La politica della Fondazione Prada prevede che importanti personaggi della scena culturale siano chiamati a collaborare nella realizzazione di esposizioni ed eventi. È capitato un anno fa al pittore Luc Tuymans, che per la mostra Sanguine aveva proposto “accostamenti inediti” di ottanta opere fra artisti contemporanei e maestri del passato, nel tentativo di ridefinire un’impressione nuova sul significato di Barocco. Vengono chiamati a partecipare in questa nuova occasione la scrittrice e illustratrice Juman Malouf e il regista Wes Anderson, quest’ultimo già collaboratore a suo tempo della Fondazione con il progetto del Bar Luce, un personale omaggio alla vecchia Milano anni ’50.

All’interno dell’edificio centrale (il così detto Podium della Fondazione), celata da tendaggi color senape che impediscono alla luce esterna di filtrare dai vetri, la mostra ospita una collezione di oltre cinquecento opere d’arte allestite in puro stile Wunderkrammer. Fondamentalmente, la maggior parte dei pezzi proviene dalle collezioni del Kunsthistorisches Museum e dai dipartimenti del Naturhistorisches Museum, i musei gemelli di Vienna che hanno ereditato il lascito degli Asburgo e dove, un anno fa, la coppia aveva già allestito la prima edizione della mostra. Le porte dei depositi sono state aperte, e così la curiosa coppia ha avuto la possibilità di spolverare e riportare alla luce alcuni tesori sepolti.
L’esposizione si snoda attraverso un nucleo centrale di pareti e piccole stanze colorate (cromie in moquette dal gusto rétro) nel quale sono incastonate sotto teca le più svariate opere: dai quadri di grandi pittori alle tele di artisti anonimi, maschere, costumi, insetti, fino a un piccolo sarcofago dedicato a Spitzmaus, contenente un toporagno mummificato, da cui la mostra prende il nome. L’intenzione dei curatori è quella di costruire un racconto corale che proponga analogie diverse da quelle stabilite in ambito museale e storiografico, oltre che stimolare l’interpretazione personale dello spettatore (non ci sono né nomi né descrizioni delle opere in mostra) e cercare di offrire una riflessione generale sulle motivazioni che spingono alla creazione di una collezione.

Le intenzioni sono sicuramente pretenziose, e come tali difficili da risolvere. Dopo aver goduto delle meraviglie che la sala offre, ci si domanda cosa sia rimasto dentro di noi, una volta usciti dalla visita (per altro, allestita con non poca bizzarria, rimangono infatti oscure le motivazioni per cui molte opere sono a veduta “piedi”, se non per imitare l’effetto caotico da stanza delle meraviglie). Davvero crediamo che per sfidare i limiti delle frontiere curatoriali sia sufficiente allestire una vetrina di oggetti accomunati dal colore verde smeraldo? E mentre in alcuni (l’accoppiamento fossili-rappresentazioni di Adamo ed Eva) è evidente l’accostamento per gruppi tematici, in molti casi sfugge il senso del calcolo. Prevale in sostanza un’esposizione di carattere visivo, guidato da un gusto eccentrico che non giustifica né stimola ulteriori considerazioni sulle opere esposte. E sorge il dubbio che, per curare una mostra, sia necessario l’intervento di un esperto e non di un semplice (anche se sincero) amatore d’arte. Qualche anno fa David Balzer sottolineava come il lavoro del curatore avesse conquistato, dagli anni ’90 in poi, un ruolo di sempre maggior rilevanza nella società: il lavoro della curatela è come un vestito che, se indossato da nomi prestigiosi, permette a una galleria di far strappare molti più biglietti (Curatori d’assalto, Johan & Levi 2016). Nel mondo dell’arte sono loro che stabiliscono le regole, ormai da anni. Il lavoro di ricerca dello storico e del critico, attestato dallo studio e dalle sue competenze, non è in grado di certo di creare audience. Ma forse è l’unico capace di comprendere e proporre un’analisi non superficiale, rileggendo i reperti storiografici tanto quanto un regista è in grado di suggerire nuove visioni grazie alla dimestichezza con le immagini nei suoi film.
E se vogliamo confrontarci sul piano dell’analogia “innovativa” (che, a questo punto, potremmo tranquillamente definire interdisciplinare), non bisogna dimenticarsi del lavoro svolto da Aby Warbur durante tutta la sua vita: ideando, prima dell’avvento di internet, una feconda rete di analogie semantiche a partire dall’arte classica per arrivare ai francobolli e ai pali della luce in strada (Il rituale del serpente, Adelphi 1998, oltre all’incompiuta -perché potenzialmente infinita- opera del Mnemosyne).

Più modestamente, la mostra di Prada può essere letta come una lente d’ingrandimento tridimensionale del cinema di Wes Anderson e dell’immaginario della sua compagna. Ritroviamo infatti tutte quelle bizzarrie (una pianta fatta di piume verdi, ritratti di famiglie nobili irsute) ma anche i caratteri tecnici e stilistici (un capriolo che copre in primissimo piano, con tutta la sua figura, il minuzioso fondale del quadro) e le analogie fra caratteristiche fisionomiche e caratteriali (il nano e il gigante buono), che hanno contraddistinto l’estetica del cinema di questo regista.
Lodevole da parte loro, il desiderio di sollecitare la curiosità del pubblico nel dedicare più tempo agli spazi museali “vecchi” e viverli in modo differente da quello meramente turistico, tornando a respirare la cultura come fonte di incessante scoperta.

Analoga seppure inversa è l’operazione nella sala del cinema di Prada, dove per la rassegna Soggettiva l’artista John Baldessarri è stato chiamato a selezionare i film che maggiormente l’hanno ispirato nella sua produzione creativa. Se in mostra abbiamo l’occhio di un regista, perché non portare al cinema l’opinione di un artista? In questo modo, le proiezioni di grandi classici americani (ci troviamo Hitchcock ma anche l’horror La Cosa da un altro mondo di Christian Nyby e Howard Hawks) diventano l’occasione per comprendere, con più diretta complicità sentimentale, le celebrali operazioni d’arte concettuale realizzate dagli anni ’70 fino a oggi. Nessuno si sarebbe mai aspettato che l’estro tanto originale di un artista potesse optare per una retrospettiva di soli film hollywoodiani. Ci si sbaglia, dato che l’arte concettuale è strettamente connessa all’analisi mitologica e archetipica dei fenomeni statunitensi, maturata con lo stesso gusto di asciutta concretezza paragonabile solo a una battuta recitata da Cary Grant. Per non dire che i film proposti da Baldessarri appartengono tutti alla sua fase adolescenziale, fucina del subconscio di ogni persona.

L’esposizione come la proiezione, diventano pretesti per comprendere con maggiore profondità l’universo immaginifico dei nostri idoli culturali. Una sorta di deluxe edition che raccoglie impressioni e retroscena, e di cui fondazioni ed altri enti privati (purtroppo, meno quelli pubblici) sono i veri protagonisti nel fermento culturale attuale.