Orfeo Cooper e Laura Euridice
Oggi che quello del regista assomiglia sempre più a un mestiere, chi è rimasto a credere che il filmmaker possa trasformarsi in dio? Che l’attività generatrice di un filmmaker possa segnare i destini dell’uomo? Per David Lynch, ad accomunare bene e male è la volontà di mettere in scena, di dirigere. Chi lo fa in maniera esplicita, come il Fuochista, che scorre frame proiettati su grande schermo come se si trattasse di un gigantesco iPad. Chi in maniera più sottile, come Judy, che ospita Cooper in un mondo dettato dalle sue regole. Riscrivere la sceneggiatura può significare ancora riannodare il filo di una vita o spezzarlo. Forse Cooper e Lynch architettavano proprio questo, per 25 lunghi e pazienti anni: la possibilità di tornare indietro, di cambiare le cose. Rifilmarle, ritoccarle, deviarle. L’onnipotenza dimenticata del metteur en scène. Gli scenari aperti dal digitale, così immensi e così pericolosi, irreversibili come ogni sovrascrittura, sono al centro della riflessione lynchiana sul tempo e sulla necessità di rielaborare il proprio ricordo. La linea quadridimensionale tracciata perpendicolarmente allo schermo, dalla gabbia di vetro verso il divano che la fronteggia, prelude a una riflessione sul ruolo attivo dello spettatore, che tocca il suo apice quando Orfeo Cooper cerca, invano, di riportare in vita Laura Euridice.
Twin Peaks – Il ritorno – ora lo possiamo dire con certezza – è un atto di fede nella potenza del cinema, ottimista verso i nuovi mezzi tecnologici, consapevole che queste potenzialità sono state sfruttate solo in minima parte. Il fatto che l’atto in sé provenga da una serie tv non è, benché possa sembrarlo, una contraddizione. Come ha intuito Luca Malavasi1, Lynch in primis sembra volersi distaccare dal meccanismo iterativo generato da bingewatching e cliffhanging, dalla nuova servitù dello stile, genuflesso al cospetto dello storytelling. D’altronde è sufficiente un giro sui social, o una lettura dei commenti a un post su Twin Peaks estraneo al circoletto dei cinefili duri e puri, per capire che non tutti percepiscono come interessanti, o percepiscono tout court, le riflessioni della terza stagione su passato, presente e futuro dell’audiovisivo. Conta piuttosto il fatto che “non succeda mai niente”, che tutto sia “lento”, che il presunto protagonista sia tonto e non parli mai.
Come serie tv Twin Peaks è, d’altronde, del tutto insoddisfacente. È volutamente insoddisfacente. E vivaddio, vien da dire.
“When the twilight is gone…”
L’unico porto sicuro di David Lynch, l’unica sua costante, nell’infinito di quell’8 eterno da cui non ci sono uscite, è costituita dagli anni 50. Perché è allora, al tempo di quella perfezione della semplicità, che qualcosa si è rotto. Forse durante una sera del 1956, nel deserto del New Mexico. Nel mondo di Lynch ci sarà sempre un jukebox a suonare i Platters e Roy Orbison in una strada abbandonata, per rischiarare la via e farci comprendere cosa sia l’amore. Qualcosa di tenero, di semplice; fatto di sguardi, mano nella mano e balli scolastici, con cui debuttare in società. I pettirossi di Velluto Blu, Love Me Tender cantata da Sailor a Lula, Sixteen Reasons Why I Love You (“È lei, la ragazza”). Un ragazzo che accompagna una ragazza e le dà un timido bacio, proprio nel 1956, in New Mexico. Finché lei sogna, forse, di sfiorare l’amato, di toccarlo. Ed ecco sopraggiungere il Male, come un insetto-anfibio diabolico in agguato. L’Eden è violato ancora una volta, l’innocenza recisa come un giunco. Una scena, quella dell’ottavo episodio della stagione, che vanta un diretto ascendente, Desire di Max Ernst, corto surrealista del 19472, ma che diviene quintessenza del discorso lynchiano e del puritanesimo da sempre latente in esso. Il desiderio in Lynch si accompagna sistematicamente a un esemplare contrappasso. L’acme dell’orgasmo avvicina ai demoni della sensualità, perversi e ferini. Per Lynch il sesso è cercato e desiderato quanto temuto. L’energia scatenata dall’atto sessuale appartiene al fuoco e all’elettricità e, come questi, apre a nuove dimensioni o scambia le identità (Strade perdute, Mulholland Drive); evoca forze incontrollabili, che possono essere “buone o malvagie”, come insegna la saggezza ancestrale di Hawk. Nel caso di Judy, “l’entità”, la “forza estremamente negativa”, un tempo nota come Jow Day, si tratta certamente di entropia, di forze maligne. Non è un caso che sia il sesso a invocare l’entità, attraverso la gabbia di vetro allestita da Mr. C, come non è un caso che sia di nuovo un rapporto sessuale, nella medesima posizione, meccanico e malinconico, tra Cooper e Diane (o forse Richard e Linda?), a tentare nuovamente, questa volta consapevolmente, di arrivare a Judy.
