters era più divertente della maggior parte degli altri western soprattutto perché Burt Lancaster e Ossie Davis formavano una coppia bizzarra; parte del piacere del film stava nel cercare di capire cosa li rendeva così divertenti. Burt Lancaster è un attore comico particolare: la sua comicità sembra derivare dalla sua fisicità, e ciò lo distingue dagli altri. Come attore drammatico lavora sodo ma è insignificante; allo stesso tempo, possiede un’attitudine innata nei confronti della commedia e nulla è più contagioso di un attore che dà l’impressione di rilassarsi di fronte alla macchina da presa come se si stesse davvero divertendo (George Segal sembra possedere a volte lo stesso dono e Brigitte Bardot trasudava tale sensazione in Viva Maria! [1965]). In qualche modo l’alchimia della coppia Burt Lancatser – Ossie Davis (un altro attore comico dall’imponente presenza) funzionava, e il regista Sidney Pollack ha saputo tenerla a freno in modo che non andasse sopra le righe.

E Wild in the Streets? Il fatto che sia così spudoratamente scadente va a suo merito, perché funziona in una maniera che non riesce a tanti film girati meglio. Come altre produzioni recenti della AIP, sembra di leggere la striscia giornaliera di un fumetto apparentemente identica a quella del giorno prima ma capace di regalare sempre mimiche sorprendenti e dialoghi pieni di brio. Non c’è traccia di sensibilità nei disegni o nelle idee ma l’arguzia sprovvista di grazia è particolarmente divertente: la si può apprezzare in una maniera diretta, popolare. L’idea di fondo è banale – come in Shadow on the Land (1968, per la tv, inedito in Italia, ndr) ma con giovani fuori di testa come nuovi fascisti – ma è stata elaborata nello stile paranoide degli articoli sui giovani d’oggi (comincia persino dando la colpa di tutto ai genitori). È un’idea di bassa lega, diffusamente attuale, possiede un’attrattiva lunatica, una gaiezza da incubo. La gente prova una certa soddisfazione nel vedere i giovani che fanno uso di droghe rappresentati come mostri minacciosi: gli articoli dei quotidiani si mescolano a The Village of the Damned (Il villaggio dei dannati, 1960). Sfruttando questo tipo di isteria per dare vita a una fantasia satirica, lo sceneggiatore Robert Thom si è servito dei materiali più ovvi a disposizione ma l’ha fatto con sufficiente stile e scherno da rendere il tutto divertente. Ogni tanto butta nel mezzo tocchi di caratterizzazione e battute che non servono a portare avanti la trama ma danno vita a bizzarre connessioni, così che la paranoia del film assume toni spassosi e si compiace della propria astuzia.

Se foste andati a vedere Wild in the Streets aspettandovi un buon film sareste rimasti inorriditi per la regia maldestra, le musiche banali, le tante idee di sceneggiatura appena abbozzate e i dettagli fuori posto (a cominciare dal fatto che il direttore del casting si è servito di comparse e comprimari troppo anziani per i loro ruoli). È un cinema raffazzonato ma gli interpreti sono genuinamente divertenti, capaci di cogliere al volo l’occasione e pronunciare battute che funzionano come boomerang – Diane Varsi (una Geraldine Page ancora più fatta) è una frichettona perfettamente convincente; Hal Holbrock, inespressivo e opaco in campo lungo, rivela nei primi piani sottigliezze espressive e leggere contrazioni dei lineamenti che danno l’idea dei pensieri in movimento; poi Shelley Winters e, naturalmente, Christopher Jones. Non è grave che un film non possieda la sembianza dell’opera d’arte – potrebbe anzi essere un sollievo: esteticamente ci sono cose ben peggiori dell’aspetto squallido e rozzo, del non celato intento di incassare qualche soldo di un film privo di arte. Da I Was a Teen-Age Werefolf (1957), passando ai film sulle feste in spiaggia per arrivare a Wild in the Streets e The Savage Seven (1968), la AIP ha saputo vendere un artefatto di bassa lega che, nella sua mancanza di qualità artistica e con quella maniera allegra e spudorata di rendere l’azione, ci ricorda che una delle cose più affascinanti del cinema è che non va preso troppo seriamente.

Wild in the Streets è un caso fortunato, un caso limite di film che funziona perché alla AIP alcune persone di talento hanno avuto la possibilità di fare qualcosa che le compagnie più blasonate non si sentivano di osare. E benché non apprezzi un film così ovvio e di fattura scadente come il loro ultimo, grande successo, The Wild Angels (I selvaggi, 1966), è facile capire perché ai ragazzi piaccia e perché lo stesso accada in altri Paesi. Il motivo è il medesimo per il quale tutti abbiamo cominciato ad andare al cinema. Ne vogliamo sempre di più, ma il pubblico che è stato costretto a procedere faticosamente attraverso le spesse imbottiture middle class di film più costosi per avere un po’ d’azione apprezza lo sberleffo nei confronti del “buon gusto” da parte di film di bassa lega che lavorano con materiali scadenti. A un livello base, desidera che i film siano realizzati così, ne apprezza la rozzezza, perché sono come una boccata d’aria, una vacanza dal comportamento convenuto, dal buon senso e dai responsi obbligati. Gli avventori del burlesque applaudono educati la danzatrice elegante e seducente ma impazziscono per quella sgraziata e volgare che agita i grossi fianchi. È per questo che vanno al burlesque. Personalmente, mi auguro sempre un minimo di finesse, e film come The Planet of the Apes (Il pianeta delle scimmie, 1968), The Scalphunters o The Thomas Crown Affair (Il caso Thomas Crown, 1968) mi sembrano possedere i requisiti minimi per una serata in relax. Sono, per usare un linguaggio tradizionale, “buoni film” o “buoni brutti film”, eleganti, ben fatti, ragionevolmente inventivi. Non sono arte, ma rappresentano quasi il massimo di quanto possiamo aspettarci oggigiorno dal cinema americano, in un momento in cui non solo questi ma film molto peggiori sono considerati “arte” e vengono presi sul serio nelle nostre scuole.

È assurdamente egocentrico considerare arte tutto ciò che ci piace – come se non potesse piacerci qualcosa che non lo è; è altrettanto assurdo accettare che un’opulenta campagna pubblicitaria ci spinga a credere di ricevere arte in cambio del nostro denaro se un film non non è nemmeno in grado nemmeno di farci divertire. Mi sono divertita guardando Wild in the Streets, cosa che non posso dire per Petulia (Id., 1968), 2001 (2001 odissea nello spazio, 1968) o altri film unanimemente apprezzati. Wild in the Streets non è un’opera d’arte, ma non credo lo siano nemmeno Petulia o 2001, benché il primo possieda quel caleidoscopico aspetto alla moda e il secondo combini le nuove tecnologie a idee “serie” e all’avanguardia, e ciò viene spesso scambiato per cinema d’arte.

III

Sgombriamo il campo da alcune incomprensioni. I film fanno a pezzetti l’approccio scolastico riguardo l’artista capace di realizzare le proprie intenzioni. Qualunque sia l’intenzione originaria di sceneggiatori e regista, una volta avviata la produzione, viene soppiantata dall’intento di fare soldi – e l’industria giudica il film sulla base di quanto realizzi quella intenzione. Ma se anche foste in grado di riconoscere le “intenzioni dell’artista” probabilmente desiderereste non essere in grado di farlo. Niente è così deleterio ai fini dell’entertainment quanto l’implacabile marcia di un film nel portare a compimento il proprio, ovvio proposito. Si tratta, infatti, di una caratteristica specifica del regista senza personalità, contrapposto all’artista.

L’intento lucrativo è generalmente fin troppo palese. Una delle situazioni più penose dei nostri tempi è assistere a lezioni di cinema presso scuole superiori in cui gli studenti potrebbero analizzare accuratamente la trama di un film mediocre in termini di manipolazione verso un responso preordinato mentre l’insegnante si sforza di spiegarla in quelli di un artista creativo che elabora il proprio tema – come se le condizioni nelle quali viene realizzato un film e il mercato al quale è indirizzato fossero irrilevanti, e l’ultimo prodotto della Warner o della Universal potesse essere analizzato come un poema lirico.

Coloro che sono “seriamente interessati” alla comprensione di un film domandano sempre al critico “perché non si dilunga maggiormente sul lato tecnico e visivo?”. La risposta è che nel cinema americano la tecnica corrisponde spesso alla tecnologia e di norma non è particolarmente interessante. I film di Hollywood possiedono sovente il look dello Studio che li ha prodotti, ne rispettano lo stile. Molti film della Warner condividono la stessa bruttezza attraente, quelli della Universal la forma indistinta dell’economia nella realizzazione, e così via. A volte si potrebbe persino dire che vi sia stato infuso lo spirito dello Studio. È possibile parlare delle commedie Paramount degli anni ’30, dei film per famiglie degli anni ’40 e delle commedie in Cinemascope degli anni ’50 della 20th Century Fox, del lustro che contraddistingue le vecchie produzioni MGM, più o meno come parliamo di Chevrolet e Studebakers. Questi film si assomigliano, funzionano allo stesso modo, possiedono lo stesso motore perché rispettano le politiche dello Studio e i materiali di cui si serve, le idee che impone e la maniera in cui vuole che il film venga scritto, fotografato e diretto, ma anche a causa dei laboratori in cui vengono sviluppate le pellicole e, naturalmente, della presenza delle star di casa, nei confronti delle quali il film è stato spesso e volentieri pensato e confezionato. In alcuni casi, come alla Paramount negli anni ’30, lo stile caratteristico era semplice e piuttosto pacchiano e il risultato – le commedie con Mary Boland e Mae West, Alison Skipworth e W.C. Fields – oggi ci appare quello ideale. Non erano appesantite da illuminazioni sofisticate o dagli ornamenti dei “valori produttivi”. Per essere apprezzabili, i film non hanno bisogno di un alto livello di maestria: ingegno, immaginazione, un soggetto fresco, attori capaci, una buona idea – per sé o combinati tra loro – possono più che compensare l’assenza di competenza tecnica o di budget.

