Il 7 giugno 2004 alla Fondazione Baruchello a Roma, incontrai Alberto Grifi, filmmaker indipendente tra i più significativi del cinema sperimentale italiano. Ne è nata un’intervista, qui trascritta integralmente. Discutemmo Anna, un film autoprodotto nel ‘72/‘73 di cui aveva condiviso la regia con Massimo Sarchielli.

Grifi sfugge ad ogni classificazione: non lo si può ingabbiare all’interno di un genere o di una categoria. È pittore, paparazzo nella Roma della dolce vita, fotografo di aeroplani, documentarista d’industria, inventore di macchine e apparecchi cinematografici, sperimentatore di linguaggi e tecniche, teorico. Definire Grifi un regista è riduttivo, non solo per i molteplici interessi – le sperimentazioni in differenti ambiti, le conoscenze di linguaggi artistici o le invenzioni di marchingegni cinematografici – ma perché con la sua attenta e radicale critica al modello dell’industria cinematografica, e più in generale a quello capitalistico, è un punto di riferimento come artista e intellettuale ‘in organico’ della cultura ‘alta’, underground ed antagonista.

È sufficiente ricordare Verifica incerta, film co-diretto con Gianfranco Baruchello nel 1964, una sorta di collage dissacratorio di film hollywoodiani degli anni Cinquanta (riconosciuto come antesignano del “Blob” di Enrico Ghezzi); il suo impegno su temi come la psichiatria e l’antipsichiatria in Il Manicomio, due film di cui il primo, Lia del ‘77, è un documento della contestazione al secondo congresso di antipsichiatria tenuto a Milano, l’altro dell’‘84 una panoramica dell’ospedale psichiatrico dell’Aquila con la partecipazione del direttore Arturo Conte. Michele alla ricerca della felicità, girato nel ‘78 per conto della Rai, ma trasmesso per la prima volta solo nel ‘93, affronta invece il tema della carcerazione. Con Transfert per Kamera verso Virulentia del 1966-67 Grifi è coinvolto, a fianco di Aldo Braibanti, in una ricerca di confine tra sperimentazione teatrale ed esperienze di autocoscienza del profondo, un atto psicodrammatico collettivo che Grifi filma con degli obiettivi truccati cercando di reinventare la storia dello sguardo e l’evoluzione biologica dell’occhio. L’opera precede Orgonauti, evviva! – un viaggio con carburante erogeno del 1968-70 in cui quegli effetti speciali, portati all’estremo, propongono un viaggio nell’inconscio biologico della visione, in un gioco dialettico che contrappone evoluzionismo reazionario e rivoluzione; Il festival del proletariato giovanile a Parco Lambro del ‘76 rispecchia invece il costante impegno a fianco del movimento.

Con Grifi torna l’idea avanguardista della totalità. Quando si vedono i suoi film e si leggono i suoi testi teorici ci si imbatte nella storia della ricerca artistica e del pensiero libertario di tutto il ‘900. C’è il gesto dissacratorio e nullificante dada, c’è l’idea di rivoluzione permanente dei russi futuristi, c’è l’esperienza dell’automatismo e del non sense surrealista. Come non associare infatti la Storia dell’occhio e il concetto di eterogeneità di Bataille a Transfert per Kamera verso Virulentia! C’è la ‘presa diretta’ del neorealismo, del cinema documentario e verité, ma c’è anche il poverismo di Zavattini, c’è la cultura beat e pop, c’è l’antipsichiatria e i filosofi francesi della decostruzione, ci sono Foucault, Deleuze, Guattari, Derrida, c’è la body art, la cultura femminista e la liberazione del corpo, ci sono Steiner, Ferenczi e soprattutto Reich nello sguardo persistente e penetrante degli obiettivi sul corpo di Anna, e ancor più in Orgonauti, evviva! e c’è Guy Debord e un costante riferimento alla prassi e alla teoria dell’evento situazionista.

