Caro Jean-Michel […],

per poterti scrivere ho dovuto fare come i personaggi nei miei film: scavare in profondità, in questo caso nel mio passato. […] Questo breve saggio è in realtà una lettera a un amico. No ho mai conosciuto mio padre e mia madre è morta quando avevo 5 anni, per questo ritengo di esser stato educato dal cinema. L’avevo nel sangue alla nascita e ora è una parte essenziale della mia persona […]. Sono cresciuto in strada, e il cinema è diventato la mia unica casa. Non sono mai andato a scuola, ho passato giornate intere nelle sale […]. Ho fatto di tutto per poter andare al cinema, ho venduto soda e dolci, ho distribuito pubblicità, e all’occasione ho anche lavorato in cabina di proiezione. […]

La città di Abadan, dove sono nato, è una delle più calde e secche nel mondo. È stata edificata per il commercio del petrolio e dell’acciaio, e il suo porto è circondato da magazzini navali. Sono cresciuto accanto ai suoi moli, nell’odore del petrolio, e le navi che vedevo sono state la mia prima fonte d’ispirazione. Mi sono innamorato delle loro forme e della loro bellezza, sono arrivato a conoscerle alla perfezione, prima di avere qualunque conoscenza della natura. Il mio fascino si è rapidamente esteso agli aerei, ai treni, alle macchine. […] Già in questo periodo la mia mente non riusciva a star ferma, mi spingeva sempre ad andare avanti, verso ciò che di nuovo c’era da scoprire.

[…] Rispetto al resto del paese, Abadan era una città molto occidentalizzata. Si incrociavano spesso commercianti stranieri, marinai e operai del petrolio, gli stessi a cui lucidavo le scarpe per pochi soldi; soldi che mi servivano soprattuto a pagare i biglietti del cinema o a comprare riviste con fotografie di navi e aerei. Ma più che i loro soldi, era la cultura che questi stranieri portavano con sé a essere importante per me. Certi cinema organizzavano proiezioni per loro, in lingua originale, ed è in questa occasione che ho scoperto film che non ho mai più dimenticato, come Fronte del porto di Elia Kazan, Picnic di Joshua Logan e Il terzo uomo di Carol Reed. […] Hanno fatto crescere il mio amore per il cinema.

Grazie a questi stranieri ho anche scoperto un’altra influenza occidentale […]: la musica. Per l’intera giornata si sentiva jazz americano lungo le banchine e dalle radio proveniva musica classica europea […]. Queste musiche hanno nutrito la mia anima, arricchito il mio spirito, mi hanno riempito di passione e d’ispirazione. […]

È allo scultore Barat Partovi, il mentore della mia infanzia, che devo il mio amore per la lettura. Mi ha fatto conoscere Dostoevskij, Tolstoj, Čechov […], che sono subito diventati i miei autori preferiti, insieme a Jean-Jacques Rousseau le cui Confessioni mi hanno particolarmente influenzato. Non ho mai capito perché ho fatto più caso a queste influenze straniere che alle tradizioni del mio paese. Non si è trattato di rifiutare la mia cultura, quanto di un moto incosciente. […]  Tutto quello che posso dire è che sono state sopratutto le influenze occidentali a costruire le basi della mia persona e del cineasta che sono oggi.

Crescendo, ho trovato lavoro negli studi fotografici, dove ho scoperto la magia di scattare e sviluppare fotografie. Ho comprato una piccola macchina fotografica e ho iniziato a produrre le mie immagini. È con questa macchina che ho cominciato a esplorare la natura delle immagini, ed è così che è iniziato il lungo processo di elaborazione del mio sguardo di cineasta.

La mia passione per il cinema mi ha permesso di conoscere parecchi grandi critici, scrittori, artisti […].  In quel periodo ho anche partecipato all’unica rivista di qualità che esisteva in Iran, in cui si traducevano testi di pubblicazioni straniere […], dagli articoli della grande Robin Wood ai testi di importanti cineasti […].

Durante questo periodo di lavoro per la rivista ho cominciato a capire che ogni aspetto del film dipendeva da persone diverse, il regista, l’operatore, il montatore, etc., e che sarei potuto diventare uno di loro. Ho preso l’abitudine di vedere i film con un quaderno e di prendere appunti su ogni elemento della realizzazione, per poi classificarli e analizzarli in dettaglio. Da questo punto di vista, la sala cinematografica è stata la mia università. […]

Nel 1968 ho scommesso con alcuni amici che sarei risuscito a trovare un biglietto per la prima proiezione di 2001: Odissea nello spazio a Londra, e che avrei incontrato Stanley Kubrick, il mio cineasta preferito dell’epoca. […]

Naturalmente, l’ho fatto. Ho venduto tutto ciò che avevo, tranne una macchina fotografica, e ho compiuto il viaggio in autostop. Questa spedizione mi ha fatto capire tante cose. Ho passato la maggior parte del tempo al cinema Curzon di Londra, guardando tutti i film che potevo. Da lì, sono andato a Parigi dove mi sono immerso nella Nouvelle Vague alla Cinémathèque Française. Quando sono tornato a casa, non avevo più dubbi: dovevo per forza fare un film. E quindi l’ho fatto.