La maestria spacciata da Hollywood come uno dei suoi punti di eccellenza non solo non ha molto a che fare con l’arte – l’utilizzo espressivo della tecnica – ma probabilmente non ha molto a che fare nemmeno con l’appeal al box-office. Un film scialbo come The Naked Runner (Colpo su colpo, 1967) di Sidney Furie è tecnicamente competente. L’orrendo Half a Sixpence (Lo squattrinato, 1967) è tecnicamente formidabile. Benché gran parte del pubblico tenga in considerazione l’investimento (tanto che un critico, poco impressionato dallo sforzo economico alla base di Dr. Zivago, rischia di subire una reprimenda da parte dei suoi lettori) la gente a cui piace The President’s Analyst (La folle impresa del dottor Schaefer, 1967), The Producers (Per favore non toccate le vecchiette, 1968) o The Odd Couple (La strana coppia, 1968) sembra non venire turbata dalla loro inettitudine tecnica e sciattezza visiva. Al contrario, l’aspetto smaccatamente costoso di film insulsi come A Dandy in Aspic (Sull’orlo della paura, 1968) può nuocere all’apprezzamento, perché la stravaganza dello spreco è moralmente abominevole. Se paragoniamo i film che ci piacciono a quelli che non ci piacciono, la maestria del grande Studio è raramente un fattore decisivo. E se paragoniamo un film che ci piace diretto da un regista competente come John Sturges, Franklin Shaffner o John Frankenheimer, a un film che non ci piace altrettanto dello stesso regista, la sua tecnica non è probabilmente il fattore decisivo. Dopo aver girato The Manchurian Candidate (Va’ e uccidi, 1962), Frankenheimer ha diretto un altro thriller politico, Seven Days in May (Sette giorni a maggio, 1964) che, valutato sulla base della regia, è un film nettamente più sicuro. Guardandolo, si poteva apprezzare l’abilità di Frankenheimer nell’intrattenere. Ma si trattava (Rod Serling che adatta Fletcher Knebel e Charles W. Bailey II) di una versione più semplice (si legga banale) di The Manchurian Candidate. Per ricordare immagini di Seven Days in May devo rincorrerle lungo i corridoi della mia memoria; nonostante la tecnica brillante, tutto ciò che resta in mente è il volto disperatamente toccante di Ava Gardner. Mentre The Manchurian Candidate, nonostante la messa in scena diseguale, si conserva nitido grazie alla sceneggiatura. Prende il via dall’ambigua riflessione che hanno fatto tutti (“Ma come! Joseph McCarthy non avrebbe potuto fare di meglio per i comunisti nemmeno se avesse lavorato per loro!”) per condurla all’assurdo, e le leziosaggini, le stravaganze e i non sequitur della trama (di George Axelrod, da Richard Condon) sono ambivalenti e divertenti in una maniera allo stesso tempo grossolana e liberatoria.

È inutile discutere della tecnica a meno che non sia al servizio di qualcosa di utile: per questo, molta teoria riguardo la nuova arte pubblicitaria televisiva non ha senso. Gli effetti sono impersonali – abili ed efficaci, ma privi d’arte. È a causa della loro vacuità che gli spot richiamano così tanta attenzione verso le angolazioni di ripresa e il montaggio serrato – fattori che spingono le persone a rimanere impressionati dalla loro “arte”. I film oggi vengono realizzati in base alle aspettative che la televisione procura nel pubblico. Nonostante si faccia un gran parlare e scrivere delle capacità dei giovani di rispondere alla componente visiva, l’influenza della TV renderà i film sempre meno immaginativi e complessi. La televisione è un medium rumoroso e gli spettatori stanno in ascolto, abituandosi a una riproduzione di bassa qualità si abituano anche all’assenza di dettagli, alla ovvietà visiva, all’enfasi nei confronti della composizione semplificata e a sistemi di colore atrocemente semplificati e distorti. Lo stile di ripresa mobile e gli stacchi rapidi di un film come Finian’s Rainbow (Sulle ali dell’arcobaleno, 1968) – una delle migliori grandi produzioni – presenta lo stesso stile visivo degli spot televisivi, abile a mascherare un materiale statico che fa di tutto per non annoiare lo spettatore. La carriera dei registi di oggi comincia nella pubblicità – e, se uno ci riflette, potrebbe essere una considerazione consuntiva sul futuro del cinema americano. Non intendo sostenere che la tecnica cinematografica non esista o che la maestria registica non contribuisca al piacere offerto da un film, ma semplicemente che la maggior parte del pubblico è in grado di apprezzare la recitazione, la trama o i dialoghi ma non si rende conto o non gli interessa quanto bene o male sia girato un film; poiché non gli interessa, un successo al botteghino trasforma un regista in un “genio” e improvvisamente tutti parlano della sua tecnica: la tecnica di accaparrarsi un pubblico.

Probabilmente, nel corso della breve storia del cinema, non c’è mai stato un gruppo di registi così straordinariamente dotati come gli italiani di oggi, e non solo i celebri Pontecorvo (La battaglia di Algeri, 1966) e Rosi (Il momento della verità, 1965) o i giovani prodigi, Bertolucci e Bellocchio, ma dozzine d’altri, come Elio Petri (A ciascuno il suo, 1967) e Carlo Lizzani (Banditi a Milano, 1968). Banditi a Milano dimostra maggior consapevolezza del linguaggio visivo e più talento cinematografico di qualunque altro film girato negli Stati Uniti quest’anno. Ma si potrebbe consigliare a qualcuno che non sia un folle, assiduo cinefilo di andarlo a vedere? Non ne sono sicura, pur avendo apprezzato enormemente il film, perché Banditi a Milano è un film di genere gangsteristico. Il critico che dice “la maniera in cui gestisce le scene all’aperto e di folla è superba” o “c’è una straordinaria scena di inseguimento semi-documentaria” eccede nell’estetismo e perde di vista il motivo per cui la gente va a vedere i film, in particolare quelli stranieri. Si tratta di affermazioni vere, ma il film deriva dai nostri vecchi gangster-movie e, per quanto ben fatto, sarebbe dura convincere una persona istruita a vedere un film in cui Gian Maria Volontè, attore superbo, si ispira a Paul Muni e James Cagney. Il pubblico vuole dal cinema qualcos’altro che non un film di genere girato in maniera eccellente che mostra immagini di moderna decadenza urbana. Se un film è interessante soprattutto in termini di tecnica allora non vale la pena parlarne, se non a studenti interessati a sapere in che modo lavora un buon regista. E parlare di The Graduate (Il laureato, 1967) in termini di tecnica cinematografica è davvero una presa in giro. A questo livello, la tecnica non ha alcun valore estetico: non è l’abilità di di ottenere ciò che si desidera ma la capacità di realizzare qualcosa di accettabile. Non vale la pena parlare di questo film se non in relazione a ciò che piace al pubblico; in caso contrario, tanto varrebbe mettersi ad analizzare il “contenuto artistico” degli spot televisivi. Nel caso dei grandi artisti del cinema, quelli in grado di ottenere una coesione tra tecnica e sostanza, non c’è bisogno di soffermarsi sulla tecnica perché è riassunta nell’arte. Non interessa spiegare come Tolstoi ottiene i suoi effetti ma della sua opera. Non interessa spiegare come ci riesce Renoir: interessa cosa ha fatto. Si potrebbe anche separare il tutto, naturalmente, distinguere forma e contenuto ai fini dell’analisi. Ma si tratta di una funzione secondaria, scolastica, che la critica non ha necessità di adoperare esplicitamente. Separare gli elementi è molto meno importante che vedere il tutto. Un critico non dovrebbe fare a pezzi un’opera per dimostrare che sa come è stata messa insieme. Ciò che importa è spiegare cosa c’è di nuovo e bello in essa, non come è stata fatta – che è più o meno implicito.

Così come ci sono buoni attori – potenzialmente gradi attori – che non sono mai diventate star perché non hanno mai avuto la fortuna di avere i ruoli che meritavano (Brian Keith è un esempio eclatante), ci sono buoni registi che non hanno mai avuto i cast o le sceneggiature che avrebbero contribuito a migliorare la loro reputazione. La domanda che si fa la gente quando sceglie il film da andare a vedere non è “come è fatto?” ma “di cosa parla?” e si tratta di una domanda assolutamente legittima (la domanda successiva – a volte la prima – è generalmente “che attori ci sono?”, e anche anche questa è una domanda onesta). Quando vedete un film, non è necessario che crediate in quello che succede ma che siate interessati a esso (così come dovete essere interessati al suo materiale umano o, altrimenti, perché andare a vedere un altro film con James Stewart?). Non intendo assistere a un’altra epica samurai così come non voglio assolutamente leggere Kristin Lavransdatter. Benché sia plausibile che un vero grande regista sia capace di rendere interessante qualunque tema, sono pochi gli artisti di tale specie impegnati in ambito cinematografico e anche se lavorassero su temi rigorosi non sono sicura che, anche ammirandone il valore artistico, apprezzeremmo i risultati (riconosco la grandezza di certe sequenze in molti film di Eisenstein ma si tratta di un’ammirazione piuttosto fredda). I numerosi registi italiani che operano in un contesto commerciale realizzando film d’azione o polizieschi non saranno mai di grande interesse a meno che non abbiano modo di occuparsi di temi che ci interessino più da vicino. Ironicamente, i successi del cinema cecoslovacco negli Stati Uniti (The Shop on Main Street [Il negozio al corso, 1965], Loves of a Blonde [Gli amori di una bionda, 1965], Closely Watched Trains [Treni strettamente sorvegliati, 1966]) sono acclamati per la loro tecnica, che in realtà è piuttosto semplice e limitata, quando è ovvio che il pubblico risponde al loro interesse umano e all’approccio semplice e modesto, con l’aggiunta di un pizzico di ironia da cortile. E forse, in parte, risponde anche alla semplicità della messa in scena.

IV

Da bambini ci sono film che non ci piacciono – in genere i documentari (hanno troppo a che fare con l’educazione) e, naturalmente, i film ideati specificamente per i bambini – e quando diventiamo capaci di ragionare per conto nostro abbiamo ormai imparato a evitarli. I bambini vengono spesso rimproverati dagli adulti per aver apprezzato un certo film; gli adulti, a corto di empatia, fanno in fretta a evidenziare aspetti del plot che il bambino non capisce, e si tratta di un modo facile di umiliarlo. Ma possedere svariate combinazioni di piacere è una delle glorie di arti eclettiche come l’opera lirica e il cinema. Si può rimanere ammaliati da Leontyne Price in La forza del destino o da Il flauto magico anche se non si conosce a memoria il libretto, e un film può essere apprezzato per tante ragioni che hanno poco a che fare con la storia o le sottigliezze (se ci sono) nello sviluppo di temi e personaggi. A differenza delle arti “pure” che vengono spesso definite in termini di ciò che di unico possono fare, il cinema è aperto, illimitato. Probabilmente, qualunque cosa possa essere fatta in un film può essere fatta anche in un’altra maniera, ma – e questo è quanto di straordinariamente miracoloso ha il cinema – esso può fare quasi tutto ciò che possono fare le altre arti (per sé o combinate tra loro) e intraprendere funzioni di esplorazione, giornalismo, antropologia e quasi ogni altro ramo del sapere. Andiamo al cinema per la varietà di stimoli che può fornire, per la meravigliosa abilità di offrirci semplicemente e a basso costo (e normalmente in maniera indolore) ciò che possiamo ottenere anche dalle altre arti. Il cinema è un’arte meravigliosamente conveniente.