Jow Day
Il mondo di Judy è quello in cui ha termine Twin Peaks. Il nostro mondo. Ce lo dicono i cartelli stradali, autentici, come quello di Odessa, Texas. Ce lo dicono le stazioni di servizio, prive di trucchi di scena. Ce lo dice la signora bionda che apre la porta di “casa Palmer”, quella in cui davvero abita, ora e nel nostro mondo (naturalmente la signora non si chiama Tremond né Chalfont, nomi ricorrenti in Twin Peaks, utilizzati abitualmente da spiriti nomadi della Loggia Nera). Judy, madre e generatrice di vite, e di mondi. Come quello in cui Laura è Carrie, parla con un accento southern e vive a Odessa. Judy che si nutre di sangue e orrore, che distorce tempo e spazio in loop perversi. Proprio come Sarah Palmer, di fronte a un incontro di boxe che non finisce mai o a un molestatore incauto. In Twin Peaks – Il ritorno a Sarah dà vita una Grace Zabriskie sempre più inquietante, che sembra una discendente diretta della madre di un’altra Carrie, quella kinghiana dallo sguardo di Satana. Difficile pensare anche qui a una coincidenza, specie considerato che la madre della Carrie di De Palma era interpretata dalla lynchianissima Piper Laurie. Forse il sogno ricorrente di Sarah, popolato da un cavallo bianco, era qualcosa più di una premonizione. Forse a casa Palmer albergava un orrore ancor più grande di quello di BOB e, come al solito, abbiamo guardato nella direzione sbagliata. Judy: madre, figlia e spirito dannato.
8-Ball
La palla n. 8, l’infinito, il loop. Phillip Jeffries si muove in un luogo scivoloso, ma conosce le risposte. Le interrogazioni al cospetto della sua teiera, così come quelle davanti al Fuochista, assomigliano sempre più a messaggi di cabalisti, a noci con un guscio impossibile da spezzare.
Quando Lynch sembra averci condotto altrove, ecco che ci riporta – di nuovo – dove tutto ha avuto inizio. All’evento senza il quale non esisterebbe Cooper, né esisterebbe Twin Peaks: la morte di Laura Palmer. Il passato determina il futuro, anche se non è chiaro quale sia uno e quale sia l’altro. “In che anno siamo?”. Dopo un risveglio atteso a lungo, Cooper è parso infallibile, pronto – da un quarto di secolo – a compiere la sua missione. Ma alla fine appare di nuovo smarrito, prigioniero di un mistero più grande di lui. Proprio come il pubblico di Twin Peaks, che cerca una spiegazione in ogni cosa, o come Ulisse, che vuole vedere la montagna del Purgatorio e va così incontro alla dannazione eterna. Cooper dimostra di non sapersi fermare, neppure di fronte all’ignoto. Ha bisogno di rimettere tutto al posto giusto, di raddrizzare i torti, vittima dello stesso disturbo ossessivo compulsivo di chi cerca una spiegazione a ogni cosa. Cooper si improvvisa detective interdimensionale, diviene un pupazzo nel film del Fuochista (avete notato quale frame precede quello dell’ufficio dello sceriffo nel Grande Schermo della Loggia Bianca?), cambia ruolo, cambia azioni. Non è più Mr. C, né Dougie. Forse è il sognatore di Monica Bellucci, forse è il sognato. Di certo neanche lui detiene le chiavi del mistero.
NOTE
1 “Sei un Chad”, Cineforum.it, http://www.cineforum.it/rubrica/Malatempora/Sei-un-Chad.
2 Il corto è incluso in Dreams That Money Can Buy di Hans Richter e Max Ernst. È Lynch stesso a citare l’estratto in un programma BBC del 1987 sul surrealismo.