Grifi fuori luogo

L’inscindibilità tra l’universo cinematografico e la vita è un elemento fondamentale per comprendere il cinema di Alberto Grifi. Ed è interessante nell’arco dell’opera audiovisiva di Grifi non tanto l’uso iniziale e del tutto marginale del 35mm, quanto piuttosto la costante capacità di rin-supporti video-cinematografici. Sul piano tecnico artigianale poi c’è la creazione di strumenti e dispositivi capaci di colmare mancanze tecnologiche. Tra le macchine realizzate da Grifi c’è il vidigrafo (1973-75) che permette di trasferire le videoregistrazioni di Anna, nastro magnetico Akai 1/4 di pollice, su pellicola 16mm. Negli anni Novanta poi Grifi dedica parte delle proprie energie alla conservazione di una memoria storica, soprattutto legata alla produzione di controinformazione video degli anni Settanta, minacciata dalla degenerazione dei nastri. È indispensabile sottoporre il materiale a un processo di rigenerazione e per questo motivo Alberto Grifi elabora una macchina lavanastri. Si tratta di un lungo progetto iniziato con i primi appelli al Festival del Cinema di Pesaro nel ‘96 e che terminerà con la realizzazione di un prototipo presentato alla Biennale Cinema di Venezia nel 2004.

Macchine progettate e mai realizzate, se non in alcuni circuiti, testimoniano un interesse al superamento utilitaristico del mezzo per diventare esso stesso linguaggio, sguardo: un cine-occhio regolato e veicolato dalla sintesi dei segnali biologici degli attori in campo, codificati da sensori e trasmessi alla macchina da presa.

Infatti l’anima con cui Grifi si relaziona alla tecnologia trascende i suoi confini: “mettere le mani all’interno delle macchine, comprendere come funzionano, forzarne i limiti, (reali e imposti) tecnici e linguistici, abbattere le frontiere alle specializzazioni (in campo scientifico come in quello artistico): questi sono per Alberto Grifi gli elementi base del suo cinema, che diventa vero e proprio laboratorio personale, in cui far reagire (chimicamente) dei nuovi composti per gli occhi. La tecnica e l’estetica si intrecciano, l’una si radica nell’altra, in un continuo gioco di rimandi e interrogazioni. I contenuti, le idee, i mondi messi in forma sfidano i linguaggi, sperimentano la loro possibilità, ma sono a loro volta messi sotto verifica, ridefiniti dal mezzo” [1]. Dalle sfide sulla durata di un’inquadratura, al desiderio di stabilire una nuova grammatica della visione, il cinema di Grifi si offre allo spettatore soprattutto in una chiave linguistica che permea il discontinuo articolarsi di un tempo, il presente, in costante riferimento a dimensioni altre, per raccontare un indefinibile spazio cinematografico connesso ad opposte simmetrie capaci di ridefinirne il senso.

Formalmente il corpo dell’opera spazia tra generi cinematografici differenti in uno spigoloso gioco di richiami. “I temi a lui più cari non vengono mai abbandonati, ma riformulati, adattati a nuovi contesti, in un processo continuo di arricchimento che fa della sua attività un insieme diversificato ma compatto, sempre coerente” [2]. Le pellicole si tingono di riferimenti biografici all’interno di un modus operandi che svincola dal film stesso. Riformulare il testo audiovisivo consiste anche nel rimescolare parti di più film secondo i dettami del contesto in cui si realizzano sinergie tra presente e passato in una prospettiva storica futura: un’operazione di smembramento sintattico non solo tramite la tecnica del found footage come in Verifica incerta, ma combinando tra loro più film firmati dallo stesso Grifi, girati con formati differenti, aggiungendo nuove registrazioni video e audio, e modellando per stratificazione, nel tempo, come nel suo ultimo film, A proposito degli effetti speciali (2001). “Come un archivio personale di materiali quasi bruti che nelle varie fasi della vita vengono riconnessi e riattualizzati per creare nuovi insiemi, sempre mobili e incompiuti. Il cinema di Grifi si presenta come puro discontinuo e incompleto atto di vita vissuta pensata nel suo farsi” [3]. Prassi del tutto ordinaria per un regista che rimette sempre in discussione la pratica autoriale, a partire dalla filmografia impossibile da realizzare per via delle innumerevoli versioni dello stesso film. Le durate variano assumendo toni fantasmagorici; le idee di Zavattini, e il suo cinema del pedinamento, vengono superate con la decentrazione del ruolo registico e la pluralità autoriale. L’interesse verso un cinema del quotidiano porta a rinforzare la perdita del valore compiuto di un’opera: “Beh, sì. M’interessano le opere in corso più del cinema[4]. L’opera perde la propria sacralità e intoccabilità per diventare serbatoio di immagini che si costituiscono come tracce di un pensiero vivente, e quindi possono essere montate e smontate, dislocate ovunque e in qualunque modo, secondo le tensioni e le urgenze di questo pensiero [5]. Negli ultimi anni di attività dell’autore, la molteplicità degli sguardi si amplifica al fine di demistificare il ruolo della regia: “L’occhio, rispetto al mestiere di cui sto raccontando, era evidentemente l’epicentro intorno al quale le sue protesi cibernetiche, obiettivi e pellicole, avrebbero dovuto, orbitando, compiere le loro rivoluzioni[6]. Dagli anni Novanta inizia un percorso che lo avvicina sempre più all’insegnamento, sviluppa tecniche di ripresa in multicamera con l’utilizzo di monitor dove gli operatori possono autoregolarsi tra loro. “Alberto ha così cercato di superare il divario tra la realtà e la rappresentazione, attraverso sguardi ‘simultaneamente molteplici’ sul mondo circostante ma non veicolati (e quindi vincolati) da una supervisione esterna” [7].