I film stranieri vengono utilizzati dalle altre culture in una maniera molto più primitiva che nei loro Paesi d’origine: come guide turistiche o introduzione alla maniera in cui vivono gli altri. Il cinefilo sofisticato ed esperto tende a dimenticare quanto, una volta, gli sembrasse nuovo e sorprendente il mondo là fuori, e in che modo reagisce un bambino, quanti elementi è in grado di recepire, spesso per la prima volta. Anche gli adulti che hanno visto tanti film possono pensare che un film sia “eccellente” se li introduce a temi poco familiari; ecco perché molti appassionati reagiscono con l’ingenuità di un bambino a Portrait of Jason (1967) o The Queen (1968) e li trovano meravigliosi. Le trame più risapute e i momenti di commedia più trita possono essere colmi di meraviglia per un bambino, così come il traffico autostradale in un melodramma di serie Z può essere magico per un paesano che non ha mai visto un automobile. Un bambino può apprezzare un film come Jules et Jim (1962) per il suo approccio divertito, senza comprenderlo come fanno i suoi genitori, così come noi possiamo apprezzare un film italiano in quanto commedia a sfondo sessuale mentre in Italia è considerata satira politica o critica sociale. Jean-Luc Godard ha apprezzato Pal Joey (1957), e immagino che uno scadente musical americano come Pal Joey possa essere apprezzato in Francia perché non mi viene in mente un solo numero di ballo messo in scena da attori francesi in un loro film. I francesi apprezzano ciò che non sono in grado di fare e noi apprezziamo le loro indagini riguardo i turbamenti dell’amore adolescenziale che sarebbero scadenti se realizzati a Hollywood. Un film come The Young Girls of Rochefort (Le Demoiselles de Rochefort, 1966) dimostra come anche un dotato regista francese che adora i musical americani non è in grado di comprendere le loro convenzioni. Ma, d’altra parte, sostenere che Jacques Demy non dovrebbe amare i musical americani perché non ne comprende le convenzioni sarebbe stupido almeno quanto dire a un bambino che non gli può piacere The Planet of the Apes perché non ha compreso i riferimenti al processo Scopes.

Ogni tanto mi capita di vedere lo studio di qualche antropologo sulla maniera in cui tribù primitive reagiscono alla visione di un film; capita, ad esempio, che le disturbi non sapere dove va a finire l’attore quando esce dall’inquadratura o che rispondano con entusiasmo al baccano e alla congestione della vita metropolitana della quale il film si impone di mettere in luce l’aspetto alienante, trovandola allegra e divertente. Persone e culture differenti apprezzano i film in maniere diverse. Qualche anno fa, i nuovi “primitivisti” americani hanno risposto alle sfarzose fantasie di Giulietta degli Spiriti (1965) servendosi del film per sballare. Alcuni avevano già fatto un “bel viaggio” con 8 e 1⁄2 (1963), ma Giulietta che era, adeguatamente e forse anche appositamente, girato a colori elettrici e psichedelici, ha avuto presa proprio per questo (il colore era terribile, come nei brutti musical della MGM – e c’è dunque da interrogarsi sulla qualità del “viaggio”).

Il nuovo primitivismo all’epoca dei media non è necessariamente nemico dell’affarismo; in realtà è una sua diretta conseguenza, forse persino un suo strumento. Se un film ha sufficientemente peso, recensori ed editorialisti sono propensi a dargli una seconda possibilità finché, dopo ripetute visioni, non scoprono che li coinvolge “visceralmente” – e un grande film costoso tende a fare proprio questo. Si dice che 2001 abbia catturato l’attenzione dei giovani; e si dice che il film vi farà sballare – che suona un po’ come una raccomandazione. Nonostante qualche voce dissidente – ho sentito dire, per esempio, che “2001 ti fa fare un brutto viaggio perché le immagini non si accompagnano bene alla musica” – la promozione è stata notevolmente efficace nei confronti degli studenti. Le “tribù” si sintonizzano così rapidamente che studenti di college a migliaia di miglia di distanza “hanno sentito” che bel trip è 2001 ancora prima che il film abbia raggiunto la loro città. Servirsi dei film per “fare un viaggio” ha a che fare con l’arte del cinema quanto utilizzare i film con Doris Day e Rock Hudson per trovare idee su come ridecorare casa propria – una maniera precedente di “provare uno sballo”. Ma è funzionale alla comprensione dei film separare, quanto meno ai fini della discussione, la maniera in cui ce ne serviamo (per imparare come vestirci, parlare forbito o fare un grande ingresso in scena, oppure per decidere che macchina per il caffè acquistare o decollare verso un viaggio di fantasia romantica) da ciò che lo rende bello o brutto perché, naturalmente, ci possiamo servire dei brutti film allo stesso modo di quelli buoni, se non meglio, per propositi non-estetici, come guide per lo shopping o incitamenti al viaggio.

V

Generalmente ci interessiamo ai film perché ci piacciono e i motivi per cui ci piacciono hanno poco a che vedere con il concetto di arte. I film che provocano una reazione in noi, anche nell’infanzia, non condividono gli stessi valori della cultura ufficiale sostenuta a scuola o nelle abitazioni borghesi. Al cinema troviamo la vita aristocratica e quella popolare, mentre David Susskind e i recensori moralisti ci rimproverano di non sostenere ciò che dovremmo: “film “realistici” che ci farebbero bene – come A Raisin in the Sun (Un grappolo di sole, 1961), da cui potremmo imparare che una famiglia di neri può essere altrettanto noiosa di una bianca. Il pubblico vede un sacco di spazzatura, ma è assai difficile convincerlo a fare la fila a fini pedagogici. Dal cinema ci aspettiamo una forma diversa di verità, qualcosa che ci sorprenda, che ci paia divertente o accurato, forse anche straordinario e straordinariamente bello. Troviamo piccole cose buone anche in film orrendi – José Ferrer che sbevazza da una cannuccia in Enter Laughing (1967), la tremenda faccia da ragazzo americano irraggiungibile di Scott Wilson che squarcia la pretenziosità di In Cold Blood (A sangue freddo, 1967), con la sua cupa e sofisticata fotografia. Abbiamo ancora in mente la sorprendente profondità di emozioni di Tony Randall in The Seven Faces of Dr. Lao (1964), Keenan Wynn e Moyna Macgill nella scena al bancone di The Clock (L’ora di New York, 1945), John W. Bubbles sulla pista da ballo in Cabin in the Sky (Due cuori in cielo, 1943), l’inflessione che dà Gene Kelly alla battuta “I’m a raising young man” in Du Barry Was a Lady (Mademoiselle Du Barry, 1943), Tony Curtis che dice “avidly” in Sweet Smell of Success (Piombo rovente, 1957). Se anche il regista è il principale responsabile, è il materiale umano di un film ciò a cui reagiamo e che ricordiamo più a lungo. L’arte degli attori si conserva immutata dentro di noi, sempre più bella. Il cinema ci dà cosi tante cose – la scena del dopo sbornia così magistralmente ideata per il Cinemascope in The Tender Trap (Il fidanzato di tutte, 1955), l’atmosfera delle redazioni dei quotidiani in The Luck of Ginger Coffey (1964), il distributore automatico impazzito di Easy Living (Che bella vita, 1937). Dovremmo forse mentire, come quelli che sostengono che Sofia Loren sia una grande attrice, come se fosse stata la sua recitazione a renderla grande? O non preferiamo forse vedere lei al posto di attrici migliori perché è così affascinante, forse la modella più bella del mondo? Ci sono grandi momenti – Angela Lansbury che canta “Little Yellow Bird” in Dorian Gray (Il ritratto di Dorian Gray, 1945) (credo tutte le persone che conosco abbiano amato quella donna e quella canzone). E ci sono piccoli momenti unicamente perfetti – come quando Curt Bois dice a Ingrid Bergman “You’re very beautiful” e lei risponde “Yes, isn’t it lucky?” in Saratoga Trunk (Saratoga, 1945). E tutte queste cose sono più vicine all’arte di quelle che i nostri insegnanti ci hanno detto essere vere e belle (tali). Non che ciò che abbiamo studiato a scuola non sia altrettanto grande (come abbiamo scoperto dopo) ma i motivi per i quali i nostri insegnanti ci hanno detto che avremmo dovuto apprezzarli (e se i testi attuali servono come indicazione, è ancora così) erano generalmente così falsi, abbelliti e moralistici che i possibili momenti di piacere in essi, insieme a tutto ciò che poteva esserci di purificante e sovversivo, restava nascosto.

A causa della natura fotografica del mezzo e del basso costo del biglietto, il cinema non ha tratto vigore dalla piatta imitazione della cultura alta europea ma dai peep shop, dal Wild West show, dal music hall, dai fumetti, da tutto ciò che era grossolano e comune. I primi film di Chaplin a due bobine paiono ancora molto volgari, con le loro burla da bagno, l’accento sull’alcolismo e il disprezzo per il lavoro e la proprietà. E le sparatorie dei western non avevano certo a che fare con la nozione di arte dei nostri professori – che ai tempi in cui ho studiato io riguardava la poesia didattica e le statue “perfettamente proporzionate”, e con il passare degli anni si sono evolute verso il “buon gusto” e “l’eccellenza” – che possono essere ancora più dannose delle omelie e delle statuette di porcellana, perché allora avevamo le idee chiare su chi erano i nostri nemici ed era più facile combatterli. Siamo scappati da tutto questo per andare al cinema: nel corso della settimana attendevamo il sabato pomeriggio e il santuario – l’anonimato e l’impersonalità di sedere in sala solo per divertirci, senza doverci sentire responsabili o comportarci “bene”. Forse volevamo vedere quella gente sullo schermo e sapere che loro non guardavano noi, che non si sarebbero voltati a criticarci.

