Assordante, essenziale, doloroso, l’esordio al lungometraggio di Carlo Sironi è un film maturo, che riesce con assoluta delicatezza e rigore formale a muoversi in equilibrio su un filo sottile, partendo da un tema quasi tabù in Italia, quello della maternità surrogata, per arrivare a raccontare una storia d’amore tanto insicura quanto potente e fragorosa. Nel blu di una camera d’aspetto, sotto le luci azzurrine di una sala slot, nelle onde turchesi che bagnano la riva di casa, due universi solitari si incontrano attraverso una convivenza forzata. Ermanno, giovane senza ambizioni che vive di piccoli furti e abita nella grande casa vuota che è stata di suo padre, decide in cambio di una ricompensa di aiutare lo zio, Fabio, e sua moglie, fingendosi padre del bambino che porta in grembo Lena, una ragazza polacca venuta in Italia per vendere suo figlio alla coppia. Con pazienza e attenzione, Sole immortala il lento avvicinamento di due ragazzi privati della propria capacità di desiderio, in un moto attrattivo irresistibile e tenero, riportato alla sua essenza da uno stile asciutto ed elegante. Immersi in un silenzio magnetico, gli sguardi malinconici di Ermanno si intersecano con la presenza evanescente di Lena, alimentando un crescendo di tensione che rispetta la solitudine del tempo e non cede alle lusinghe della facile emotività. Abbiamo incontrato il regista Carlo Sironi per parlare di uno degli esordi italiani più solidi e coraggiosi degli ultimi anni.

Come ha preso vita Sole?

Ho lavorato a partire dall’idea iniziale per cinque anni. Durante la lavorazione di Valparaiso ho studiato approfonditamente il diritto italiano sulle adozioni, e ho scoperto che esiste una legge che regola l’adozione tra parenti, facilitandola. Così mi sono immaginato che potesse funzionare come metodo di adozione illegale, attraverso la messinscena di un’adozione tra parenti come si vede nel film. Mi sono anche detto che forse era la mia immaginazione ad andare troppo in là, poi invece ho parlato con la Presidente del Tribunale dei Minori di Roma, che mi ha confermato l’esistenza di casi simili. Durante la ricerca, però, mi sono fermato e mi sono detto che non volevo fare un film a tema, o film “sociale” secondo una dicitura che non sopporto. Era interessante per me raccontare questa storia dal punto di vista di una persona che deve fingere di essere padre, dichiarando un’identità che non gli appartiene, e che poi nel corso di questo viaggio si sente padre e lo diventa. Questo era il punto di partenza, poi è arrivato il resto.

Come funziona la tua collaborazione ormai stabile con la sceneggiatrice Giulia Moriggi?

Conosco Giulia da quando avevamo dodici anni, ci siamo rincontrati quando entrambi volevamo cambiare, lei iniziava un percorso di scrittura, io lavoravo nel reparto fotografia, ma volevo creare qualcosa di mio e non sapevo bene come fare. Abbiamo scritto insieme il mio primo corto Sofia, e da lì è andata benissimo. Per me è più di una sceneggiatrice, è la prima persona a cui mi riferisco e con cui mi confronto se ho dubbi riguardo il cast, le location, qualunque cosa. Anche se spesso abbiamo idee diverse sui toni, lei non sopporta un determinato modo di raccontare che io adoro. Ci sono divergenze, ma anche una grandissima affinità. Io sono legato a un tipo di temperatura emotiva che si scalda lentamente, che poi è quello che ho cercato di ottenere con Sole. Non ho voluto dare quei classici elementi che di solito fanno ancorare ai personaggi e alla loro emotività dall’inizio per seguire poi il loro percorso in maniera pedissequa e quasi automatica, ho cercato invece di restituire la sensazione della solitudine dei due protagonisti. La solitudine al cinema viene spesso raccontata con immagini e situazioni metaforiche, quando in verità è una cosa così concreta e reale che secondo me era interessante, almeno all’inizio, far sentire un po’ solo lo spettatore.

Quanto è durata la fase di scrittura?