Un laboratorio organico in continuo divenire: così il cinema di Grifi raccoglie le lezioni dei suoi maestri, Cesare Zavattini, Aldo Braibanti e Man Ray. Il corpo diviene il centro di un’operazione linguistica in relazione al mondo, ai mondi possibili. Il suo cinema ne indaga i limiti, si racconta trasversale. “Per Grifi è come se l’idea stessa di ‘opera d’arte’ venisse a cadere, perché legata a una concezione e a una fruizione che non possono andare d’accordo con quel tentativo di intervenire direttamente sulla vita, sull’organismo, su un complesso di flussi e movimenti, di corrispondenze tra l’umano e il cosmico che egli sondava a ogni istante, e che cercava di catturare in quella macchina biologizzante che è il suo cinema” [8]. Grifi rompe gli schemi spaziotemporali, utilizza il passato come presente ma anche come possibile futuro, e viceversa. Nell’attuazione, attraverso i meccanismi del potere, era come se si muovesse disinvolto fuori dal tempo e dallo spazio. Negli anni gli sono state dedicate numerose retrospettive, solo per citarne alcune, dal Filmstudio e dal Beat 72 di Roma, dal Festival di Bellaria, dal Festival di Pesaro, dall’Arsenale di Pisa, dal Museo Pecci di Prato, dall’Achab di Catania, dal Leoncavallo e dall’Università di Architettura di Milano, dal Filmfestival di Genova, dall’Università di Antropologia di Perugia (Batik), dalla Cineteca comunale, dal Dams e dal Link di Bologna, dall’Immagine leggera di Palermo, dall’Alambicco di Cagliari, dall’Eliogabalo di Fivizzano (Comunicare fa male), dal Museo del cinema di Torino, dal Beaubourg di Parigi (Monter Sampler), e molte altre dopo la scomparsa.


NOTE

[1] Annamaria Licciardello, “Ma(e)stro Grifi – l’azione militante di un artista visionario”, in “Il Nuovo Spettatore”, n. 11, p. 34.

[2] Ivi, p. 43.

[3] Anna Maria Licciardello, “Sul cinema di Alberto Grifi”, in “Lo Straniero”, n. 78/79, p. 124.

[4] “Alberto Grifi”, intervista a cura di Corrado Borsa e Jacopo Chessa, in “Il Nuovo Spettatore”, n. 11, dicembre 2008, p. 93.

[5] Anna Maria Licciardello, ‘Sul cinema di Alberto Grifi’, in “Lo Straniero” n. 78/79, p. 124.

[6] Estratto dal film A proposito degli effetti speciali, 2001.

[7] Manuela Tempesta, ‘A proposito di … Alberto Grifi’, in Alberto Grifi, oltre le regole del cinema, in “Quaderni di CinemaSud”, Laceno, 2008, p. 5.

[8] Jacopo Chessa, ‘Alberto Grifi e l’Axolotl’, in “Il Nuovo Spettatore”, n. 11, Anno XI, dicembre 2008, p. 15.