Delle molte e meritorie uscite che caratterizzano la Criterion Collection, il Blu-Ray (o Dvd) di A Brighter Summer Day rischia di diventare una delle più imprescindibili per ogni cinefilo degno di questo nome. Un 4K ottenuto dal negativo originale in 35mm, con rimozione manuale di innumerevoli graffi, detriti e sporcizia: un processo iniziato dalla Film Foundation di Martin Scorsese e proseguito fino all’attuale livello di eccellenza digitale dalla Cineteca di Bologna. Le note di Godfrey Cheshire, il commento audio di Tony Rayns e la presenza di extra come il documentario del 2002 Our Time, Our Story, dedicato alla New Wave di Taiwan, elevano l’entusiasmo a un punto tale da spingere David Bordwell a scrivere un decalogo specifico sull’uscita. Anche senza tutti i suddetti corollari, si tratta di una delle opere fondamentali del cinema anni ’90, tanto complessa e stratificata per i temi che attraversa quanto semplice e universale per la storia che racconta.

Il film di Yang duplice lo è già nel titolo, peraltro: quello internazionale recita A Brighter Summer Day, mentre l’originale taiwanese qualcosa di traducibile come “The Youth Killing Incident on Guling Street”. Ossia un richiamo, con taglio quasi giornalistico, a un evento di cronaca nera che ha sconvolto la nazione e ispirato il racconto autobiografico di Yang, dove il primo guarda chiaramente a Occidente, carpendo, anzi distorcendo, un verso da Are You Lonesome Tonight? di Elvis Presley, tormentone ricorrente per il protagonista e la sua gang rockabilly. Un brano che è anche e soprattutto un inno universale alla malinconia che accompagna uno stadio ben preciso della crescita di ogni individuo. Tutti sono stati adolescenti, tutti o quasi dal cuore spezzato o privati prematuramente di un affetto. A Xiao Si’er, il protagonista dell’affresco corale di Edward Yang (più di cento i ruoli con almeno una battuta nello script, in gran parte non professionisti), è toccato tutto questo, in dosi generose. Rimanere lontani dalla strada, quando a essere messi in discussione sono la tua patria, la figura paterna e la speranza di un amore, probabilmente non si configura nemmeno come un’opzione possibile. La violenza, per una non-nazione nata sotto i fucili di Chang Kai-shek e squassata da decenni di conflitti intestini – prima contro i giapponesi e poi dalla stessa parte di questi ultimi – è l’unico linguaggio comprensibile in una babele priva di senso.

“Otto anni di guerra coi giapponesi e ora viviamo in una casa giapponese e ascoltiamo musica giapponese”, recita una delle battute del film: katana, zoccoli e futon sono parte della quotidianità almeno quanto Presley e la brillantina per i ragazzi taiwanesi del 1959-1960, disperatamente aggrappati a marchi identitari acquisiti, nel tentativo di renderli propri. Si’r, Cat, Ma o Sex Bomb sono creature smarrite, apolidi su molteplici livelli: fuggiti dalla Cina di Mao per approdare in un’isola di cui ignorano il dialetto e soprattutto gli usi e costumi, scissi tra il bisogno di emulare l’Occidente e quello di rivendicare un’identità propria, inevitabilmente posticcia, di “unica Cina”. Sono anni di confusione e di sospetto, l’epoca del “terrore bianco” e delle liste di proscrizione, quelle che rovineranno molte vite. Toccò sorte analoga al padre di Edward Yang, e così è anche per il padre del protagonista, in uno dei molti riferimenti autobiografici che caratterizzano A Brighter Summer Day. È inevitabile, d’altronde, che il racconto di un periodo così unico e complesso della crescita individuale passi dal ricordo personale, più o meno intriso di nostalgia. Ma quel che riesce a Yang – secondo una prerogativa tipica anche del cinema italiano in decenni più felici – è di trasformare il particolare in universale, di assemblare miriadi di micro-esperienze e aneddoti per renderli il racconto di un’intera generazione.

Per rappresentare questa dispersione e assenza di un baricentro Yang si affida a campi lunghi e a inquadrature fisse, spesso dalle angolazioni strane, decentrate. Nei momenti decisivi per lo svolgimento della narrazione il protagonista è addirittura fuoricampo, come nel dialogo tra Si’r e Ma che rivela la relazione tra quest’ultimo e Ming; oppure ciò che avviene è visto attraverso un riflesso della porta, come quando Si’r e Ming capiscono di amarsi. Le geometrie e la fissità di Ozu transitano quindi attraverso la lezione di Hou Hsiao-hsien, già attore per Yang in Taipei Story e autore, due anni prima di A Brighter Summer Day, dell’opera-mondo Città dolente. Il film di Yang copre, a livello di tempo diegetico, il segmento immediatamente successivo al film di Hou. Dove quest’ultimo parlava del dopoguerra e della sconfitta del Kuomingtang nella guerra civile con i maoisti, Yang racconta le vicende di 15 anni dopo, un periodo di tempo che non ha agevolato l’integrazione tra cinesi continentali espatriati e taiwanesi autoctoni. Come Hou, così Yang sembra quasi voler oscurare, deliberatamente, degli snodi narrativi, e aumentare l’ermetismo servendosi della profondità di campo (quattro ore di film senza un primo piano). Per la critica occidentale diventerà uno stile, quasi un sinonimo di cinema “d’autore orientale”, ma A Brighter Summer Day si innalza al di sopra di sterili etichette di comodo. Ancor più se (ri)visto oggi, quando è possibile cogliere, nella sua profondità, la natura di parabola, di racconto di migranti, incapaci di trovare un luogo che si possa chiamare “casa”. Una sensazione di straniamento abilmente sottolineata dall’abitazione giapponese in cui vive la famiglia del protagonista.

Ad aprire e chiudere il film di Yang è la litania radiofonica che passa in rassegna gli studenti appena laureati. L’eccellenza negli studi e l’insegnamento confuciano in generale divengono gli unici capisaldi etici a cui aggrapparsi, con conseguente e implicito portato misogino. Anziché essere mitizzata come in molto cinema d’azione e di eroismo, in Yang la bromance è spogliata di ogni fascino e rivelata nella sua natura più maschilista (“Voi donne non potete capire l’amicizia tra uomini!”), filiazione diretta di una discutibile saggezza popolare (“In genere le cose con un buco provocano il mal di testa”). Nella totale assenza di una figura paterna e patriarcale, continuamente esautorata, non è comunque consentita – dalle recrudescenze confuciane – un’autonomia del femminino. Ma è invece al controverso e disperato personaggio di Ming, che cede il proprio corpo ma non la propria anima indomabile, che tocca la più disarmante delle rivelazioni: “Io sono come questo mondo”. Imperfetta, fallace, insicura: un’accettazione della mancanza di punti di riferimento, che resta inafferrabile per chi crede di volerla e poterla proteggere, prigioniero di un mondo maschile – rimasto nella carta di Guerra e pace, mitizzato dal jamesdeaniano Honey – di eroi e di nemici, di idee chiare e distinte, a cui poter applicare un implacabile e manicheo senso di giustizia.