Il problema delle sceneggiature è anche di come vengono finanziate e del materiale che di volta in volta ti viene richiesto. Il Ministero, il Polish Film Institute, i vari enti che riescono ad aiutare il film nel farsi conoscere o a finanziarlo ti richiedono sempre materiali diversi. Quindi vengono riscritte varie volte le note di regia, e questo processo ha preso tanto tempo. Di solito poi faccio sempre una cosa, che non è direttamente connessa alla sceneggiatura quanto al piano inquadrature: aspetto di avere gli attori. Per me chiudere una sceneggiatura, con tutte le scelte che comporta, senza aver trovato gli attori è stupido. Ho aspettato molto soprattutto di trovare Lena, perché cambiava drasticamente la forma e i toni del film. Quindi in realtà non smetti mai di scrivere.

Come hai scelto gli attori e come hai lavorato sulla recitazione con loro? Il rapporto tra i protagonisti è fatto di un crescendo di complicità che resta sempre velata, fatta di silenzi e di sguardi, quasi anti-drammatica.

Ero convinto che Ermanno dovesse essere un non professionista, e volevo seguire in maniera precisa la mia idea del personaggio. Volevo un attore dalla fisicità particolare, con una sorta di dolore negli occhi, ma al tempo stesso di tenerezza che poteva manifestarsi da un momento all’altro. Pensavo al protagonista di uno dei film che amo di più, Alex di Paranoid Park di Gus Van Sant, che ha questa sorta di assenza ma al contempo di tenerezza nascosta. Quindi quando ho trovato Claudio Segaluscio ero contentissimo perché era esattamente come mi immaginavo. Abbiamo fatto mesi e mesi di prove, perché lui non aveva mai recitato, ma in seguito ho cercato di fare meno psicologia possibile, di lavorare direttamente in scena. Per il personaggio di Lena invece abbiamo cercato a lungo in vari paesi dell’est Europa. Quando ho incontrato Sandra Drzymalska la cosa bellissima è stata vedere un’attrice che interpretava il personaggio in maniera più interessante di come me lo fossi immaginato io. Costruendo il personaggio di Lena ero convinto che avrei dovuto tenere gli occhi aperti e vedere cosa avevo davanti, perché anche solo il fatto che Sandra fosse un’attrice straniera che imparava l’italiano per il film avrebbe aggiunto qualcosa. Sandra aveva una presenza infantile, molto leggera rispetto a come mi ero immaginato. Abbiamo provato anche con Claudio, ma la cosa buffa è che lui non parla inglese e lei non parla italiano, quindi loro non potevano parlare. La chimica anti-drammatica tra loro deriva dalle prove, dalle indicazioni su cosa tenere nascosto e cosa mostrare.

Il tuo è un universo solitario, di incontri impossibili e momenti di speranza nel fallimento e nello squallore. Senti tuo il discorso sulla marginalità che caratterizza l’ambientazione dei tuoi film?

Sì, ma al di là del discorso periferico. Secondo me l’errore che spesso si fa è quello di credere che alcune storie possono accadere solamente in luoghi marginali. È vero che in Sole viene rappresentata un’umanità che non crede di poter trovare una risonanza in qualcun altro, di riuscire a rispecchiarsi, a essere capito, compreso e accettato. I luoghi in un certo senso rispecchiano questa desolazione. Però ad esempio in Sofia l’ambientazione era diversa, più borghese, ma il meccanismo emotivo era lo stesso.

Il litorale romano è rappresentato come una realtà abbandonata, isolata, ma non necessariamente criminale…

Certo, credo che si debba sfuggire da questo tipo di rappresentazioni. Trovo assurdo il modo in cui viene raccontata Roma, per cui sembra che ogni luogo marginale debba nascondere criminalità. Spesso è il contrario, le persone che abitano questi luoghi conducono una vita molto più regolare di quello che pensiamo. Di solito il personaggio romano è aggressivo, usa un linguaggio violento, quando nella realtà non è così, e chi ha frequentato quei luoghi lo sa. E soprattutto, anche se fosse vero, non è interessante. Quindi quello che ho cercato di fare con Claudio è stato di alleggerirgli un po’ il romano, anche se c’è e si deve sentire, e di raccontare un personaggio distante, che non avesse alcun desiderio di rimarcare gli altri con la propria presenza.

Un filo attraversa i tuoi film, persino l’attore che hai scelto in Sole assomiglia molto a quello del tuo corto Cargo, il magnaccia che liberava una prostituta pensando che portasse in grembo suo figlio. La paternità sembra una speranza, un movente e un motore d’azione e di cambiamento nei protagonisti maschili, nei quali emerge come un riflesso inconsapevole.