Forse il più grande piacere dell’andare al cinema non ha niente di estetico e riguarda il fuggire dalle responsabilità imposte, da un’attesa di reazione che ci viene richiesta dalla cultura ufficiale (e scolastica). Ma questa è, probabilmente, la base migliore per sviluppare un senso estetico, perché l’obbligo di fare attenzione e apprezzare è anti-artistico, crea troppa ansia nei confronti del piacere e ci rende annoiati verso il responso. Lontani dalla supervisione della cultura ufficiale, siamo soli nell’oscurità della sala cinematografica dove non ci si aspetta nulla da noi e la liberazione dal senso di dovere e dall’obbligo ci permette di sviluppare un nostro responso estetico. Forse il divertimento controllato non è l’unico possibile ma è così che sembra. L’irresponsabilità fa parte del piacere di qualunque arte: è la parte che le scuole non sono in grado di riconoscere. Non mi piace acquistare biglietti esclusivi per un film perché odio considerarlo alla stregua di un’occasione. Non voglio essere vincolata con giorni d’anticipo: mi piace la casualità dell’andare al cinema, andarci quando ne ho voglia e quando mi sento dell’umore adatto. È la sensazione di liberazione dalla rispettabilità che abbiamo sempre apprezzato al cinema e che viene portata all’estremo dai film della AIP e dai western italiani con Clint Eastwood: sono privi di valori culturali. Potremmo anche esigere qualcosa in più di questa virtù negativa ma riconosciamo la sensazione provata da bambini davanti alle suggestioni di oscenità mormorate da giocatori d’azzardo, papponi e truffatori al passaggio delle guardie. L’attrazione dei film stava nei dettagli della vita criminosa d’alto bordo nelle città malefiche, nel linguaggio dei duri e dei monelli di strada; era il sordido sorriso della ragazza di città che seduceva l’eroe con l’inganno allontanandolo da Janet Gaynor. Ciò che in primo luogo ci porta al cinema – l’apertura nei confronti di esperienze diverse, proibite o sorprendenti, e la vitalità corruttrice e irriverente di tale esperienza – sono così dirette e immediate e hanno così poco in comune con tutto quello che siamo stati abituati a considerare arte che molti si accorgono di sentire un affinamento nel loro gusto quando cominciano ad apprezzare i film stranieri. Il dirigente di una fondazione mi ha rivelato con rammarico che i suoi figli adolescenti hanno preferito vedere Bonnie and Clyde (Gangster Story, 1967) anziché andare con lui a vedere Closely Watched Trains. L’ha preso come un segno di mancanza di maturità. Credo invece che i suoi figli abbiano fatto una scelta onesta, e non solo perché Bonnie and Clyde è il film migliore dei due, ma perché è più vicino a noi, possiede quelle qualità di coinvolgimento diretto che ci spingono ad amare il cinema. Ma è comprensibile che per noi americani sia più semplice vedere l’arte nei film stranieri anziché nei nostri, per via della maniera in cui concepiamo l’arte. L’arte è ancora quella in cui credono gli insegnanti, le signore e le fondazioni, è civile e raffinata, seria e colta, bella, europea, orientale: è ciò che l’America non è e, in particolare, ciò che i film americani non sono. Anche se quei ragazzi avessero scelto di andare a vedere Wild in the Streets al posto di Closely Watched Trains continuerei a pensare che abbiano fatto una scelta onesta, per quanto Wild in the Streets sia per tanti versi un film detestabile. Riguarda le loro vite, anche se in maniera frivola e grossolana, e se non andiamo al cinema per divertirci, anche da bambini, e accettiamo gli standard culturali imposti da adulti raffinati, se abbiamo così poca grinta che accettiamo il loro “buon gusto”, allora forse non cominceremo mai ad apprezzare il cinema. Diventeremo come quelle persone che “ogni tanto vanno a vedere un film americano per rilassarsi” ma quando chiedono “qualcosa di più” a un film sono entusiasti di quanto sia colorato e artistico The Taming of the Screw (La bisbetica domata, 1967) di Zeffirelli, come qualche decennio fa lo erano di The Red Shoes (Scarpette rosse, 1948) di Powell e Pressburger, gli Zeffirelli del loro tempo. O, se ricercano l’accogliente sensazione di elevazione data da film appena bizzarri su gente timida c’è sempre un Hot Millions (Milioni che scottano, 1968) o qualche film ammuffito e noioso dell’est Europa – uno di quei film ambientati durante la Seconda guerra mondiale ma così lontano dal nostro modo di pensare che sembra ambientato durante la Prima. Dopo, lo spettatore potrà sentirsi virtuoso e rispettabile come se avesse appena visitato il vecchio parente sordo. È una maniera di ricondurre il cinema all’interno della cultura ufficiale scolastica e la sua affettazione, e le voci di insegnanti e recensori si sollevano a chiedere perché in America non si fanno film così.

VI

L’arte dei film non è il contrario di ciò che abbiamo sempre apprezzato al cinema, non la troviamo al posto di quella cultura ufficiale, alta: è ciò che abbiamo sempre trovato di buono nel cinema, ma espressa al massimo delle sue potenzialità. È il gesto sovversivo portato oltre, i momenti di eccitazione sostenuti ed estesi a nuovi significati. Al suo meglio, il cinema è fatto di quel tipo di piacere che abbiamo ricevuto a piccoli pezzi da tanti film. Ma siamo così abituati a ricercare questi piccoli pezzi in un film che non ci serve la perfezione formale per essere stupefatti. Così tante arti e mestieri convergono nel cinema e così tante cose possono andare male che non vengono considerate arte dai puristi. Vogliamo provare l’esaltazione provocata da un film (o da un attore) che si spinge al di là delle nostre attese e compie il passo con successo. A ripensarci, anche un film come Les Carabiniers (1963) di Godard, tremendo per tutta la prima ora, diventa eccitante in virtù di una sola buona sequenza: quella della cartolina, verso la fine, incredibilmente e brillantemente prolungata. Fino ad allora il film arrancava e inciampava, ma poi si arrampica su una corda tesa e ci cammina sopra finché non siamo quasi storditi per l’ammirazione. Raramente la corda viene tesa così in alto ma è sempre necessario che a un certo punto ci sia un senso di tensione, anche se solo sul volto di un comprimario, la suspense meccanica non basta o il film non fa altro che affondare ulteriormente. È il raro film che ci conduce con sé, che ci tiene attenti, reattivi. Abbiamo imparato a detestare il “realismo” hollywoodiano e tutto quello che implica. Al buio, concentrati, ci agitiamo dinnanzi a eventi della vita di tutti i giorni che scorre al ritmo della vita di tutti i giorni: è la consapevole propensione verso l’integrità di persone prive di humour e di talento. Quando andiamo a vedere una rappresentazione teatrale ci aspettiamo un linguaggio stilizzato, elevato; il piatto realismo della strada è inguaribilmente noioso, ma possiamo sempre scappare via verso il bar più vicino e ascoltare con sollievo lo stesso linguaggio. Meglio la vita della sua imitazione.

Se ripensiamo ai film che ci sono piaciuti – anche quelli che ci rendevamo conto essere terribili – la loro piccola parte buona possedeva, in una maniera rudimentale, una freschezza, una traccia di stile e di bellezza, possedeva audacia, follia. Si trova là, nell’interazione tra Burt Lancaster e Ossie Davis, o in Wild in the Streets, quando Diane Varsi batte la grancassa, nel leggero tic di Hal Holbrook che si accorge del pericolo, in alcune battute di Robert Thom: in qualche modo hanno a che fare con l’arte anche se non assomigliano al concetto di “qualità” che ci è stato impartito. Possiedono una gioia divertita. In un film mediocre o pessimo, le parti buone possono dare l’impressione di venire fuori dal nulla; migliore è il film, più sembrano venire dal contesto stesso del film. Senza questo tipo di divertimento e la sensazione di piacere che traiamo da esso, l’arte non è affatto arte, è qualcosa di punitivo, come accade spesso a scuola, dove persino le piccole opere scherzose vengono appesantite dalla spiegazione.

Tenendo a mente questa semplice distinzione, che tutta l’arte è entertainment ma non tutto l’entertainment è arte, può essere utile tenere a mente anche che se un film viene considerato arte e non vi è piaciuto, il problema potrebbe essere vostro ma è più probabile che sia del film. A causa dell’investimento e delle pressioni del lancio pubblicitario implicati, molti recensori scoprono un nuovo capolavoro ogni settimana; lo snobismo culturale e il desiderio di rispettabilità determinano la selezione dei capolavori annuali. Nei film stranieri, ciò che viene spesso erroneamente scambiato per “qualità” è un’imitazione dell’arte del cinema che li ha preceduti o qualcosa che deriva da opere approvate e rispettabili di altre arti – come il pittore folle di Hour of the Wolf (L’ora del lupo, 1968) che si imbratta di rossetto nel tentativo di rendere l’angoscia espressionista. Colpita ai fianchi, la stampa dice “arte” mentre sarebbe più appropriato dire “ahi!”. Quando un regista viene considerato un artista (generalmente in base alle opere precedenti, il cui valore la stampa non è stata in grado di riconoscere) e specialmente quando sceglie di trattare argomenti artistici come il dolore della creazione, c’è una tendenza ad acclamare il suo nuovo, pessimo lavoro. In questo modo la stampa, cercando di fare ammenda per gli errori passati, riesce a essere costantemente in errore. Ecco perché un film sulla vendetta di una vergine amareggiata come The Bride Wore Black (La sposa in nero, 1968) viene trattato con rispetto, come se rivelasse in ogni fotogramma la sensibilità dell’artista. I recensori che hanno riso vedendo Lana Turner compiere la sua posa da femme fatale nell’ennesimo film prodotto da Ross Hunter vanno in deliquio per gli sguardi inespressivi di Jeanne Moreau nel film di Truffaut.

Ciò che nei film americani spesso viene scambiato per qualità artistica è il successo al box-office, specialmente se combinato alla genuflessione nei confronti della rilevanza di un tema: in tal caso si tratta di “un film di cui l’industria può andare fiera” come To Kill a Mockingbird (Il buio oltre la siepe, 1962) o film premiati dall’Academy come West Side Story (Id., 1961), My Fair Lady (Id., 1964) e A Man For All Seasons (Un uomo per tutte le stagioni, 1966). Fred Zinneman ha girato una bella variante moderna del western, Sundowners (I nomadi, 1960), e quasi nessuno l’ha visto finché non è passato in televisione; ma A Man For All Seasons aveva un aspetto prestigioso e la stampa si è sentita in dovere di elogiarlo. Non credo che la maggior parte dei recensori consideri ciò che li diverte onestamente un elemento centrale per la critica. Alcuni sembrano pensare che significhi fare troppo affidamento al proprio gusto, avanzare un criterio “personale” a scapito dell’oggettività – facendo affidamento sui termini preconfezionati di rispettabilità culturale e sul giudizio di consenso (che può essere strumentalizzato dalla campagna pubblicitaria a un livello sconvolgente, così da creare un’aura di importanza intorno a un film). E come i registi che, invecchiando, bramano ciò che veniva considerato rispettabile durante la loro giovinezza e aspirano al prestigio culturale, anche la stampa cinematografica desidera venire elevata secondo i valori culturali dei loro vecchi licei e, di comune accordo con l’industria, applaude terribili tour-de-force attoriali, film tratti da illustri opere teatrali e romanzi di successo, o film “meritevoli”, che rendono un “contributo”, che hanno un messaggio “serio”. Ciò significa elogiare brutti film, film noiosi, o anche elogiare in buoni film ciò che di peggio vi è in loro.

