Nel 1950 Wilder consegna alle sale cinematografiche Viale del Tramonto (Sunset Boulevard), dossier rivoluzionario che scardina tutte le luminose credenziali del mondo delle star, ritratto squallido di una ex diva del muto, caduta nell’oblio e diretta verso il più tragico dei destini. Quasi trent’anni dopo, la realizzazione di Fedora lascia intravedere come Hollywood, secondo Wilder, sia definitivamente un luogo spettrale, foriero di idee non reversibili, decomposte, marcescenti: come l’iter psicologico cui viene sottoposta la protagonista. «I am Fedora, I am Fedora!»: il suo grido, principio non contraddittorio di identità, nasce e si esaurisce negli anni Settanta, quando cioè una parte di Hollywood decide di rigenerarsi.

Sul finire del decennio precedente, infatti, la Nuova Hollywood ha definitivamente soppiantato l’agonizzante Studio System indirizzandosi verso due percorsi distinti: la sperimentazione e la rivisitazione dei generi (grazie a registi come Monte Hellman, Woody Allen, Robert Altman, Francis Ford Coppola) o la spettacolarizzazione dei contenuti (Steven Spielberg, George Lucas, il britannico Ridley Scott). Billy Wilder reagisce a questo cambio di rotta con La vita privata di Sherlock Holmes (Private Life of Sherlock Holmes, 1970) e soprattutto con Prima Pagina (The Front Page, 1974): due titoli di buon livello, che tuttavia faticano a imporsi nel clima ormai mutato della Mecca del Cinema. Fedora esce nel 1978, un anno dopo Guerre Stellari (Star Wars, 1977). Perché dare vita un’operazione che trasuda fallimento da ogni parte? Quali sono le motivazioni che spingono Wilder a riplasmare l’universo metacinematografico? Forse c’entra la nuova solitudine del regista, monade classica in un mondo di giovanotti scalpitanti e votati alla sperimentazione. Fedora come dispetto, dunque. Anacronistico? Probabile, di certo necessario.

Nel momento in cui ci soffermiamo a riflettere su Fedora non possiamo prescindere dalla parola: «rifiuto». Viale del tramonto è un film che con il rifiuto soddisfa parte integrante della sua stessa rappresentazione: Norma Desmond è allontanata da una comunità (Hollywood) che vuole a tutti costi andare avanti con il progresso (il cinema sonoro). Entrambi i film, perlomeno a uno strato superficiale, sono uniti da uno spietato j’accuse nei confronti di Hollywood. Proprio in questa chiave deve essere considerata la presenza di William Holden sia in Viale del tramonto sia in Fedora. Nel primo, Holden/Joe Gillis entra a contatto con l’universo parallelo e retrogrado di Norma Desmond; proprio lui che, nonostante i continui fallimenti come sceneggiatore, fa parte dell’universo deprecato dalla diva. Il film pone i due personaggi in un rapporto di corrispondenza alternata e ambigua: Gillis è un povero diavolo che per necessità si presta alla stesura di una sceneggiatura che puzza di vecchio, un quaderno di morte partorito dalla mente deviata di un’ex diva allo sfacelo. Norma, pur disprezzando il nuovo carrozzone, in fondo spera di poterci risalire. Hollywood abbandona i suoi figli illustri (Norma Desmond) e manda allo sbaraglio le nuove generazioni che non hanno avuto troppa fortuna (Joe Gillis): questa è l’accusa di Wilder. La sua portata è tanto più devastante quanto più riesce a dosare in modo esemplare – dunque hollywoodiano – veleni e spettacolo.

Anche in Fedora William Holden incarna un uomo di cinema fallito e frustrato. Tuttavia, il suo Barry Detweiler si trova questa volta nella stessa condizione di svantaggio della co-protagonista. Soltanto in apparenza antitetica alla decadente villa di Viale del tramonto, l’isola di Corfù è il locus amoenus nel quale si consuma l’agnizione e la disgrazia fra i due. Relitti di un’epoca sfinita e boccheggiante, Fedora e Detweiler sono “cadaveri sociali” che Billy Wilder sente molto vicini. Come loro, infatti, anche lui non riesce più a definire la propria posizione nell’ambito di un’industria che non sa più dove collocarlo; e come loro deve combattere la sua personale battaglia per salvare il «classicismo» dalle intemperanze della Nuova Hollywood; e ancora, esattamente come loro Wilder sviluppa una poetica del ricordo che è anche l’unica cura possibile per il suo mal di vivere. Per quanto l’idea di cinema classico perseguita dal regista – su tutto: forte regolarizzazione della sceneggiatura e dei ritmi che un film dovrebbe assumere – riesca ad aiutarlo a celare le sue moderne insicurezze, Fedora è, a buon diritto o meno, attraversato da un palese risentimento del regista verso le nuove leve. Non a caso Detweiler, in un momento di sconforto, tuona: «Il cinema non è più come una volta, sono i giovani scalcinati che dettano legge… lavorano senza copioni, chiedono solo una macchina a mano con uno zoom». Un formalismo sublime e gravemente inascoltato caratterizza così la pellicola: Fedora è un’opera preziosa, un paradigma che di sé offre una porzione –  e sta qui il paradosso – di luminoso realismo. Con questo film, Billy Wilder sancisce il suo distacco dal cinema americano moderno; anzi, pare quasi giustificare gli orrori che la protagonista esercita su di sé (e sulla figlia, la sua “rappresentazione” più grande). Quella di Wilder è una difesa militante, un gesto estremo per esaltare la Hollywood classica. E lottare contro il tempo.

