A che tempo sta parlando l’immagine della guerra? In 1917 la configurazione visiva non racconta al passato remoto distanziandosi come fa la Storia, mettendo il linguaggio tra l’evento passato e il soggetto presente (nella forma, ad esempio, del flashback); non descrive al participio presente, secondo la simultaneità dei punti di vista della Natura in corso d’esistenza (montaggio); ma neppure pensa all’indicativo presente, perché non esprime il Soggetto individuale, il cogito che cerca una prova del mondo osservandolo (soggettiva). Il tempo dell’immagine, dell’unità minima, di 1917 è il participio passato, il tempo verbale che racconta il presente appena dopo, con leggera differita, posizionandosi dietro di lui, nel luogo della sensazione. La macchina da presa esemplifica il tempo verbale perché traduce in visione il punto di vista che il narratore assume rispetto all’evento, e la macchina da presa di Sam Mendes sta infatti dietro ai suoi personaggi, raccoglie i loro passi e la loro fatica, mette in tasca la sofferenza che provano, procede assieme alla storia tallonando la loro esperienza, non cercando di cogliere il senso dell’evento ma la sua percezione, cioè la rielaborazione sensoriale dell’oggetto empirico.

L’immagine non è più il fango, il cielo o il colpo, ma il fango appena calpestato, il cielo appena guardato, il colpo appena subito. Questa contrazione verbale è una contrazione visiva che rimanda a una concezione di vivibilità dell’immagine in cui il rappresentato è vissuto, la visione è impostata per essere condizione di possibilità della sensazione e l’immagine non vive, ma viene vissuta dalla sensazione che suscita. E la sensazione è approfondita nella sua totalità, nella sua versatilità e nella sua eterogeneità: la macchina da presa può essere posizionata ovunque grazie alla capillarità virtuale del piano sequenza digitale (piano sequenza in cui non sussiste più neanche la sensazione dello sforzo fisico a cui si sottoponevano la pellicola e il tempo, ma che invece diventa banda larga della sensorialità, tessuto epiteliale) e quindi tutto può essere visto, colto, sperimentato. Non problematizzando la possibilità della totalità osservabile, il piano sequenza così performato sceglie di non riflettere sull’inconoscibilità costitutiva dell’altro per abbracciare in toto il paradigma della verità contemporanea: la conoscenza risulta evidente solo nella prassi, la verità coincide con l’azione e guardando l’azione posso conoscere la verità.

L’oggetto rappresentato è però la guerra e la dichiarazione di vivibilità, di percepibilità, di conoscibilità è una posizione morale difficile da sostenere: la proposta di comprensibilità sensoriale presume che ci sia legittimità nell’avvicinamento al mistero del dolore, dell’orrore e del sacrificio. E presume che questo avvicinamento possa essere condotto per via quantitativa, aumentando l’esponente dei pericoli, sommando le minacce, elevando il patimento in maniera direttamente proporzionale alla durata del film. Pensare che sia incidente l’aspetto quantitativo del dolore rispetto alla sua realtà qualitativa vuol dire fare della sua comprensione una questione di somme e addizioni, che in realtà sottraggono il mistero in maniera proporzionale: nella matematizzazione dell’esperienza altrui si dissolve la qualità del senso protetta dall’incomunicabilità del soggettivo, quella qualità secondo cui il dolore, la morte, e soprattutto il sacrificio, sono indicibili, quindi solo interpretabili per via negativa, per rapporto analogico. 1917 sceglie invece la via del dato, della positività, della trasparenza.

Ci pare allora possibile definire il piano sequenza di Mendes come una rappresentazione trasparente della prassi in cui riposa la promessa della veridicità, dell’autenticità della sensazione. La forza del participio sottrae indipendenza al visivo, creando il legame diretto tra evento rappresentato e sensazione provata, ponte nella cui chiusura viene a mancare l’immagine, che, ridotta a veicolo, non può che farsi piccola e transitiva, un analogo espletato dalla realtà e fagocitato subito dalla percezione. Il fotogramma si fa stretto e piano piano sottile, friabile, sostituibile, è un’informazione, è informato, non formante, e soprattutto è dato che si dà continuamente. Non si nega mai, non si ritrae per essere cercato, non abbraccia la via del negativo e non sembra conoscere quel movimento sottrattivo da cui scaturisce l’immaginazione, o in altre parole il rapporto interpretativo che esiste solo come tentativo di accesso a una realtà inaccessibile. Non immagino più, sento e capisco tutto. Il complesso di immagini fa blocco per non essere trasceso e si impone come una placca insuperabile dall’immaginazione, che è soffocata dalla trasparenza dell’informazione visiva, dalla sua estrema comunicabilità. Il piano sequenza di 1917 esaurisce il linguaggio perché gli nega l’ambiguità. Il cinema sentito risulta così un tempo che sapendo tutto non vede nulla, ed è quindi solo esercizio di cecità.