Il perturbante è un sentimento piuttosto diffuso nelle opere di Stephen King, dove l’inquietudine nasce spesso da situazioni, cose o individui apparentemente “comuni” che si trasfigurano in maschere poco familiari: un oggetto inanimato prende vita, una figura riconoscibile assume deformazioni grottesche, oppure un contesto rassicurante esplode nell’orrore, squarciando la banale quotidianità di cui era pervaso. IT, summa epocale della poetica kinghiana, affida il perturbante alle molteplici manifestazioni del clown Pennywise, entità malvagia la cui forma originaria è inafferrabile (come la Cosa di Carpenter, con cui condivide il nome indefinito) e che quindi deve assumere sembianze riconoscibili per penetrare nella vita delle sue vittime, terrorizzandole a partire dal loro immaginario e dalla loro intimità emotiva. Non a caso, esso appare sotto forma di quei mostri che spaventavano i bambini nei vecchi monster movie (la creatura di Frankenstein, l’Uomo Lupo, il ragno gigante…), o prendendo il controllo delle persone reali che li tormentano quotidianamente, come bulli e padri violenti: di fatto, Pennywise si pone come un guardiano sul confine tra l’infanzia e l’età adulta, e la sua eventuale sconfitta corrisponde al compimento di un percorso formativo.

Nel trasporre il debordante romanzo di King, Andrés Muschietti dimostra di aver assimilato questa lezione attraverso l’affetto che nutre per i suoi giovani protagonisti, la cui centralità è assoluta, ancor più dell’orrore. C’è un bizzarro cortocircuito temporale in questo adattamento, e la sua influenza è percepibile: le avventure del Club dei Perdenti sono ambientate negli anni Ottanta, epoca dell’infanzia sia per Muschietti sia per molti spettatori, quindi il film rievoca tutto un passato cinematografico di cui il regista è pienamente consapevole. Mentre le sale di Derry proiettano grandi successi del 1989 come Batman e Arma letale 2, i tópoi narrativi recuperano quel cinema “di culto” dove l’horror per ragazzi era il pane quotidiano, e la solidarietà fra reietti nasceva in risposta all’edonismo e alla competitività dell’America reaganiana. Ciò che ne risulta è un racconto d’estate diviso equamente tra King, John Hughes e I Goonies, in cui le relazioni emotive tra i membri del Club dei Perdenti – e, più nel dettaglio, tra i maschi del gruppo e Beverly – s’infiammano nella complicità dei gesti e degli sguardi, dando corpo a quella fase della crescita dove il contatto fisico (o la sua brama) è una forma di comunicazione. Il grande pregio di IT – non banale in un’epoca continuamente ricattata dal politically correct – risiede proprio nella valorizzazione di questa sessualità acerba, che trova il suo centro gravitazionale nella strepitosa Bev di Sophia Lillis: l’unica che, abituata a convivere con l’orrore fin da bambina, può legittimamente sfidare il mostro senza paura, giacché di mostri è già piena la sua vita. La carnalità precoce della ragazzina innesca curiosità e conflitti nei suoi amici del Club, ma soprattutto mette in risalto quel disgusto per gli adulti che si lega all’idea di una minaccia più grande, radicata nella Storia. La battaglia fra i Perdenti e Pennywise s’inserisce infatti nel contesto di una guerra generazionale, dove gli adulti sono complici e i bambini sono vittime; non solo della violenza, ma anche di attenzioni laide e inappropriate, o di colpevolizzazioni ottuse e bigotte.

Il perturbante ritorna proprio in questo frangente: è percepibile nello sguardo lubrico del farmacista che flirta con Bev, o nel corpo sfatto e grottesco della madre di Eddie. Se Pennywise interviene sulla realtà per trasformarla in incubo, dando vita a quadri raccapriccianti e diapositive spaventose, il mondo degli adulti è già di per sé un coacervo di lordure morali da cui non sembra esserci via di fuga, se non la crescita e l’emancipazione personale: ribellarsi a un padre violento o a una madre ossessiva, conquistando la propria individualità, significa esorcizzare il perturbante che affiora sui loro volti, riflettendo istinti o desideri che dovrebbero restare nascosti. Muschietti aveva già dimostrato la sua predilezione per i corpi deformi o disarticolati, ma qui rivela di saper cesellare l’inquietudine con una lama ben più sottile, almeno finché resta confinato nei chiaroscuri di Derry. Quando i Perdenti subiscono gli agguati di Pennywise, il film diventa una giostra degli orrori divertente e fracassona, coerente con l’età stessa dei giovani protagonisti: l’azione, le apparizioni improvvise e i jump scare richiamano un’idea di horror commerciale che affonda le radici in James Wan e nella Blumhouse, dove l’approccio alla tensione è molto convenzionale, più viscerale che psicologico, per non dire elementare. Al contrario del romanzo, Pennywise non induce il terrore per ciò che è, ma per quello che fa. Lo spettatore non lo percepisce come una creatura ancestrale e metafisica, ma “solo” come un orco mangiatore di bambini: questo perché la sceneggiatura elimina del tutto la mitologia kinghiana, troppo vasta e sovrasensibile da trasporre in un film. Ma se il vecchio Pennywise di Tim Curry sopperiva a questa lacuna con un atteggiamento beffardo e grottesco, acquisendo così una notevole personalità, la versione di Muschietti e Bill Skarsgård non ha abbastanza spessore da diventare “personaggio”. Certo, lo stesso discorso potrebbe applicarsi anche a numerose leggende horror come Michael Myers e Jason Voorhees, ma si tratta di mostri non-comunicativi, macchine di morte silenziose che, non a caso, celano il volto dietro a maschere fisse; Pennywise è invece un mostro che gioca con le sue vittime, stabilisce un dialogo con esse, le inganna e le deride, quindi ha bisogno di una caratterizzazione più incisiva. Non è tanto un problema di performance (anche perché Skarsgård fa indubbiamente il suo dovere, sia nella mimica facciale sia nella modulazione della voce), quanto di scrittura e di impostazione registica.

Di conseguenza, IT rischia di scivolare nel didascalismo di molti blockbuster contemporanei, soprattutto quando sfrutta i dialoghi per spiegare i meccanismi della paura, rendendo palese ciò che dovrebbe restare implicito. Per fortuna, però, il perno su cui ruota il film è un altro, ovvero il racconto formativo attraverso l’avventura. Gli spaventi e i salti sulla sedia, pur presenti in abbondante quantità, sono secondari rispetto al riconoscimento dell’altro come specchio di sé, anzi, come frammento di un sé collettivo ben più grande della somma delle parti. La familiarità deviata degli adulti, di cui Pennywise è contemporaneamente araldo e manipolatore, cerca di rompere un legame che però si dimostra inscindibile: in questa tenera consapevolezza si trova il lato meno “terreno” di IT, quello che forse si avvicina di più alla monumentale invenzione di Stephen King.