Seguendo gli incerti passi del gruppo di protagoniste all’interno del Bagliore, campo di forza nel quale si espande un ecosistema misterioso da cui nessuno ha mai fatto ritorno, ci si rende ben presto conto che qualcosa non va: l’Area X, spazio che racchiude la maggior parte degli eventi narrati nel film, è un crocevia di ispirazioni e topoi che Alex Garland raccoglie dalla fantascienza evocativa e lovecraftiana di Jeff VanderMeer (autore del libro che Annientamento adatta e porta sullo schermo) e tuttavia appare scevro dell’oscurità e del terrore sublime che cuciremmo addosso a visioni così indecifrabili. L’atmosfera è sognante, luminosa, malinconica, bagnata di colori eterei e seguita a fasi alterne dalle ballate acustiche di Geoff Barrow & Ben Salisbury; i mostri mutanti che popolano le foreste e le paludi appaiono sporadicamente, in una veste digitalizzata che fa tutto men che orrore – verrebbe da pensare ai “fantasmi digitali” di Bertetto; il racconto oscilla volentieri tra il passato e il presente, ora focalizzandosi sulla spedizione, ora invece gettandosi a capofitto in un ricordo o in un frammento d’interiorità della protagonista: in poche parole, la fantascienza di Garland innalza il mistero e lo estende fino a renderlo vera e propria impalcatura onirica, contenitore nel quale si smarriscono impressioni tutt’altro che inquietanti. Tendenzialmente astratte, esse si chiudono a tratteggiare l’umanità che poi viene spinta al limite durante l’incontro con l’altro. Il Bagliore è allora innanzitutto un ambiente interiore, i quali caratteri sono propri di un flusso di coscienza: in esso il tempo non esiste, oppure è distorto, e lo spazio è tanto proliferante quanto incomprensibile (si parlerà di “rifrazione”): oltrepassare la barriera di questo ecosistema in continua evoluzione significa smarrirsi per sempre, perdere cioè la propria identità intesa come incontro di coordinate, come situazione in uno spazio-tempo definito. Addentrandovisi, Annientamento perde il proprio contatto con la realtà e diventa un susseguirsi frammentario e catartico di istantanee: il suo sguardo fluttua tra un’inquadratura e l’altra, osservando lo smarrimento e l’angoscia che affliggono la squadra di ricerca senza prenderne minimamente parte – il suo andamento gorgoglia e si mantiene quasi in attesa dell’incontro finale, di quel climax che sarà l’arrivo alla scaturigine del problema (meta ultima della missione nell’Area X).

Ed è qua che il film di Garland riesce a esplodere, o anzi a implodere: che la malinconia si trasforma in esterrefazione, che le ballate acustiche sprofondano in un rallentato e cosmico singulto elettronico. Se questo cinema ha smarrito i propri personaggi nella loro psiche e li ha lasciati interdetti, girovaghi in una foresta incomprensibile e rigogliosa che li cingesse d’assedio, si decide a tirare le fila quando ormai non c’è più nulla di cui fidarsi: quando cioè la questione identitaria è definitivamente lasciata alle spalle, al di là del Bagliore, e quando non c’è più alcuna distinzione tra il sé e l’altro (o meglio tra sé e il mondo, e quindi il mondo come altro). Lo spazio-limite del faro, al quale si accede passando attraverso un buco che deturpa una parete, è un panorama oscuro e ossuto che strizza l’occhio alle astronavi/viscere dell’Alien di Scott; al suo interno si sprigiona una serie incontrollabile di eventi e visioni sempre più grottesca e digitalizzata, sempre più caricaturale e d’altronde, se possibile, ancora più vincolata alla propria sospensione contemplativa – è un incontro tra il sé e l’altro (l’alieno, l’ignoto) situato a posteriori sia del “sé” sia de “l’altro”: una terra di nessuno che sorge al di là di tutto, nella quale non si riesce a provare nulla se non confusione. Così, anziché tendersi, il conflitto finale assume i toni del surrealismo, tratteggiando la danza inquietante tra una presunta persona e la sua presunta ombra – l’estetica della creatura, minimale e scheletrica, sembra qua non a caso una riproposizione del corpo proibito di Under the Skin di Jonathan Glazer.

Ecco che il percorso di Annientamento assume un senso, allineando in prospettiva le proprie modalità alle proprie tematiche: l’ingresso nel Bagliore coincide con la perdita dell’identità (psicologica quanto fisica) e il raggiungimento del faro si risolve in un conflitto con una forza tremenda e altra, incomprensibile a partire dai suoi stessi presupposti – seguendo questo tragitto il film disperde continuamente le proprie atmosfere in un’amalgama trasognata, avviluppandosi poi in una conclusione che rifugge a qualsiasi tentativo di riconoscibilità archetipica o di genere. Il presupposto di questa scelta, che è qua concettuale ma anche e soprattutto narrativo, è una cieca brama autodistruttiva: Annientamento la condivide sia coi propri protagonisti, tutti pronti a oltrepassare il Bagliore in un impeto suicida, sia col proprio “antagonista”, il più interessato a morire piuttosto che a portarsi in salvo. È di questo presupposto teorico che il film di Garland, con un briciolo di presunzione, si fa scudo nel momento esatto in cui scarta di continuo le aspettative di chi guarda (talvolta con lucida crudeltà) cercando di configurarsi come un guazzabuglio confuso di ispirazioni e visioni: il suo tentativo, riuscito o meno, è quello di “annientarsi” assieme al suo racconto e ai suoi protagonisti. Operazione che forse riesce a livello atmosferico, ma che quando si tratta di apporre una chiosa al tutto (ci riferiamo qui all’epilogo) forse fallisce tremendamente – e ricade, con triste pesantezza, su nient’altro che un cliché.