Intervistiamo l’autore e storico del cinema Francesco Ballo a pochi giorni dalla presentazione del film Pietra nella sezione Incontri italiani della ventiquattresima edizione del Milano Film Festival. Un film antinarrativo, apparentemente noir, in cui una giovane donna scompare ed è compito del detective Pietra, interpretato da Francesco Ballo stesso, ritrovarla. Il film è raccontato attraverso un flashback di Pietra nel 2031, interpretato da Gino Bianchi nonno di Ballo, che si trova a ricordare mediante fotografie e oggetti ciò che avvenne nel 1977.

Come hai deciso di portare a termine Pietra, un film del 1977 rimasto incompiuto per più di quarant’anni?

È un discorso abbastanza lungo e complicato, cercherò di essere sintetico. Pietra è un film che giaceva tra le mie cose, dimenticato. È un film del 1977 che è stato girato in Super8, questa è la prima cosa. Perché ricostruire una cosa che non c’è più? Perché sono stato spinto a questo in primis dall’ottimo lavoro di Ilaria Pezone e Gabriele Gimmelli France, quasi un autoritratto dove si proponevano alcune inquadrature che hanno colpito chi ha visto il film.

E a partire da questo documentario è nato un interesse nei confronti del film tanto da spingerti a terminarlo a distanza di anni…

Sì, mi è stato chiesto di vedere quel che rimaneva di Pietra, di non preoccuparmi di ritrovare tutto il film siccome mancavano anche le sequenze di Gino Bianchi, mio nonno materno che interpretava me, il detective Pietra da vecchio. Pietra è ambientato nel 2031 ed è un flashback di questo vecchio ex detective che racconta questa storia molto misteriosa e strana. Poi con la tua spinta Astrid e quella di Andrea Sanarelli che mi avete aiutato a ricomporre e trovare queste parti, abbiamo lavorato, avendo trovato anche gli altri due rulli, quelli più lunghi (perché il film dura 1 ora e 12 minuti). Nei rulli Super8 ho trovato, e in seguito digitalizzato, il montaggio che avevamo realizzato già nel 1977 Aldo Longoni e io. In più abbiamo montato all’inizio e alla fine le due parti relative all’anziano Pietra. Una volta riusciti a stabilire questo montaggio, chiamiamolo definitivo, tagliando anche alcune parti che erano un po’ superflue sulle quali avevamo avuto dei dubbi anche io e Aldo Longoni allora, mi sono ricordato che la musica da me voluta era quella di Charles Mingus. Mancava la voce fuoricampo che in qualche modo accordasse e contronarrasse il film stesso.

Parlando del suono, tu avevi già avuto l’idea nel 1977 di aggiungere la musica di Mingus e la voce fuoricampo, quindi l’avevi già pensato come un film quasi muto, un film fatto principalmente di immagini, musicato a pezzi per fare in modo che fosse l’immagine a narrare/contronarrare?

Certo… diciamo che il film era muto perché allora non c’era l’audio sulla pellicola. Ci sarebbe stata questa difficoltà di mettere il sonoro di fianco all’immagine e soprattutto fare questo sonoro. Quindi una voce fuoricampo sarebbe stata la cosa migliore. E avrebbe dovuto essere narrativa, tanto che si vede un registratore nel corso delle inquadrature relative a Gino Bianchi, Pietra da vecchio. C’era bisogno che questa voce raccontasse, ricordasse, narrasse, ma secondo me proprio contronarrasse, gli episodi, le azioni, certe volte incongrue, misteriose e sorprendenti anche sul quotidiano, soprattutto nella prima parte. Doveva sottolineare l’azione di questo detective che deve cercare questa giovane donna interpretata da Maria Clara Bossi.

Sono presenti molti tuoi amici come attori del film…

Sì, oltre a Maria Clara Bossi compare Emilio Tadini che interpreta la parte del padre e del boss, recitando benissimo. Mi viene in mente l’inquadratura in cui lui è sul terrazzo con i guanti che si vedono e non si vedono, le forbici per tagliare la pianta, diviene quasi comico anche se questo personaggio rimane molto misterioso. Ci sono poi Gino Bianchi che fa Pietra da vecchio come già detto, Guido D’Alessandro e Luca Battaglini che interpretano gli sgherri e poi ci sono anch’io, Detective Pietra. Diciamo che il film è su di me che giro per Milano.

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Milano diviene quindi un personaggio nel tuo film?

L’epicentro del film è la città di Milano. È un film con questi lunghi cameracar che attraversano la città e ce la mostrano per quello che era nel 1977 e che ora non è più. Avevamo trovato dei punti nodali che non erano ancora stati visti, si sarebbero visti di lì a poco come per esempio il ponte di Porta Genova in Ratataplan di Nichetti però poi il film doveva avere anche uno sviluppo anche d’azione come avviene nell’ultimo rullo. Non bisogna aspettarsi un film d’azione come quelli dei registi americani che io amo: Raoul Walsh, John Ford, Henry Hathaway, Anthony Mann, Budd Boetticher… in questo caso invece è proprio una contronarrazione. Il protagonista gira, non trova il filo della matassa, gira con queste fotografie che nessuno riconosce e pedina molto truffautianamente, come avrebbe fatto Jean-Pierre Léaud in Baci rubati, cioè male. Alla fine ritrova questa giovane donna che si comporta in modo quantomeno bizzarro.

Anche il tuo film più conosciuto Quando le ombre si allungano del 1996 era principalmente un omaggio alla città di Milano, e vedo molti punti di contatto, anche se a distanza di vent’anni, tra i due film. Quanto c’è di Pietra, mai concluso, in Quando le ombre si allungano? Il fatto che tu non l’abbia mai portato a termine ti ha influenzato nella scrittura?