Negli anni, il cinema di Wilder ha dimostrato l’intolleranza di numerosi personaggi femminili nei confronti del mutamento temporale: Audrey Hepburn, nei panni di Sabrina e Arianna, che nei film omonimi tentano di aumentarsi l’età; Gloria Swanson/Norma Desmond, che, al contrario, non riesce a concepire l’ invecchiamento. In Fedora per la prima volta assistiamo a una radicale inversione di tendenza: non si vuole semplicemente bloccare la transitorietà del tempo, ma architettare una diabolica regressione fisica in grado di osteggiare la natura. La diva Fedora, ingorda di successo, si sottopone agli «accorgimenti» del dottor Vando, luminare della medicina in odore di Nobel – e di bluff.  Vando confessa a Detweiler la bislacca eppure necessaria modalità con cui mantiene intatta la giovinezza fisica dei propri pazienti: «Li metto a congelare per qualche mesetto; riciclo il loro sangue e gli pompo dentro una scarica di ormoni, un embrione di pecora e sperma di babbuino».

Quando Fedora vuole osare ancora di più, fallisce miseramente: deturpare il suo viso equivale a deturpare quello del cinema classico. Una metafora sadica che Wilder infligge alla sua creatura. Quest’ultima, intanto, si riproduce letteralmente a propria immagine e somiglianza, trasmutando la figlia ventenne Antonia (Marthe Keller) in se stessa. Una transizione fisica, intellettuale, culturale: la madre anela la giovinezza, e per farlo costringe la figlia a invecchiare. Il cinema si prende gioco di due corpi umani, prende possesso della mente di una (la vera Fedora) e subordina il corpo dell’altra (Antonia, vittima del ruolo di figlia).

Quello della trasformazione è un tema ricorrente, in Wilder: Susan Applegate (Ginger Rogers) in Frutto proibito (The Major and the Minor, 1941) si traveste da minorenne; i due protagonisti di A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot, 1959) sono costretti, per salvare la pelle, a rivoluzionare la propria virilità; Sabrina Fairchild torna da Parigi rinnovata nell’animo e nel corpo; Christina Vole (Marlene Dietrich) prende le fattezze di una vecchia in Testimone d’accusa (Witness for the Prosecution, 1957); in Uno, due, tre!  (One, Two, Three, 1961) lo studente comunista Otto Piffl (Horst Buchholz) riceve una fulminea istruzione estetica – e sartoriale – al capitalismo. Fedora non fa eccezione, ma in questo caso la portata innovatrice è radicale: nella sua guerra contro il tempo, la carne si lascia martirizzare fino a prescindere dai legami di sangue. Fedora vuole sopravvivere alla morte (la propria, ma anche quella dello Star System) per cristallizzarsi in una rappresentazione eterna del sé. Ne farà le spese Antonia, destinata a soccombere tragicamente nel momento in cui decide di riappropriarsi una volta per tutte della propria identità. Nel finale, vediamo la Fedora autentica (Hildegard Knef), immobilizzata sulla sedia a rotelle, “dirigere” sotto mentite spoglie le esequie della Fedora posticcia. Dopotutto, ha vinto lei: con la propria morte, Antonia l’ha finalmente consegnata all’imperituro successo.

Una delle più appropriate definizioni di Fedora l’hanno data Enrico Ghezzi e il team di Fuori Orario,  inserendo il film all’interno del ciclo “Dive nel Paese dei B(a)locchi”, giusto a fianco di Viale del tramonto. Hollywood come eterno Paese dei B(a)locchi, dunque; ma in modo sensibilmente diverso in ciascun film. Perché è vero, la  Hollywood raffigurata nel film del 1950 è senza dubbio arcigna e «bloccante»; ma non lo è più di qualsiasi altro ambiente in evoluzione ed ebollizione. Fedora è invece il canto del cigno di un’industria che non c’è più, il fallimento definitivo del cinema classico. Quello che Viale del tramonto proietta sul suo presente in relazione al passato – le frustrazioni di Erich von Stroheim e di Gloria Swanson in merito alle loro carriere ormai azzerate –  qui  si riversa sul futuro del film e su quello di Marthe Keller, una che aveva tutti i presupposti per sfondare ma che finisce nel dimenticatoio. Al botteghino il film è un disastro e la Keller riduce le sue apparizioni. Destino ironico, se si considera che la protagonista del film è la summa di tutte le dive e l’interprete delle più importanti icone del Femminino Occidentale.

Un macabro ponte sembra collegare la storia dei protagonisti di Viale del tramonto con quella della diva castrata sul nascere di Fedora. Fosse stato un successo, il film sarebbe stato realizzato invano, quando invece è un (voluto) anacronismo destinato al pubblico del 1978, la conferma il Cinema non ha più bisogno realmente di Fedora, se non per consegnarle un Oscar postumo. Il cerchio si chiude: il cinema di Gillis batte Norma Desmond, diventa il cinema di Fedora, ma viene a sua volta sconfitto dalla nuova onda. A chi serve una ex stella di mezza età? Quale sarebbe l’utilità della sua permanenza? «Il cinema risucchia gli animi», afferma Fedora. Colei che, anche da viva, è sempre morta.