Quest’ultimo meccanismo può essere riscontrato negli onori tributati a In the Heat of the Night (La calda notte dell’ispettore Tibbs, 1967). La cosa migliore del film è quel momento comico in cui Sidney Poitier dice “I’m a police officer”, perché ribalta le attese dello spettatore e tutti abbiamo riso con sollievo scoprendo che non si trattava di un esercizio di stile auto indulgente e autolegittimante alla vecchia maniera deprimente di Stanley Kramer. In quel momento il pubblico torna in vita. Il film diverte soprattutto per l’idea di uno Sherlock Holmes di colore in un cartone animato di Tom & Jerry al rovescio. Il colore della pelle di Poitier viene usato ai fini della commedia anziché per fornire quel surplus di ironia e pathos che ha reso insopportabilmente sentimentale un film come To Sir With Love (La scuola della violenza, 1967). Poitier non recita particolarmente bene la parte dell’investigatore: è tutto d’un pezzo anche quando deve declamare quel tipo di congetture scientifiche senza senso sull’essere destri o mancini che avrebbero mandato Basil Rathbone in uno stato di estasi di dizione leziosa, con il sopracciglio alzato e gli occhi strizzati. Come Bogart in Beat the Devil (Il tesoro dell’Africa, 1953), Poitier sembra non stare allo scherzo. Ma Steiger ha compensato con una prova comica ancora più comica perché inattesa – non solo per la carriera di Steiger, che ha preso tutt’altra direzione, ma per l’inizio apparentemente drammatico del film. Ad ogni modo: il film è stato elogiato dalla stampa come se fosse il tipo di film che il pubblico ha scoperto con sollievo non trattarsi – fatta eccezione per le classiche scene melodrammatiche piene di finto coraggio e il climax con Poitier che schiaffeggia un ricco bianco del sud o viene attaccato da teppisti bianchi, perché nelle sue parti peggiori lo è. Quando l’ho visto, il pubblico, sia bianco che nero, ha apprezzato l’ironia legata al fatto che sia il detective di colore arguto e ben educato a spiegare come stanno le cose al capo della polizia del sud, cialtrone, goffo e arretrato. Un’ironia molto più aperta e inoffensiva rispetto a quella solita di Poitier, così buono e così nero. Per una volta, invece, è tanto divertente (anziché imbarazzante) da essere superiore a tutti gli altri. In the Heat of the Night, di per sé, non è un film particolarmente importante: straordinariamente brillante dal punto di vista della fotografia, è una divertente commedia-thriller alquanto ingarbugliata. Il regista Norman Jewison manda tutto a rotoli quando Steiger si trasforma nello spiritello malevolo di Poitier, infondendogli tenerezza e facendolo diventare sdolcinato, ed è un peccato che in un poliziesco in cui il punto centrale sia la dimostrazione dell’abilità di un detective di colore nel risolvere ciò che a un bianco non riesce, la questione non venga portata avanti fino in fondo. Forse ci voleva un super regista di colore (il film sarebbe stato più che un vivace poliziesco se il detective fosse riuscito a risolvere il caso non con mezzi “scientifici” ma attraverso la comprensione di cosa regola le relazioni nel Sud in una maniera che non riusciva al capo della polizia bianco). Ciò che lo rende interessante ai fini del mio discorso è che il pubblico l’ha apprezzato per la vitalità della sua sorprendente briosità, mentre l’industria si è congratulata con se stessa per ché il film “colpiva duro” – per dire che trattava concetti meritori e seri.

Coloro che considerano In the Heat of the Night un film socialmente consapevole, a cui l’industria guarda con orgoglio, vanno probabilmente d’accordo con la maniera in cui la stampa ha attaccato il successivo film di Jewison, The Thomas Crown Affair, considerato spazzatura, un fallimento. Si potrebbe tentare lo stesso gioco fatto su In the Heat of the Night e convertire la sciocchezza di Crown in un esercizio sub-fascista perché Crown, il superuomo che si dedica al furto per noia, è il figlio disonesto di The Fountainhead (La fonte meravigliosa, 1949), senza le lotterie. Ma significherebbe prendere troppo sul serio una fantasia da pomeriggio estivo: da tempo non vedevamo un film sulla vita meravigliosa di un giovane executive, e prendersela politicamente con il ritorno del genere “ladro e gentiluomo” alla Ronald Colman e William Powell vuol dire non avere senso dello humour nei confronti del piccolo adolescente romantico e fascista in agguato dentro ognuno di noi. Parte del divertimento dei film è che ci permette di capire quanto siano stupide molte delle nostre fantasie, ma anche quanto siano condivise. Un esempio di entertainment leggero e romantico come The Thomas Crown Affair, pattume non mascherato, è il tipico esempio chic di film spazzatura che (avremmo detto) nessuno avrebbe potuto scambiare per arte: guardarlo è come prendere il sole sfogliando riviste di moda e, come si diceva un tempo, sentirsi ricchi e belli ben oltre i nostri sogni più folli.

Ma non è facile venire a patti con ciò che ci piace dei film, e se la vecchia generazione è stata persuasa ad accantonare la spazzatura, ora una più giovane, con la stampa e le scuole alle calcagna, ha cominciato a trattare la spazzatura come se fosse vera arte. I giornali dei college e la stampa di tutto il Paese sono ricolmi di nuove forme esilaranti di scolasticismo, e gli studenti sfruttano l’educazione ricevuta per imbastire spiegazioni di grande effetto per aver apprezzato piatti molto semplici e tradizionali. Questa è una comunicazione da Cambridge sul giornale di Boston:

All’editore:
The Thomas Crown Affair è fondamentalmente un film sulla fede tra persone. Per certi versi ricorda una sorta di vecchia fiaba aggiornata, il racconto di un atto di fede estremo. È un film su una storia d’amore (come da titolo) con un sottotesto di rapine in banca, più che il contrario. La sottigliezza del film sta nella maniera in cui il plot esteriore è utilizzato come matrice per sviluppare temi più seri, più o meno alla stessa maniera in cui funzionava In the Heat of the Night.
Benché Thomas Crown sia un personaggio affascinante, è Vicki la protagonista. Crown è coerente, prevedibile: flirta con il pericolo per sentirsi superiore a un sistema di cui fa parte e per rendere più interessante la propria vita, altrimenti fin troppo agiata. Vicki è presa tra due elementi opposti al proprio interno che, per comodità, definirei “maschile” e “femminile”. Nonostante il proprio fascino, è fin dall’inizio fondamentalmente mascolina, svolge una professione da uomini, all’inseguimento spietato del prestigio e del benessere economico. Crown ne libera la parte femminile. Il test a cui la sottopone riguarda la sua femminilità. Il mascolino risponde alla sfida. Ecco dove giace il pathos della rivelazione finale. L’egocentrismo di lei non si era ancora svelato a quello di lui.
In tale contesto fisico, viene esplorata la possibilità di fondare un rapporto di fiducia. Il film si muove in direzione dell’enigma finale di Vicki. La sua ambivalenza è adeguata al crescere del pericolo per Crown. La suspense sta nella maniera in cui lei risponderà al dilemma piuttosto che nello scoprire se Crown riuscirà a farla franca.
Trovo che The Thomas Crown Affair sia un film unico e coinvolgente, superbo nel design tecnico e visivo, affascinante nella maniera in cui tratta allegoricamente il problema della fede umana.

The Thomas Crown Affair è spazzatura di buona fattura, ma non dovremmo falsificare i motivi per cui lo apprezziamo secondo i concetti derivati dai nostri studi o da altre arti. Vorrebbe dire essere disonesti nei confronti di ciò che ci piace. Se la vecchia generazione di recensori si vergognava di ciò che li faceva divertire e si sentivano in dovere di mostrarsi sprezzanti nei confronti dell’intrattenimento popolare, per una nuova generazione di cinefili è ancora peggio essere talmente fieri di ciò che li fa divertire da servirsi dell’educazione ricevuta per trovare un posto alla spazzatura all’interno di una tradizione accademica accettabile. Il ragazzo di Cambridge opera una forma di mistificazione peggiore di quella messa in atto da coloro che parlano della Loren come di una grande attrice anziché di una splendida donna. La spazzatura non appartiene alla tradizione accademica, e questo è parte di ciò che la rende divertente: sapere (come si dovrebbe) che non va presa sul serio, che non ha mai inteso essere altro che frivola, irrisoria e divertente.

Fa impressione leggere solenni studi accademici su Hitchcock o von Sternberg scritti da gente che sembra aver completamente dimenticato i motivi primari per cui si vedono film come Notorious (Notorius, l’amante perduta, 1946) o Morocco (Marocco, 1930), che non avevano alcuna intenzione di essere solenni, ma piuttosto inventivi, briosi e (spesso deliberatamente) leggermente assurdi. Ciò che c’è di buono in essi e li apparenta all’arte è proprio quel brio e l’assenza di solennità. Adesso si fa un gran parlare della tecnica di von Sternberg, del suo uso della luce, del décor e del dettaglio – e non che non sia un maestro del kitsch in questi settori, nell’artificiosità studiata e nell’eccesso accattivante. Sfortunatamente, alcuni studiosi si servono di questa sua capacità per considerare i suoi film opere d’arte, ancora una volta mistificando ciò a cui realmente rispondono: l’appagante fascino romantico di questa spazzatura particolarmente accattivante. Morocco è spazzatura eccellente ed è talmente raro che un film sia grande arte che se non siamo in grado di apprezzare la grande spazzatura ci restano poche ragioni per interessarci al cinema. Il kitsch di un’era precedente, anche quello migliore, non diventa arte, ma può diventare “camp”. I film di von Sternberg diventavano camp già mentre li stava ancora realizzando, perché quando il sentimento romantico è venuto a mancare dalla spazzatura – cioè quando il regista è diventato così innamorato dei propri effetti che ha trasformato il suo materiale umano in in uno scialbo pezzo di décor privo di affetto – il suo stile assurdamente kitsch era tutto ciò che restava. Adesso rispettabili pubblicazioni da museo ci dicono che nel 1932 un film come Shanghai Express (Id., 1932) “era stato ingiustamente scambiato per un film gratuitamente avventuroso” quando in realtà era stato compreso esattamente per quello che era: un film gratuitamente avventuroso. E apprezzato come tale. Questo mascherare la cultura bassa da alta è una particolare forma di follia cinematografica mescolata all’accademicismo: significa magiare una barretta di dolce e pulirsi le labbra parlando di “un problema allegorico sulla fede umana”. Se non ci interessasse altro che opere complesse e profonde non andremmo a vedere film su ladri affascinanti e donne seducenti che cantano in bar da quattro soldi, e se abbiamo amato Shanghai Express non era per la sua intelligenza ma per la gloriosa peccaminosità della Dietrich quando informa Clive Brook che “It took more than one man to change my name to Shanghai Lily” e per il cattivo boss cinese (Warner Oland!) che declama il classico “The white woman stays with me”.

