Che cos’è la passione del reale che anima le forme più vive del cinema contemporaneo? Quello sguardo documentario che attraversa il panorama audiovisivo con una potenza che desta la nostra attenzione? La passione del Reale non è ingenuamente la “cattura”, la “rappresentazione”, la riconquista della “realtà”. Nella maniera più assoluta. Come riconosce un filosofo come Alain Badiou, la passione del secolo è il reale, ma il reale è l’antagonismo, si pone nel Novecento come l’altro, ciò che deve essere sottomesso, ricondotto alla legge dell’Uno[1]. Il secolo non è finito, anzi; esso riprende con forza le sue domande, le sue interrogazioni. Le sue forme (quelle degli anni Duemila) non cessano di interrogare le parole chiave della contemporaneità (Vita, Reale, Verità). Cosa accomuna infatti, ad esempio, il doppio sentiero di Miguel Gomes (che ibrida lo sguardo documentario e la passione del racconto meraviglioso in un film come Le mille e una notte, 2015), la ricerca di connessioni e legami tra esseri viventi nei film di Albert Maysles o l’apprendistato visuale/vitale nel progetto di un diario filmico come Diary (1973-1983) di David Perlov?

Esattamente questo, il fatto cioè che per ognuno non si tratta di definire il reale, ma di creare percorsi, spazi in cui uno sguardo e una messa in questione siano ancora possibili. In ultima istanza si tratta di assumere pienamente le conseguenze del paradosso fondante l’immagine cinematografica, il rapporto paradossale finzione/realtà che abbiamo qui affrontato. Assumere le conseguenze, cioè sperimentare nuove forme e nuove possibilità. Occorre allora, come viaggiatori moderni, riattraversare questi sentieri, ritrovando in essi una fiducia e un credito nell’immagine che sembrano, oggi come oggi, qualcosa di raro o di desueto. È tale declinazione del concetto di passione del reale che ci interessa, quella che ha a che fare con la credenza, la fiducia, con il credito che ad esso possiamo concedere, dare in dono, grazie al cinema. È un viaggio che si svilupperà lungo le pagine che seguiranno.

Un viaggio, il cinema come viaggio: treno e cinema, quasi un’ovvia congiunzione, che però ci consente ancora qualche inedita variazione. Una delle metafore amate da Albert Maysles vedeva nel cinema del reale un processo potenzialmente senza fine composto da tante storie di vita, da frammenti di vite tenute insieme dal montaggio, come i vagoni di un treno che tengono insieme in uno spazio e in un momento dato il cinema[2]. La factory creata da Maysles nel 2006 ad Harlem ha dato vita a molti progetti collettivi, uno dei quali, l’ultimo con la supervisione del vecchio maestro (morto poco dopo la realizzazione del film), sembra essere l’incarnazione di quell’immagine del cinema.

In Transit (2015) – un film collettivo, firmato da un gruppo di giovani registi usciti appunto dal centro, come Lynn True, Nelson Walker, Ben Wu e David Usui – si pone sin dall’inizio, sin dal suo incipit come un lavoro che difende un passato, uno stato del cinema e della realtà. Girato all’interno dell’Amtrak’s Empire Builder, uno dei treni più antichi degli Stati Uniti, che in un viaggio della durata di tre giorni attraversa diversi Stati Americani, In Transit è strutturato come un montaggio di situazioni, di piccoli eventi e incontri. Le videocamere catturano e riorganizzano brani di conversazioni casuali tra passeggeri, gesti e sguardi rituali, salite e discese, mentre la natura fuori rimane quasi indifferente, forse in ascolto di un’America sommessa, senza eroi né personaggi. Ogni persona può rimanere per un tratto, per il tempo di una inquadratura perfino, ma prima o poi abbandonerà il treno, lasciando il posto ad altri, che a loro volta scompariranno. I tre giorni di viaggio diventano l’occasione di un ritratto collettivo, fatto di piccoli tratti, pennellate accennate, che scivolano l’una dopo l’altra al ritmo scandito e costante del treno.

