Mostrando fin da subito grande accuratezza filologica, la voce narrante di una regista-viaggiatrice, in tempi e spazi disparati, pone le basi per una ricerca familiare: è questo l’icastico esordio di My home in Libya, il documentario di Martina Melilli presentato all’ultimo festival di Locarno. Nata in Italia, a Padova, la giovane autrice vuole ricostruire la storia dei suoi nonni, che sono nati e hanno vissuto a Tripoli, fino all’espulsione del ‘70. La regista stampa, cura, ritaglia tutto, cercando di dare forma tangibile a una raccolta storico-visiva. A fare da intermezzo al flusso di documentazione, interviene un luogo fisso e anonimo – uno spazio contemporaneo ingrigito – che ritrae l’autrice intenta a creare, per immagini stampate, il risultato della propria ricognizione. Questi intermezzi, luoghi di elaborazione della memoria personale, si insinuano in un viaggio che parte da Padova, la casa dei nonni, e continua fino a Tripoli, da dove provengono, in tempo reale, i messaggi digitali di Mahmoud.

La regista sprona due generazioni diverse, i nonni e il giovane Mahmoud, a raccontarle il loro vissuto libico, rispettivamente nel passato e nel presente. Ad ogni parte testimoniale corrispondono modalità e mezzi di comunicazione distinti, ai quali Melilli si adatta facilmente, mostrando una profonda attitudine all’ascolto e un’innata capacità di attesa, schiudendo e rendendo nettamente visibile la casa dei suoi nonni, custode defilata di voci sommesse, di foto della Tripoli felice in un tempo perduto o della bellezza di un disegno appena tracciato. La fotografia di Nicola Pertino si esprime al meglio proprio nella rappresentazione degli ambienti domestici, seguendo, col suo luminismo, la fissità geometrica delle inquadrature e la visualizzazione dello scorrere dilatato del tempo, passando dalla luce fredda delle prime ore del giorno, a quella calda del crepuscolo.

Lo scavo familiare compiuto da Melilli potrebbe essere considerato un erede del flusso di poesia costruito da Alina Marazzi fin dal suo Un’ora sola ti vorrei, ma tutto traslato da un milieu sociale e borghese a uno marginale e nascosto, da una memoria densa di messe in scena, a una racchiusa, in gran parte, nella fissità simbolica degli oggetti e nei preziosi ed effimeri racconti orali di chi può testimoniare una storia italiana mal conosciuta e ancora ferocemente echeggiante.

Nessuna distinzione gerarchica distingue i due fronti testimoniali, le memorie familiari e la voce di Mahmoud, che sono efficaci solamente se presentati in un’unica scrittura, proprio come la conoscenza del passato è indispensabile per la comprensione del presente. Il risultato è un’opera ibrida che sfuma dal genere diaristico a quello cronachistico impegnato, dal documentario familiare a quello di ricostruzione e denuncia storico-politica, mescolando la ripresa tradizionale alle immagini di screenshot, selfie, videoclip, chat e piccoli messaggi manoscritti scansionati.

Il controllo di una struttura filmica tanto straripante è affidato a una regia impeccabile, la cui fermezza si riflette nella presenza fissa del corpo della regista nelle inquadrature. La figura fisica del “personaggio-Martina” invade la narrazione, per affermare non solo un controllo simultaneo sull’immagine, ma soprattutto il desiderio di occupare uno spazio, di avere un ruolo attivo sia nella conoscenza della propria storia che in quella delle atroci vicende contemporanee riguardanti la Libia.  Fra gli ultimi messaggi della chat intessuta con Mahmoud, si legge: «I’M SO CONCERNED. AND I CAN’T DO ANYTHING». La battuta risuona come una dichiarazione d’impotenza della regista, posta al termine di un lavoro, che, entro i limiti del reale, costituisce, al contrario, una risposta efficace all’oblio e all’indifferenza, un atto cinematografico di testimonianza storica capillare, nato essenzialmente dall’ascolto.