Sarà che continuo a immaginare che quando avrò un bambino cambierò, tutto cambierà. È la metafora delle metafore, perché mettendo al mondo una nuova vita, che sia tua o meno biologicamente in questo caso, avviene lo spartiacque dell’essere mammiferi. Mi sembrava importante ribaltare il cliché secondo cui gli uomini diventano padri solo quando hanno un rapporto attivo con il figlio una volta cresciuto.

Il cambiamento in Ermanno viene innescato anche dai sentimenti che comincia a provare per Lena. 

Assolutamente. Quando mi sono accorto di come riscrivevo la sceneggiatura rispetto al loro avvicinamento, mi sono fermato e mi sono detto: questa è una storia d’amore, non posso scappare. Se non mi rendo conto che di questo stiamo parlando, farò un film sbagliato, che si concentra su tutta un’altra serie di cose. In quel momento, dovendo decidere come raccontare la loro storia, mi sono accorto che nella vita a volte accade di avere un’attrazione magnetica e inaspettata per un’altra persona (anche se normalmente questo succede in contesti più facili e accoglienti di quello di Ermanno e Lena) senza che ce ne rendiamo conto. Volevo filmare quel momento in cui realizzi di essere attratto da una persona ma non sai come dirglielo, né come dirtelo, in virtù del fatto che si tratta di un sentimento inaspettato e molto forte. Per me Sole è un film su due persone attratte una dall’altra senza che possano farne niente, alle quali la vita si rivela più complicata di quello che credevano.

Il rapporto tra i personaggi è costantemente mediato dal denaro, soprattutto all’inizio del film.

Secondo me è importante ribadire che spesso si fanno scelte di vita, di lavoro, senza ricordarsi neanche più perché. Il denaro di per sé è un motore di scelte che non mettiamo più in discussione. Però a volte vedere le conseguenze di quelle scelte può far riflettere. C’è una scena bellissima di un film che amo molto, Il tocco del peccato di Jia Zhang-Ke, in cui il personaggio, che è stato immobile e impassibile per tutta la durata del film, finisce a fare il cameriere e riceve una mancia lautissima, sfoderando d’improvviso un sorriso straordinario. Fa sempre impressione, che questa sia l’unica cosa che può smuoverti.

La pragmaticità di Lena sembra essere priva di cedimento, per poi rivelarsi tutt’altro che incrollabile. Per quanto estremizzato, in Sole è presente il tema di una genitorialità negata ai più giovani, abbandonati dagli adulti a una desolazione precaria o patologica in cui il futuro è un’utopia o una recita.

In molti mi hanno detto questo, ma io non ci avevo pensato neanche un attimo. Tuttavia è chiaro che sia così, perché viviamo in un paese in cui si fanno i figli molto tardi, e io racconto una coppia di adulti che sfruttano Ermanno per adottare un figlio… Il tentativo però era più quello dire che io credo a questa famiglia assurda di Ermanno e Lena, quando i due si avvicinano. Ho voglia di credere che due ragazzi di diciotto anni siano improvvisamente e inaspettatamente pronti a diventare una famiglia. Però allo stesso tempo la domanda resta aperta: noi patteggiamo per Ermanno e Lena, ma la bambina starà meglio con loro o con Fabio e Bianca?

Uno dei momenti di maggiore tensione è la scena in cui la madre adottiva cerca invano di nutrire con il biberon la bambina, mentre Lena con naturalezza le offre il seno.

Per me era importante ribadire che questa ragazza, Lena, ha tutto il diritto di fare la scelta che fa, ma al contempo quando mostri le conseguenze emotive che comporta poni dei dubbi, crei uno spazio di ambiguità. È chiaro che non volevo neanche far intendere che l’unica madre possibile è quella naturale, però il rapporto mammifero che si crea tra madre e figlio è molto forte. Volevo dire tante cose contraddittorie, perché penso che il discorso sulla genitorialità sia tanto complesso e ambiguo che sarebbe stupido prendere una sola posizione. Il film cerca di raccontare vari segmenti di questo tema, nonostante Sole non sia un film sulla maternità surrogata.

È interessante vedere come le norme spesso non si adeguano con la stessa velocità alle esigenze delle persone.

Certo, la nostra è una legge restrittiva anche per la maternità surrogata all’estero. Racconta molto dello stato di diritto di un paese: gli Stati Uniti e il Canada sono molto, forse troppo, libertari al riguardo, la Spagna ha una legge interessante e permissiva, la Francia ha una legge molto restrittiva. L’Italia invece ha un grande buco normativo, è come se lo Stato fosse assente.