Questo che dici è interessante… è probabile che ci sia questo. C’è anche il fatto di trovare sempre luoghi diversi, strani. Non il Duomo visto dalla facciata ma il controcampo del Duomo come avviene in Pietra ma anche in Quando le ombre si allungano che però è in bianco e nero e in 16mm. C’è Milano. Anche se Quando le ombre si allungano termina come un western ai piedi del Cervino. Qua invece si rimane a Milano anche se il detective Pietra prende l’aereo alla fine del film.

Pietra ha quindi molto del cinema che tu difendi e di cui hai anche scritto come studioso di cinema.

In Pietra io ritrovo un po’ la mia visione del cinema, dagli albori, quelle inquadrature in campo lungo dove i personaggi quasi non li vedi, non li riconosci, sia la giovane donna sia il detective. Macchina da presa fissa e macchina da presa in movimento. Cameracar che in fondo è il carrello naturale… Ho ripreso tutte quelle cose che mi piacevano molto del cinema muto e anche del cinema sonoro. In fin dei conti si può dire che Pietra è un film costruito dal campo lungo, a volte lunghissimo, al primo piano. Sicuramente è stata importante l’influenza di autori più sperimentali come Dziga Vertov, Hans Richter, Stan Brakhage, Jonas Mekas, Peter Kubelka, Carmelo Bene e anche Jean-Luc Godard.

Come dicevamo, il film è stato scritto basandoti sui luoghi della tua città, Milano, più che su ciò che doveva accadere a livello narrativo. L’hai scritto proprio pensando a cosa volevi mostrare attraverso i movimenti di macchina?

Sì ma anche di ritmo, un ritmo in qualche modo musicale. Un ritmo spazio-temporale del film. Non vedo sinossi ma vedo immagini e vedo rapporti tra inquadrature. Il film quindi si scrive mentre lo si gira, non ha una scrittura precisa precedente, se non un soggetto molto sintetico. È stato un po’ così anche per Quando le ombre si allungano che però si muoveva su un soggetto mio e di Riccardo Bianchi. In Pietra c’era un procedimento underground sotto certi aspetti.

Successivamente nel tuo cinema sei arrivato all’omaggio puro, senza utilizzo di alcun espediente narrativo, alla città di Milano.

Sì, con Milano cerchia dei Navigli, Milano Bastioni, Milano Corso Buenos Aires… In fin dei conti Pietra mi apre una grande balconata su quelle che saranno le mie ricerche. Da un lato i cameracar come metodo di ripresa e dall’altro film interi in cameracar senza nient’altro al di fuori della prospettiva, come sarà anche Milano verso l’alto. Con il MiniDv, dopo il 16mm, riscopro questo modo di fare cinema che avverrà anche in Capodanno 2005-2006, un film di 12 ore, che non si possono proporre di fila, sarebbe forse noioso. Milano nel 2005-2006 era differente, era quasi deserta, perché nevischiava, era buio… Con la macchina si va e si attraversa…

I tuoi cameracar, li utilizzerai come elemento principale anche nel tuo cinema successivo, arrivando al digitale con Ghiaccio Rosso e Linee in rilievo dove come altro elemento ricorrente ci sarà il borsone che io vedo come un altro personaggio dei tuoi film…

Sì, il borsone di Beckett che accompagna la mia esistenza. Io sono sempre andato in giro con le borse, con gli zainetti. Insegnando prima a Urbino e poi a Bologna, sono sempre stato in giro con i borsoni, avevo sempre paura di avere freddo, avevo sempre molti libri. In questo borsone quindi c’è tutto il passato che è passato prossimo e il presente. Il nonno Pietra apre il borsone con le cartoline di Milano, con le fotografie di Buster Keaton. Buster c’è sempre perché è l’amore della mia vita cinematografica. C’è anche nel grande poster nello studio di Pietra. Le figurant sarebbe Spite Marriage del 1929 che è l’ultimo film muto di Buster Keaton, che oltretutto lui non amava particolarmente, perché i due film della MGM lui non li mette nella sua filmografia che fa terminare con Steamboat Bill Jr. del 1928.

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Ci sono altri omaggi a Buster Keaton in Pietra?

Sì, nelle mie posture, nel mio attraversamento di via XX Settembre di corsa. Parecchie cose anche se molto sfuggevoli, però chi mi conosce e chi conosce un po’ il cinema di Keaton, anche se questo non è un film comico chiaramente, le può vedere.

Che rapporto c’è tra il tuo essere studioso di cinema e quello di costruttore di film?

È un rapporto stretto perché quando analizzo inquadratura per inquadratura un film come Sherlock Jr. di Buster Keaton è come se il film mi appartenesse e lo ricostruissi e così poi quando realizzo un film so come andrà, non tanto la storia, ma il rapporto di un’inquadratura con l’altra, di un’immagine con l’altra, perché il film è fatto di immagini.

Quindi secondo te è più importante l’immagine del suono?

In Pietra l’importante era partire da un’immagine complessa perché mettesse a fuoco ogni elemento in campo per arrivare invece al nucleo centrale che poteva essere l’occhio, lo sguardo di alcuni personaggi. Quindi parlare di immagini per me è fondamentale. Il suono è complementare. In generale in tutto il mio cinema prevale l’immagine sul suono (infatti molti miei ultimi lavori sono volutamente muti) anche se ci sono film dove la voce, la musica, i rumori, hanno una certa importanza.

Il film Pietra è dedicato al mio carissimo amico Alberto Klausner che firma la fotografia, a mio nonno Gino Bianchi e anche all’artista Emilio Tadini, mio amico. (F. B.)