Se non neghiamo il piacere che ci procura un certo tipo di spazzatura e accettiamo The Thomas Crown Affair come un discreto esempio di spazzatura cinematografica, allora forse possiamo cominciare a chiederci se un film come questo abbia qualche relazione con l’arte. Steve McQueen offre, a oggi, la sua prova più accattivante ma, per quanto l’abbia apprezzata, non me la sento di definirla artistica. È astuta, piuttosto, ovvero ciò che viene esattamente richiesto da questo tipo di veicolo – e se fosse stato più fortunato, se la sceneggiatura avesse fornito ciò di cui è palesemente sprovvista, ovvero un dialogo più sofisticato – il botta e risposta con allusioni sessuali che scrittori come Jules Furthman e William Faulkner hanno messo in bocca a Bogart, e se il regista Norman Jewison possedesse la leggerezza di tocco di Lutbisch, avremmo potuto acclamare McQueen come un artista mellifluo e “raffinato”. Anche in un contesto pieno di difetti c’è, però, nella sua prova d’attore una tale consapevolezza da rendere piacevole la sua eleganza. E Haskell Wexler, il direttore della fotografia, ci regala un’enorme quantità di effetti, invadendo lo schermo con ondate di rassicurante bellezza, migliorando così il materiale a disposizione. E i giochi di split-screen di Pablo Ferro all’inizio del film sono così consapevoli e furbi da convincerci a guardare dove non risiede altro interesse. Ciò che rende più apprezzabile questa spazzatura riguarda il fatto che i tecnici e gli attori coinvolti, consapevoli del fatto di star lavorando su uno script sciocco e banale e a un film che non è meglio, hanno sfruttato al massimo la possibilità di trasformarlo in qualcosa di divertente. Se il regista Norman Jewison fosse stato in grado di mettere in piedi un film anziché un insieme di sequenze, forse avremmo potuto considerare Crown un’opera della classe di Trouble in Paradise (Mancia competente, 1932) di Lutbisch. Invece non ci si avvicina nemmeno, perché per trasformare il kitsch e renderlo arte c’è bisogno di una grazia unificatrice, lo charme formale che Lubitsch a volte era in grado di offrire. Nonostante ciò, qualche accenno di grazia ci viene dalla giocosità di McQueen, da Wexler e da Ferro. Lavorando con la spazzatura, liberi di divertirsi, gli attori e i tecnici possono sentirsi più sciolti, come lo è lo spettatore di guardare la spazzatura. E poiché ritroviamo questa piacevolezza dell’arte in poco cinema se non nella spazzatura, possiamo tranquillamente rilassarci e apprezzarla liberamente per quel che è. Non mi fido di nessuno che non sia capace di ammettere di aver apprezzato almeno una volta un film spazzatura americano; non mi fido dei gusti di una persona che sia nata con tale buon gusto da non dover trovare la propria strada in mezzo alla spazzatura.

C’è un momento in Children of Paradise (Amanti perduti, 1945) quando il ricco nobile (Louis Salou) si volta verso la propria amante, la plebea ornata di perle Garance (Arletty) lamentando il fatto che negli anni trascorsi insieme non ha mai avuto il suo amore e lei risponde “You’ve got to leave something for the poor”. Ai film non chiediamo tanto, giusto qualcosa che ci possa appartenere. Chi, a un certo punto, non è sgattaiolato fuori da quel bel film straniero per intrufolarsi dove proiettavano un bell’esemplare di spazzatura americana? Non siamo solo persone educate e di buon gusto, siamo anche persone comuni con gusti comuni. E i nostri gusti comuni non sono tutti cattivi. Dalla spazzatura ci aspettiamo una vitalità che siamo abbastanza certi di non ritrovare nei rispettabili “film d’arte”. E abbiamo anche capito da un pezzo che non possiamo trovarla nemmeno in alcuni film americani. L’industria, adesso, ha assunto un tono neo-vittoriano, congratulandosi con se stessa per quei (pochi) film “belli e puliti”– che sono sempre i suoi film peggiori, perché niente riesce a trapassare la loro superficie compiaciuta, e anche il talento degli attori si limita a essere carino e stucchevole. La più bassa spazzatura d’azione è preferibile al sano intrattenimento per famiglie. Quando li si ripulisce, quando si rendono i film più rispettabili, li si uccide. La fonte della loro arte, la loro grandezza, sta nel loro non essere rispettabili.

VII

La spazzatura corrompe? In ambito artistico fiorisce ancora un bizzarro puritanesimo, non solo nell’approccio scolastico che considera l’arte qualcosa di “meritevole”, ma anche ai piani alti della vita accademica dove gli ideologi ci denigrano perché apprezziamo la spazzatura come se ciò ci allontanasse dalla vera, nuova arte dei nostri tempi, arrabbiata e disturbante, e ci distruggesse. Se fossimo costretti, faremmo fatica a giustificare i nostri piaceri sciocchi e triviali. Come potremmo giustificare il divertimento di riconoscere certi volti, un film dopo l’altro, come Joan Blondell, la ragazza appariscente dal cuore d’oro, o quello di aspettare che la piccola eroina pronunci la sua battuta, così da ascoltare la risposta dell’amica dura e spiritosa (la mia favorita era Iris Adrian). E, quando il film dovesse diventare noioso, ci sarebbe sempre l’interludio cantato: guardie e ladri che si trovano nello stesso nightclub terra di nessuno, tutto si ferma e la ragazza comincia a cantare. A volte può trattarsi della cosa più gradevole del film, come quando Dolores Del Rio canta “You Make Me That Way” in International Settlement (L’ultima nave da Shanghai, 1938); altre volte arriverebbe in modo malinconico, come quando una morente Bette Davis accompagna la chanteuse che canta “Oh Give Me Time for Tenderness” in Dark Victory (Tramonto, 1939). I piaceri procurati da siffatta spazzatura non sono difendibili sul piano intellettuale.

Ma perché mai dovremmo giustificarli? Qualcuno è in grado di dimostrare che la spazzatura ci desensibilizza? Che impedisce alla gente di apprezzare qualcosa di meglio, che limita la gamma del nostro responso estetico? Che io sappia nessuno potrebbe riuscirci. O che persino i film della Disney o quelli con Doris Day ci procurino un male duraturo? Non conosco nessuno a cui sia capitato, benché mi sembri che influiscano sul tono della cultura e che forse – non scherzo – anche se non ci danneggiano singolarmente, possano avvelenarci collettivamente. Ci sono donne che desiderano vedere un mondo in cui tutto sia carino e allegro, nel quale il romanticismo trionfi (Barefoot in the Park [A piedi nudi nel parco, 1967], Any Wednesday [Tutti i mercoledì, 1966]); famiglie che vedono nei film una fonte di ispirazione innocua, un buon esempio per i propri figli (The Sound of Music [Tutti insieme appassionatamente, 1965], The Singing Nun [Dominique, 1966]); coppie in cerca di quell’umorismo alla buona (A Guide for the Married Man [Una guida per l’uomo sposato, 1967]) che li spinge anche ad assistere agli spettacoli di Broadway. Queste persone sono il motivo per cui film fasulli, stantii e marci fanno soldi; sono il motivo per cui in giro ci sono così pochi buoni film. Ecco perché questa terribile cultura conformista ci riguarda tutti. Di certo limita e paralizza le opportunità degli artisti. Ma non è per questo che la spazzatura viene generalmente attaccata. Ho fatto a meno di utilizzare il termine “spazzatura innocua” per film come The Thomas Crown Affair perché ciò mi metterebbe dalla parte dei buoni, contro una “spazzatura dannosa” che, onestamente, non ho idea di cosa sia. È normale che la stampa consideri “abbruttenti” violenti film d’azione realizzati con due soldi, ma ciò non ci dice tanto di effetti dimostrabili quanto dei gusti schizzinosi dei recensori – capaci spesso di apprezzare la violenza in contesti più costosi e “artistici”, come in Petulia. Potremmo dire che si tratta di un pregiudizio di classe: i film più rozzi, privi di ogni apparenza artistica, fanno male alla gente.

Se c’è un pizzico d’arte nella buona spazzatura e a volte anche in quella cattiva, potrebbe esserci più spazzatura di quanto si creda in alcuni dei più acclamati film “artistici”. Film come Petulia e 2001 potrebbero non essere altro che spazzatura nella sua veste più aggiornata e accattivante: si servono di “tecniche artistiche” per dare alla spazzatura l’aspetto dell’arte, un aspetto che potrebbe essere l’ultima moda in fatto di spazzatura costosa. Tutta questa “arte” potrebbe essere ciò che impedisce a film così di essere spazzatura apprezzabile: non sono di bassa qualità in maniera “onesta”, sono sofisticati e prendono molto seriamente le proprie idee di bassa qualità.

Raramente ho visto un film più sgradevole, spiacevole (e sanguinolento) di Petulia e ritengo che il suo successo commerciale rappresenti un trionfo della pubblicità. È un film molto strano e alla gente può piacere per ogni sorta di ragioni, ma credo che a molti, come me, non piaccia, solo che ritengono di doverne restare impressionati: le persone educate e privilegiate potrebbero oggi essere più suscettibili ai mass media di quanto lo sia il pubblico comune. Sono certamente più facili da raggiungere. La pubblicità riguardo Richard Lester in veste artista ha preso slancio fin dai tempi di A Hard’s Day Night (Tutti per uno, 1964). Un successo di critica unito a quello di pubblico trasforma un regista in un genio, un mago capace di fare soldi con l’arte. I media si contendono le storie più clamorose, sono a caccia di saggi editoriali e pezzi che lancino trend, perché una volta che il processo comincia tutto fa notizia. Se Lester “ruba la scena”, una rivista che non ha contribuito al suo successo si sente sconfitta dalla concorrenza. Petulia è la celebrazione di un’America malata e nella sequenza d’apertura gli ospiti arrivano – ricche vittime di incidenti stradali nelle loro sedie a rotelle – vestiti come lo “spirito del ’76” alla prima di un’opera. È un horror fantascientifico – un nuovo mondo sgargiante, quello a cui siete stati invitati, il “Ballo per la Sicurezza Autostradale”.

Lester ha scelto San Francisco per sferrare il suo attacco all’America proprio come ha scelto la Seconda guerra mondiale per attaccare la guerra. Perché è un vero attacco frontale, quello sferrato nei confronti di una guerra che molte persone considerano giusta. Ma Lester si è concentrato più sui conflitti di classe che sulla guerra in sé – chi non era impegnato a difendere Londra o a bombardare la Germania si dava da fare per costruire un campo di cricket in Africa. In Petulia, la sua lettera d’odio all’America, sposta l’ambientazione del romanzo da Los Angeles a San Francisco, presumibilmente per dimostrare che anche ciò che di meglio ha da offrire il Paese è corrotto. Ma poi tradisce i propri intenti travestendo San Francisco da Los Angeles. E se deve mettere imbonitori carnevaleschi sul Golden Gate e inventare escursioni domenicali per bambini a Alcatraz o ambigue caricature dell’affarismo odierno, come bizzarri motel automatici e finti set televisivi; e se deve sfruttare le brutture, l’isterismo e la follia, servirsi di filtri per rovinare la bella luce della città, se, in breve, deve falsificare l’America per renderla odiosa, il suo odio verso cosa è rivolto? È come un poliziotto corrotto che incastra un sospetto servendosi di prove artefatte. Non scopriamo mai il perché: è troppo attento nell’inscenare un caso appariscente per esaminare quello che sta facendo. E i recensori non sembrano intenzionati a fare domande che potrebbero esporli al rischio di far credere di star cercando un significato anziché, secondo la nuova tendenza, reagire alle immagini – domande come “perché il film continua ad accostare immagini di chirurgia sanguinolenta e della guerra in Vietnam a immagini di gruppi rock come i Grateful Dead o Big Brother and the Holding Company?”. Cosa si suppone provochino in noi questi montaggi? Che ci facciano comprendere che anche l’eroe (un chirurgo impegnato a salvare vite) è implicato nella guerra e che in qualche modo la musica contemporanea è un’alleata di morte e distruzione? (Pensavo che solo i moralisti sovietici ci credessero). Le immagini di Petulia non forniscono connessioni valide, sono accostate al solo scopo di ottenere shock ed eccitazione, e non credo nella validità di un metodo che getta in un unico calderone gli hippy, la guerra, la chirurgia, il benessere, i decadenti degli stati del sud e le corride. Il miscuglio operato da Lester è disonesto quanto quello di Mondo cane (1962): Petulia sfrutta qualunque materiale scioccante possa mettere insieme per dare falsa importanza a un a storia su Holly Golightly e l’uomo con l’abito grigio di flanella. Lo stile a mosaico del film, frastagliato e brillante, è un’armatura che protegge Lester dal compito dell’artista: un tipo di stile che non inganna più nessuno quando è scritto, ma istupidisce la gente se usato in un film.