I cromatismi del film sembrano cristallizzare lo spazio attorno ai protagonisti, che non sono liberi di muoversi e di appropriarsene. Come hai lavorato con il direttore della fotografia sulla composizione, sulla prevalenza degli azzurri sia nella fotografia che nella scenografia, spesso in maniera mimetica con i personaggi?

Ho letteralmente fatto dipingere tutta la casa di blu. Da sempre, più che il litorale romano, avevo in mente che la casa dovesse trovarsi di fronte al mare. Volevo ci fosse un’inquadratura a metà tra mare e cielo, nel momento in cui il bambino va a casa dall’ospedale e Lena è a metà del suo percorso di abbandono. Desideravo che venisse fuori un rapporto a specchio, che anche la casa fosse un piccolo acquario, perdonatemi la metafora. Da subito mi era chiaro che il film dovesse essere blu. Nonostante abbia letto vari studi sul significato dei colori nelle diverse culture, quello che mi ha influenzato di più sono le fotografie di Todd Hido, fotografo statunitense, e in particolare una serie in cui immortala delle stanze vuote con toni di turchese e di azzurro molto interessanti. Sono gli stessi che ho dato al direttore della fotografia, alla costumista e alla scenografa per ricercare quella precisa colorimetria. Loro continuavano a chiedermi, ma sei sicuro, così blu? E alla fine il film è molto blu. L’effetto che cercavo era quello di un’astrazione, volevo che fosse realistico ma avendo uno scarto rispetto alla realtà. Con il dop Gergely Poharnok abbiamo usato delle vecchie ottiche degli anni ’50, molto morbide, che danno una particolare rispondenza all’effetto di brillantezza.

Perché hai scelto il formato 4:3?

Perché è classico. Quando cercavamo gli attori e spingevo per un casting lungo, dicevo al mio produttore Giovanni Pompili che il film erano loro, una volta scelti gli interpreti io avrei potuto fare più o meno un buon lavoro, ma era fondamentale trovare interpreti interessanti, altrimenti il film non sarebbe stato interessante. Il 4:3 è classico, sintetico, funziona sui personaggi, quindi evita un’eccessiva ricercatezza nell’inquadratura concentrandosi su di loro.

Quali sono stati i tuoi riferimenti cinematografici?

I film a cui ho pensato di più mentre preparavo Sole, anche se sono molto lontani dal mio, sono Floating clouds e When a Woman Ascends the Stairs di Mikio Naruse, soprattutto per lo stile, per la loro malinconia un po’ dolce. Ma ho cercato di darmi riferimenti non cinematografici per non cadere nella trappola dell’ammirazione.

Il cinema del reale in Italia ha rivitalizzato il panorama cinematografico, aprendo a sperimentazioni e rappresentazioni nuove. A quali autori italiani contemporanei ti senti più vicino?

Il cinema italiano ha una lunga e valida tradizione di cinema del reale, esistono opere naturalistiche che apprezzo tantissimo, ma nel caso del mio film era importante partire dalla realtà per trasformarla. Un autore che ammiro è Garrone, per l’atmosfera e il tono, e per la sensazione che ci sia sempre qualcosa di misterioso nei suoi film, da scoprire. Un altro autore che amo molto e che riguardo spesso è Leonardo Di Costanzo, che ha realizzato bellissimi documentari ma di cui preferisco in assoluto L’intervallo. Anche i film di Guadagnino li ho visti e rivisti. Credo che il cinema italiano sia in gran forma, nonostante quello che spesso si dice. Esiste di certo un problema di educazione al cinema, e, di conseguenza, di distribuzione. Ho notato però, portando il film in tour, che nei festival più popolari come quello di Chicago il pubblico ha reagito bene, era interessato e ha capito il film, gli è arrivato. In Cina, al Pingyao Film Festival abbiamo vinto il premio del pubblico, che di solito vincono film di autori locali. C’è sempre questa paura in Italia che il tuo film non venga compreso, ma più per un discorso generale di svalutazione della cultura. Gli autori italiani ci sono, e i film sono belli.

Hai progetti in cantiere per il prossimo film?

Ho diverse idee, è un momento strano. Da un lato ho un’idea che sento molto vicina in questo momento, dall’altro ho idee che sono come sogni a occhi aperti che hai sempre avuto, i film che hai sempre voluto fare. Tutte le idee che ho però sono molto diverse da Sole.