In seguito al recente restauro in 4K, curato da Cinelicious su suggerimento di Hadrian Belove di Cinefamily, e grazie al confronto con l’unica copia stampata, conservata nella Cinematek belga diretta da Nicola Mazzanti, il cult Belladonna of Sadness ha visto reintegrati gli otto minuti mancanti nel negativo originale e, dopo quattro decenni di semiclandestinità, è tornato finalmente a provocare, conquistando nuove generazioni di cinefili.

Pur essendo stato presentato al Festival di Berlino nel 1973, all’epoca il film del regista Eiichi Yamamoto non ebbe molto successo. La sua casa di produzione, Mushi Production, dichiarò bancarotta nello stesso anno. La fama del film è cresciuta nel tempo, tra i pochi che riuscivano a vederlo, spesso in pessime versioni. Il progetto è stato abbandonato in fase iniziale da Osamu Tezuka, l’ideatore dei due film precedenti della trilogia Animerama poi conclusa da Belladonna: A Thousand and One Nights (1969) e Cleopatra (1970). Tre tentativi di realizzare l’equivalente animato, e perciò più spinto, di un “pink movie” alla Wakamatsu, per un pubblico adulto in cerca di emozioni forti e di immagini scabrose. Dei tre, Belladonna è quello che osa e sciocca di più, e ridefinisce completamente, con il suo intreccio da rape and revenge, la rappresentazione della violenza nel cinema d’animazione. Gareggia in spregiudicatezza con geni irriverenti del calibro di Robert Crumb e Ralph Bakshi, e germoglia da un albero genealogico all’insegna della sperimentazione più “acida”, che va dal beatlesiano Yellow Submarine (1968) di George Dunning all’insuperato Il pianeta selvaggio di René Laloux (1973).

Evidenti i richiami al simbolismo e all’espressionismo di molte sequenze. Non a caso, di Belladonna oggi rimane ancora impressa l’intensità immutata delle scene delle molestie sessuali subite dallo sventurato personaggio principale, mostrati dal punto di vista della vittima, cioè nelle loro rielaborazioni mentali, geometriche, astratte, e nelle loro terrificanti e complesse ripercussioni psicologiche ed emotive. Laddove invece la raffinata estetizzazione della femminilità è senz’altro debitrice, nel tratto, dell’Art Nouveau, e di Gustav Klimt in particolare. Va da sé che Belladonna è un film di perturbanti contrasti, spesso volutamente irrisolti. Uno degli innegabili motivi del suo fascino è proprio la disinvoltura con cui riesce a centrifugare le influenze più disparate, da Aubrey Beardsley a Peter Max, dai disegni sui tarocchi alle illustrazioni di Harry Clarke, dalla pop art al fumetto underground, e le tecniche più varie, dall’acquerello alla pittura a olio, ricavandone un stile unico, psichedelico e magico, come il succo miracoloso che Jeanne, la strega protagonista, ottiene da un fiore, per utilizzarlo sugli abitanti del villaggio medievale.

Il titolo del film, infatti, fa riferimento all’atropa belladonna, fiore tossico di colore violaceo: la stessa tinta che hanno, in molte scene, i lunghi capelli di Jeanne, con la loro ambigua tentacolarità che richiama l’antica tradizione pornografica giapponese “tentacle”. La belladonna si chiama così perché nel Rinascimento se ne ricavava un collirio che dilatava le pupille delle dame, rendendole più affascinanti. La grandezza degli occhi di Jeanne è esattamente uno dei tratti distintivi del suo volto, l’inespressività dello sguardo uno dei sintomi fisici che la donna manifesta dopo aver stretto il patto con il demonio. Il nome di battesimo della strega non può che ricordare la ben più casta Giovanna d’Arco, anch’ella bruciata sul rogo. Ma, sebbene crocifissa, più che una santa Jeanne sembra una hippie, figlia dei fiori e della controcultura, della libertà sessuale e di Linda Lovelace, di Woodstock e dell’LSD. E non sfigurerebbero in un porno di qualità anni Settanta molti brani della splendida ed eterogenea colonna sonora di Masahiko Sato, che mescola funk, space rock da sabba alieno, melodie struggenti, voci spettrali, urla, trombe, percussioni, organo da chiesa, note di piano, fuzz, sospiri, echi, fischi e rumorismi di ogni tipo.

Come una pornostar, Jeanne è, allo stesso tempo, anatomicamente succube della violenza devastante del desiderio maschile e simbolo di una sessualità libera, emancipata, rivoluzionaria. La reificazione del suo corpo, ridotto a mero strumento di sfogo sessuale e sottoposto a ogni genere di penetrazione, con oggettiva e gratuita morbosità, potrebbe esporre il film alle più legittime ed evidenti riserve. Contestualizzando, va tenuto conto che la frontalità e l’assenza di democraticità di sguardo, nei momenti topici, è nelle corde e nelle convenzioni di genere di molto cinema exploitation, poi nobilitato da cineasti di serie A tra i più discussi e “politici” degli anni Ottanta, come Verhoeven o De Palma.

Eccessi, voyeurismo, sadismo e misoginia sembrano, peraltro, strizzate d’occhio al satanismo tanto di moda in quegli anni, che nel film trae giustificazione da un riconoscibile anticlericalismo di fondo. E se allora era plausibile che qualcuno considerasse Charles Manson la più grande rockstar vivente, nell’odierna epoca delle passioni tristi è l’angelica Alexandra Savior a intitolare Belladonna of sadness uno degli esordi musicali più maturi e malinconici del 2017.