I registi in difficoltà ricorrono a quello che amano chiamare il loro “stile personale” – anche se Petulia illustra bene quanto possa spesso essere impersonale – anche senza ricorrere al montaggio ritmico e nello stile da montaggio grafico associato a Lester (e visto soprattutto in Help! [Aiuto!, 1965], se non il suo film migliore, quello meglio montato) ma nello stile di un chirurgo, Anthony Gibbs, che si è messo al lavoro sul film con una mannaia e gli ha dato lo stesso taglio di The Loneliness of the Long Distance Runner (Gioventù, amore e rabbia, 1962) e in Tom Jones (Id., 1963), la sua operazione di salvataggio. Il montaggio di gran parte di Petulia è il più banale immaginabile: tiene desta l’attenzione del pubblico per mezzo di stacchi, giustapposizioni di immagini sorprendenti, tutto purché funzioni, appaia sorprendente – mentre il regista, all’apparenza, si dispensa dalle responsabilità implicite negli accostamenti che fa (un tipo di montaggio derivato da Alain Resnais che, benché nei suoi film dia vita a uno stile discutibile, se ne serve responsabilmente e non in maniera opportunistica).

Richard Lester fa rimproveri petulanti in abito da Mod. Si prenda in considerazione una sequenza come quella in cui la protagonista, pestata a sangue, viene portata all’ambulanza in compagnia di hippy che fanno i commenti più stupidi e fuori luogo. Ricorda in maniera imbarazzante i commenti degli adulti riguardo i giovani pre-hippies di The Knack (Non tutti ce l’hanno…, 1965). Lester ha solo cambiato faccia ai cattivi. Sta forse dicendo che l’America è così marcia che persino i nostri hippy sono malevoli? Sospetto di sì, ma perché? Lester ha scelto una maniera facile e modaiola di attaccare l’America e, a causa della guerra in Vietnam, molti sono disposti ad accettare i montaggi sanguinolenti che fanno sentire tutti colpevoli, ricchi, violenti, viziati e incapaci di relazionarsi agli altri. Forse il regista che ha girato tre film celebrando la gioventù (A Hard Day’s Night, The Knack e Help!) ora muore dalla voglia di ampliare il suo orizzonte e diventare un regista “serio”, e questa è la nuova moda in fatto di serietà cinematografica.

Sarebbe troppo semplice prendersi gioco degli ingredienti comuni della spazzatura – l’eccentrica eroina che ruba una tuba (più che Carole Lombard al suo meglio, Irene Dunne al suo peggio), il marito impotente e insignificante ma attraente, Richard Chamberlain (un altro ricco senza spina dorsale alla David Manners), e Joseph Cotten nelle vesti del peggior decadente vizioso del sud intento a sputare malevolenze (persino Victor Jory in The Fugitive Kind [Pelle di serpente, 1960] era meno spietato). Ciò che è davvero terribile non è tanto la convenzionalità di questa spazzatura quanto il tentativo da parte del regista di trasformarla in arte luccicante e analisi bruciante; ciò che è davvero orrendo è quanto siano spazzatura le sue idee e il loro effetto artistico.

C’è forse dell’arte in questo film così oscenamente autocompiaciuto? Sì, ma in un formato come questo le poche idee buone non brillano come succede con la spazzatura pura e semplice: prima di ottenerle ci tocca subire una gran quantità di cose spiacevoli ed esibite. Lester dovrebbe aver più fiducia nelle proprie capacità registiche e accantonare questi effetti da prestigiatore d’immagini, perché alcune sequenze mostrano una bella regia, tesa. Ha ottenuto una buona prova d’attore da George C. Scott e c’è una sequenza di litigio postmatrimoniale tra lui e Shirley Knight che, per quanto sopra le righe, non è così palesemente sopra le righe quanto il resto del film. Suggerisce qualcosa di interessante riguardo ciò che il film sarebbe potuto essere (Shirley Knight, comunque, avrebbe potuto fare a meno di carezzarsi in continuazione i capelli come un avaro in possesso di un gruzzolo d’oro). E Julie Christie è straordinaria da vedere, ansiosa e lasciva, smagliante, ma qualcosa di fondamentale è assente, quasi che in lei non ci fosse una donna.

VIII

2001 è un film che avrebbe potuto realizzare il protagonista di Blow Up (1966), ed è divertente pensare a Kubrick che riesce davvero a fare ogni piccola cosa che gli viene in mente, edificare giganteschi set di fantascienza con tutto il loro equipaggiamento, senza mai neanche preoccuparsi un istante di cosa ne farà alla fine. Anche Fellini si è fatto portare lontano dall’approccio da “edificatore di set enormi”, ma la sua grande costruzione fantascientifica, esposta in conclusione a 8 e 1⁄2 è stata poi abbandonata. Kubrick non ha mai davvero realizzato il film che voleva ma sembra non essersene reso conto. Ad alcuni piacciono i film della AIP perché sono abbastanza idioti e ad alcuni forse piace 2001 per tutta quella stupida messa in scena, fantasia super-sci-fi da svitati. In qualche modo si tratta del più grande film amatoriale di sempre, completo anche della scena obbligatoria dei film amatoriali – la figlia del regista che dice al papà quale regalo desidera. In You Only Live Twice (Agente 007, si vive solo due volte, 1967) c’era una scena prima dei titoli di testa con un astronauta nello spazio girata con più libertà e scioltezza di 2001 – un piccolo momento sorprendente che diverte più di tutto 2001. Possedeva l’elemento dell’inaspettato, lo shock del rendere lirica la morte nello spazio. Il sottotitolo di Dr. Strangelove (Il dottor Stranamore, 1964), che credevamo essere satirico, “How I learned to stop worrying and love the bomb”, non era, a quanto pare, satirico per Kubrick. 2001 celebra l’invenzione di strumenti di morte, all’interno di un percorso volto a un ordine superiore di vita non umana. Kubrick ha letteralmente smesso di preoccuparsi e ama la bomba; si è trasformato nell’Herman Kahn della teoria dei giochi extraterrestri. Forse, l’attrazione di un film così faticoso e confuso è quella di condurre un pubblico sballato fuori dal mondo verso una consolante visione dell’universo spaziale, controllato da superiori menti divine, dove l’eroe rinasce come bambino angelico. Ha l’aspetto sognante di una visione del paradiso alla “somewhere over the rainbow”. 2001 è una celebrazione del “cop-out”. Dice che l’uomo non è altro che un minuscolo nulla lungo la scala al cielo, che sta per arrivare qualcosa di meglio, ma che, in ogni caso, non è a portata di mano. C’è un’intelligenza lassù nello spazio che controlla il vostro destino dalla scimmia all’angelo, non dovete fare altro che seguire il monolite. “Drop up”.

È un brutto segno quando un regista comincia a pensare a se stesso come a un produttore di miti, e questo mito zoppicante di un grande piano che giustifichi lo sterminio e termini con la resurrezione circola già da un pezzo. La narrazione del film di Kubrick – il resoconto dell’evoluzione da parte di un’intelligenza extraterrestre – è probabilmente il più gloriosamente ridondante di tutti i tempi. E anche se le sue intenzioni potrebbero essere state diverse, 2001 celebra la fine dell’uomo; nel film, la morte di Gary Lockwood passa inosservata – il momento non viene nemmeno specificato – e l’eroe non scopre nemmeno che gli scienziati ibernati sono ormai cadaveri. Non è rilevante, in un film che parla della bellezza della resurrezione. Intraprendete il viaggio per unirvi all’intelligenza cosmica e tornate indietro con una mente migliore. E, dal momento che nel film il viaggio è il consueto spettacolo di luci pischedeliche, il pubblico non deve nemmeno preoccuparsi di raggiungere Giove. Posso andare in Paradiso al Cinerama.

Non è un caso se non ci importa che i personaggi vivano o muoiano; se Kubrick li ha resi così poco interessanti in parte è perché i personaggi e i loro destini individuali non sono abbastanza importanti per certi, grandi registi. I grandi registi diventano generali dell’arte: sono a caccia di argomenti che rispecchino la loro grandezza. Kubrick ha annunciato che il suo prossimo progetto sarà Napoleon – che, per un regista, è l’equivalente di interpretare Giovanna d’Arco per un’attrice. I commenti “feroci” di Lester sul benessere e il malessere, la banalità di ispirazione di Kubrick su come diventeremo Dei grazie alle macchine, sono il miglior esempio di pensiero profondo che può offrire lo show-business. Non si tratta di un fenomeno nuovo, in quest’ambiente: appartiene alla tradizione del genio teatrale. Grandi investitori, produttori e registi mettono in scena grandi spettacoli, persino designer di grandi set hanno cominciato a interpretare il ruolo di visionari e pensatori capaci di fornire risposte. Diventano troppo grandi per l’arte. È possibile realizzare un prodotto artistico se per l’artista la pseudoscienza e la tecnologia del cinema diventano più importanti dell’uomo? È una questione centrale per il fallimento di 2001. Si tratta di un film monumentale nella sua scarsa immaginazione: con la sua centrifuga da 750 mila dollari e il suo amore per i pannelli di controllo e l’hardware gigante, Kubrick è il Belasco della fantascienza. Gli effetti speciali – benché vengano dritti dal laboratorio di progettazione – sono eccellenti, e costosamente dettagliati. C’è ben poco altro di buono nel film, quando Kubrick non si prende troppo sul serio – come il momento comico in cui le astronavi spaziali cominciano il loro valzer sulle note di Strauss; vale a dire, quando il regista mostra un minimo senso di proporzione riguardo ciò che sta facendo, e si rende conto per un istante della comicità del tutto – e quando il film non si prende sul serio in maniera così solennemente idiota. Il viaggio di luci non è particolarmente entusiasmante: paragonato al lavoro di un regista sperimentale come Jordan Belson, è di terza mano. Se i grandi registi devono venire lodati perché fanno male quello che altri hanno fatto molto meglio con pochi soldi, solo perché l’hanno messo su un grande schermo, allora gli uomini d’affari sono più grandi dei poeti e il furto è arte.