Ecco: il treno. Non è un caso che questo film, al tempo stesso testamentario (Maysles compare come direttore della fotografia e produttore-supervisore del film: la sua impronta è dunque lungo tutto il film) e di passaggio, di transito verso una nuova generazione, sia ambientato all’interno del mezzo che più di una volta ha rappresentato uno stato inaugurale del cinema: il treno. In Transit è da questo punto di vista un film che ritorna ad uno stato inaugurale del cinema, al suo movimento iniziale, lo stare seduti mentre uno spettacolo scorre, in movimento, da un finestrino/schermo. La differenza sta però nel fatto che lo spettacolo non si trova più all’esterno del treno, ma al suo interno. Le inquadrature verso l’esterno non corrispondono mai ad un raccordo sullo sguardo, ma sono delle semplici inquadrature di stacco, di raccordo tra un frammento e l’altro. Il film rovescia verso l’interno il suo sguardo, facendo del mondo umano, dei passeggeri del treno il proprio spettacolo.

Ma questo rovesciamento è malinconico. È un gesto etico prima ancora che estetico. Negare la visibilità del mondo significa scegliere un mondo umano che è ancora da raccontare, significa pensare ad uno stato del mondo che è fatto di individui, la cui presenza, la pura apparizione, le loro parole devono essere raccolte, catturate appunto, quasi come ultima traccia di una umanità altrimenti inghiottita nella massa. Una malinconia serena che attraversa tutto il film, che si riverbera nel paesaggio invernale che si capta fuori dai finestrini, nelle voci calme di uomini e donne che parlano, sia pure per il breve passaggio di una inquadratura, della vita.

L’immagine malinconica di In Transit si riverbera in un’altra immagine, citata da Slavoj Žižek ad apertura del suo viaggio sul cinema come dispositivo del desiderio – Guida perversa al cinema (2006) di Sophie Fiennes –; si tratta di una sequenza tratta da L’amante (1931) di Clarence Brown, dove una ragazza di campagna si trova in una situazione in cui la realtà stessa riproduce la magia dell’esperienza cinematografica. La ragazza, in attesa davanti ad un passaggio a livello vede passare un treno e di fronte a lei, finestrino dopo finestrino, un mondo magico fatto di uomini e donne in abiti lussuosi, abitanti di un mondo lontano, esotico e desiderabile. Lo sguardo della ragazza di campagna, conclude Žižek, proietta di fronte a sé la magia dello schermo cinematografico, la potenza del cinema nella sua pura essenza. Due treni dunque nel nostro racconto, ma solo apparentemente simili. Se il treno di Clarence Brown si presenta come proiezione fantasmatica di fronte allo sguardo del soggetto, il treno di Maysles ci invita ad entrare, fa che il soggetto dello sguardo sia parte integrante dello spettacolo del mondo. Ci chiede cioè di credere non solo all’immagine, ma anche ad un mondo che quella immagine in qualche modo mette in gioco.

Il treno è il movimento del mondo e anche la sua mutazione in visione. Lo aveva capito bene il giovane Victor Hugo quando, nel 1837, inviato di un noto quotidiano, racconta così ai suoi lettori l’esperienza (allora nuova) di un viaggio in treno:

è un movimento magnifico, e che bisogna aver provato per rendersene conto. La velocità è inaudita. I fiori lungo il percorso non sono più fiori, sono macchie o piuttosto strie rosse e bianche, non ci sono più punti, tutto diventa striscia; le messi di grano diventano grandi capigliature bionde, l’erba medica lunghe trecce verdi, le città, i campanili e gli alberi danzano e si mescolano follemente all’orizzonte; di tanto in tanto, un’ombra, una forma, uno spettro, in piedi, appare e scompare come un lampo dal finestrino: è una guardia di strada che, secondo l’usanza, presenta le mani al convoglio[3]

La percezione del movimento del treno produce visioni pittoriche (“macchie, strie rosse e bianche”), mutazioni animate del mondo (grandi capigliature bionde), fantasmagorie (i campanili e gli alberi danzano. Ma è sempre lo stesso mondo, visto come cinema. Credere all’immagine e insieme al mondo che essa veicola, immagina, prevede, ricrea. È questo il movimento fondante di una nuova passione del reale, quella che fonda il cinema documentario contemporaneo.


NOTE

[1] «Il secolo, in preda alla passione del reale e posto sotto il paradigma della guerra definitiva, instaura soggettivamente un faccia a faccia non dialettico tra distruzione e fondazione», A. Badiou, Il secolo, Feltrinelli, Milano 2005, p. 53.

[2] L. Stubbs, Albert Maysles. Father of Direct cinema, in Id., Documentary Filmakers Speak, Allworth Press, New York 2002, p. 5  pp. 13-14.

[3] Victor Hugo, cit. in J.-L. Leutrat, Il cinema in prospettiva. Una storia, Le mani, Recco-Genova 1997, p. 16.