Purtroppo il cinema iraniano della mia infanzia e della mia adolescenza era orribile. […] C’erano alcuni cineasti talentuosi che ci avevano provato, come Ebrahim Golestan, Forough Farrokhzad, Farrokh Ghaffari o Jalal Moghadam, ma venivano marginalizzati dal sistema corrotto di allora, orientato unicamente verso gli studios cinematografici. Questo sistema si rifiutava di finanziare o mostrare film creativi, e ha impedito alla voce di questi registi di farsi sentire dal pubblico. […]

La mia generazione ha iniziato un processo di cambiamento, in questo senso. Ogni film che abbiamo fatto ha irrigato i semi piantati dai grandi registi iraniani che ci avevano preceduti. È una grande gioia per me poter dire che oggi questi semi sono diventati un albero magnifico, in grado di produrre numerosi frutti. Il cinema iraniano è oggi uno dei migliori al mondo, e i suoi giovani registi continuano a offrire film ambiziosi e originali. Spero, in maniera modesta, che i miei film abbiano contribuito alla crescita di quest’albero.

I miei primi tre film sono stati realizzati all’interno del sistema di studios in cui avevo l’impressione di soffocare […] Anche se ero soddisfatto del mio secondo film, Vicolo cieco, ho deciso di allontanarmi e provare a fare ciò che chiamo “cinema puro”. […] Ne è risultato il mio film L’attesa. L’ho rivisto recentemente e, quarantaquattro anni dopo, mi sembra ancora fresco come se l’avessi fatto ieri. Sono sempre stato felice della maniera in cui questo film ha trovato la sua forma. È stato poco dopo che ho incontrato Kamran Shirdel, che aveva realizzato corti molto belli e alcuni documentari dal carattere profondamente originale. […] Il fatto di provenire da orizzonti diversi ci ha permesso di imparare molto uno dall’altro. È nello stesso periodo che ho scoperto l’opera del fotografo Henri Cartier-Bresson, che è diventato il mio idolo. Da lui ho imparato la potenza del bianco e nero, il silenzio, e la capacità della macchina da presa di catturare magicamente un istante per l’eternità.

Cercando in profondità nella mia memoria, mi rendo conto che il riassunto della mia esistenza non può essere completo se non menziono due maestri cineasti che non sono più con noi, ma dei quali porto sempre nel cuore il ricordo. Sto parlando, ovviamente, di Sohrâb Shahid-Saless e di Abbas Kiarostami. Il cinema iraniano ha un debito che non potrà mai colmare nei confronti di questi uomini.

Jean-Michel, mi hai chiesto perché ho fatto questi miei documentari, La ricerca e La ricerca 2. Il motivo si chiama Rossellini – che ho scoperto grazie a Shirdel. Rossellini è un uomo che ha davvero capito il cinema e che ha avuto un’influenza gigantesca sul mio lavoro. Shirdel mi fatto scoprire il neorealismo, che è stato per me un trampolino di lancio verso ulteriori incontri con l’opera di grandi registi europei come Antonioni, Fellini, Renoir, Carné e Max Ophuls. Anche Kamran, a casa del quale abitavo all’epoca, mi ha ispirato con i suoi film. Gli devo molto.

Dopo la Rivoluzione, l’Iran è entrato in guerra contro l’Iraq. Ho pensato che forse avrei potuto realizzare un film come quelli di Rossellini, un documento cinematografico dedicato a questo periodo della storia del paese, a cui le generazioni future avrebbero potuto riferirsi. Girando questi due film [La ricerca e La ricerca 2], ho scoperto due aspetti della messa in scena che avrebbero giocato un ruolo centrale nel mio lavoro: l’importanza del suono e il montaggio. Nel 1980 sono andato in Francia, al Festival des trois continents di Nantes per presentare La ricerca. Dopo aver visto il film, Mary Meerson, che era la compagna di Langlois, mi ha detto che avrebbe voluto mostrarlo alla Cinémathèque Française. È stato lì, guardando i film di Mizoguchi, Kurosawa, Ozu e altri, che ho scoperto la mia passione per il cinema giapponese. La loro poesia e la loro maniera di vedere abitano ormai i miei film. Una delle ragioni per cui ho voluto girare mio film Cut in Giappone è stato il desiderio di rendere un omaggio a questi maestri.

Dopo i due documentari, ho realizzato Il corridoreAcqua, vento, sabbia. Un giorno, giusto prima della fine delle riprese di quest’ultimo sono andato a camminare nel deserto. Mi sono voltato verso il mio assistente e gli ho detto: “Sai? Penso di aver fatto tutto quello che potevo, come cineasta nel mio paese. Ora devo muovermi, devo trovare qualcosa di nuovo.” È in quel momento che ho preso il rischio più grande della mia esistenza, dopo averci pensato a lungo. Come il piccolo bambino di Il corridore, che vorrebbe tanto poter volare via, ho lasciato il mio amato paese e sono partito in cerca di nuove esperienze, di nuovi film da poter realizzare altrove, in altre lingue e con altri mezzi. Si è trattato di un sacrificio immenso, ma trentadue anni dopo posso dire con certezza che ne è valsa la pena. Durante tutto questo tempo non ho mai rimpianto la mia decisione, neanche per un secondo.

In questo momento sono a Los Angeles. Sto per iniziare le riprese del mio ventunesimo film. È impossibile descrivere l’eccitazione che mi invade. Ho più energia che mai. Ci penso sempre, più che alla mia vita, perché il cinema è la mia vita. Mi sono dedicato al cinema e a nient’altro. Ieri facevo un giro, fischiettando come d’abitudine, e d’un tratto mi sono ritrovato in mezzo alla strada, gridando: “Dio mio! Sto per fare un altro film! È incredibile!”.

Per tutta la vita ho voluto fare film, e farli a modo mio. E così farò. Cut.

Amir


(lettera di Amir Naderi a Jean-Michel Frodon. Pubblicata sul catalogo del Centre Pompidou in occasione della retrospettiva dedicata al cineasta iraniano; traduzione di Lucile Mons)