IX

Parte del divertimento dei film è andare a vedere “quello di cui tutti parlano”, e se la gente si mette in fila come un gregge per vedere un film, o se la stampa riesce a convincerci che è proprio quello che fanno, allora ironicamente ciò che vogliamo vedere ha un senso, anche se sospettiamo che potremmo non divertirci, perché vogliamo sapere cosa sta succedendo. Anche se ciò di cui si parla di più è un pomposo pezzo di spazzatura (e di solito è proprio così) e anche se tutto quel parlarne è prodotto ad arte, vogliamo vedere ugualmente quel film perché così tanta gente crede a ciò che le viene raccontato da trasformare in verità le bugie delle campagne promozionali. Il cinema assorbe materiale dalla cultura e dalle altre arti così rapidamente che alcuni film, venduti in maniera diffusa, diventano importanti a livello sociale e culturale a prescindere dalla loro qualità. Film come Morgan! (Morgan matto da legare, 1966), Georgy Girl (Georgy svegliati!, 1966) o The Graduate – esteticamente trascurabili – a causa del modo in cui reagisce la gente, entrano nel flusso popolare, diventano equivalenti culturali e psicologici dell’assistere a un convegno politico: li si vede per rendersi conto di quanto accade. E benché ciò abbia poco a che fare con l’arte del cinema, ne ha molto con il fascino dei film.

Un analista mi dice che quando i suoi pazienti non parlano dei loro problemi personali parlano di personaggi e situazioni visti in The Graduate o Belle de jour (Bella di giorno, 1967) e parlano di loro con lo stesso coinvolgimento personale con cui raccontano i propri problemi. Altrove ho avanzato l’idea che questo modo di reagire ai film come psicodrammi un tempo venisse considerato una maniera da “preletterati”, ma oggi i “postletterati” reagiscono allo stesso modo. Gli studenti del college che si identificano con Georgy o con il Benjamin di Dustin Hoffman non sono diversi dalla stenografa che viveva in simbiosi con la lavoratrice Joan Crawford, intenta a domandarsi se quel ragazzo ricco l’avrebbe davvero resa felice e considerava “grandi” i film in cui recitava. Non vedono i film come tali ma come parte della soap-opera della propria vita. I “fan magazine” hanno contribuito a incoraggiare questo tipo di identificazione: ora fanno lo stesso anche i mass media più avanzati, e per vendere alla gioventù dicono “lasciatevelo scorrere dentro”. Chi risponde a questo richiamo non è più libero ma meno libero e meno consapevole di ciò che in un film è ben fatto o mal fatto e di chi sa cosa accettare e cosa rifiutare e si serve di tutti i propri sensi nel reagire, non affidandosi solo alla propria vulnerabilità emotiva.

Ma quello che interessa la gente interessa anche noi – a volte perché vogliamo sapere quanto ci siamo allontanati dal gusto comune – e se un film è importante per gli altri ci interessiamo a esso per quello che rappresenta per loro, anche se non dice granché a noi. Il piccolo trionfo di The Graduate è stato quello di aver “addomesticato” l’alienazione e la difficoltà di comunicazione, trasformando in una striscia a fumetti per la classe media le ragioni dell’alienazione di Benjamin e rendendo assolutamente evidente che egli non ha nulla da comunicare – ovvero ciò che lo rende un eroe accettabile dal grande pubblico. Se avesse avuto qualcosa da dire o idee da comunicare, il pubblico probabilmente l’avrebbe odiato. The Graduate non è un brutto film, è divertente, anche se in modo piuttosto superficiale (il pubblico ormai è programmato per le risate). Di sorprendente c’è, invece, che così tanta gente l’abbia preso sul serio. Ciò che c’è di divertente nel film è il fatto che si rida di un ragazzo sincero che vorrebbe parlare d’arte a letto con una donna che vorrebbe solo fornicare. A quel punto, però, il film comincia ad assecondare il narcisismo giovanile, glorificandone l’innocenza, e trasformando la donna cacciatrice (e pazza) nel cattivo della situazione. A livello commerciale funziona: il ragazzo noioso e incapace di esprimersi diventa, per il pubblico, l’eroe romantico sul quale proiettare sensazioni stupide e convenzionali: i suoi genitori non comunicano con lui, lui vuole la verità e non le mistificazione, e così via. Ma il film tradisce la propria furbizia: svende i momenti comici, piazzati ad hoc come in una commedia di Broadway, servendosi del richiamo cinematografico più vecchio del mondo: chiedere al pubblico di identificarsi con un sempliciotto, nient’altro che la versione aggiornata dell’adolescente incompreso, il ragazzo della porta accanto, puro di cuore. È quasi doloroso dover dire ai giovani che sono andati a vedere The Graduate otto volte che una sola sarebbe stata sufficiente perché hanno già visto ottanta volte lo stesso film con Charles Ray, Robert Harron, Richard Barthelmess, Richard Cromwell o Charles Farrell. Come si fa a convincerli che un film che vende l’innocenza è un’opera così commerciale quando sono andati lì proprio per quello? Quando The Graduate si sposta verso il tenero risveglio dell’amore, diventa la versione aggiornata di David and Lisa (David e Lisa, 1962). Il film di Nichols cerca in tutti modi di funzionare e, fondamentalmente, questo è il problema. C’è una pausa fatta apposta per le risate quando viene menzionata Berkeley, un inconfondibile segno della voglia di funzionare: questo tipo di cinematografia muta i valori, il focus, l’enfasi, qualunque cosa pur di ottenere un responso sicuro. Il “dono” di Mike Nichols è quello di sapersi far dirigere dal pubblico: è la demagogia dell’arte.

Anche la fornicazione tra diverse età è un classico del genere. Risale a Pauline Frederick in Smouldering Fires (1925), a Clara Bow che se la faceva con il fidanzato di mamma Alice Joyce in Dancing Mothers (1926) e a Mildred Pierce negli anni ’40. Anche le condizioni non sono differenti: gli adulti seduttori di quei film sono sofisticati, modani e corrotti, i giovani innocenti, anche se non così privi di humour e scialbi come Benjamin. Nel rispettare queste attitudini The Graduate è tipicamente americano, ci riporta a The Game of Love (Quella certa età, 1954) con Edwige Feuillère vecchia compassionevole, e a Lola Albright in A Cold Wind in August (Vento freddo d’agosto, 1961).

L’interesse del successo di The Graduate è di tipo sociologico: la scoperta di quanto la nuova gioventù sia emotivamente accessibile alle stesse, vecchie manipolazioni di sempre. Il ricorrere di certi temi nei film suggerisce che ogni generazione desidera il romanticismo, rielaborato in termini leggermente nuovi, e uno dei piaceri del cinema come arte popolare risiede proprio nella possibilità di assecondare tale necessità. Però… non ci si aspetta che una generazione così istruita sia così tenera con se stessa, più tenera degli operai che, in passato, non andavano a rivedere sempre lo stesso film, fantasticando su se stessi e pensando che questa fissazione significasse che il cinema era improvvisamente diventato un’arte, la loro arte.

X

Quando si è giovani è probabile che si trovi qualcosa di apprezzabile in ogni film. Ma crescendo si acquista esperienza e le probabilità cambiano. Qualche anno fa ho visto un film che pareva la sesta rielaborazione di materiale già scadente in partenza. A meno che non siate dei ritardati, le probabilità peggiorano sempre. Non andiamo mai avanti all’infinito a leggere gli stessi romanzi scritti in serie – gialli o western, tanto per dire – così come non vogliamo andare avanti tutta la vita a vedere filmetti su una banda di rapinatori imbranati. Il problema delle forme d’arte popolari è che quelli che desiderano qualcosa di più sono una minoranza irrilevante se paragonata ai milioni che vedono sempre le cose per la prima volta, o per il senso di rassicurazione e gratificazione di vedere le convenzioni sempre rispettate. Questo è il motivo per cui, probabilmente, molti dei migliori critici si arrendono. Sbagliano a dare la colpa ai film: non sono i film a peggiorare, peggiorano le probabilità, e non sono più in grado di sopportare i tanti film noiosi per quel poco di buono e di identificazione che offrono. Alcuni diventano troppo annoiati, altri troppo affaticati per rispondere a ciò che è davvero nuovo. Altri diventano troppo esigenti rispetto ai giovani che vedono tutto per le prime cento volte. Il compito del critico è necessariamente comparativo, e i più giovani non sono in grado di capire cosa sia davvero nuovo. Nonostante il gran parlare dei media su quanto siano svegli i giovani d’oggi, essi sono incredibilmente ingenui nei confronti della cultura di massa – persino più ingenui della generazione che l’ha preceduta (anche se non so spiegarmi perché). Forse guardare così tanta televisione non gli ha fatto bene quanto credono; e quando mi capita di leggere l’apprezzamento di un giovane intellettuale nei confronti di Rachel, Rachel (La prima volta di Jennifer, 1968), quando parla della “passione della madre per le barrette di cioccolato come simbolo supremo di una seconda infanzia” capisco che chi l’ha scritto è ancora nella sua prima infanzia e mi chiedo se ne uscirà mai.

Le abitudini e i gusti di un cinefilo cambiano – dei film mi piace quello che mi è sempre piaciuto ma adesso, per esempio, apprezzo molto di più i documentari. Dopo tanti anni passati a vedere film antiquati e recitati male, con sempre qualcosa di meno da offrirmi, sono alla ricerca disperata di sapere qualcosa, di fatti, informazione, di volti non di attori e della conoscenza di come vivono le persone – sono in cerca di rivelazioni, non di quei dettagli minimi allestiti ad arte dalle menti di chi lavora nello show-business che li ricicla dagli stessi film di cui ci siamo stancati.

Ma il cambiamento è nelle nostre abitudini. Se riusciamo a vivere una vita decente e utile per noi stessi abbiamo meno bisogno di evadere verso quei piaceri sempre più rari dei film. Quando andiamo al cinema vogliamo qualcosa di buono, qualcosa che lo sia a lungo e non solo per un breve istante, perché abbiamo di meglio da fare. Se la vita a casa è più interessante, perché andare al cinema? E le sale frequentate dai veri cinefili – quelle persone perennemente dislocate in ogni città, i solitari e i perdenti – ci deprimono. Quando li ascoltiamo – e sono spesso più udibili del sonoro del film – mentre fanno il tifo per i ladri e denigrano i poliziotti, forse condividiamo ancora la loro disaffezione ma non è sufficiente a farci essere ancora interessati alle faccende di guardie e ladri. Un accenno di sberleffo non è abbastanza. Se siamo cresciuti al cinema sappiamo che i bei film non hanno una continuità con la tradizione accademica e rispettabile ma con l’intravvedere qualcosa che brilla nella spazzatura, e vogliamo che il gesto sovversivo venga protratto fino al dominio della scoperta. La spazzatura ci ha procurato la fame dell’arte.

(pubblicato originariamente su Harper’s, febbraio 1969; traduzione di Alessandro Stellino)