Alcuni rapporti hanno la forza di una detonazione, e per quanto il tempo passi a diluirne gli effetti, restano vivide le onde lunghe che dalla prima deflagrazione sono partite, e quanto si imprimono su di noi come segni, rughe, espressioni a volte mimetiche, tanto conservano intatto il loro potenziale distruttivo, eppure vitale, autentico e lacerante.

Honey Boy, opera prima di Alma Har’el e scritto da Shia LaBeouf, è una vera bomba a orologeria, pronta a esplodere sin dalla primissima inquadratura, sul set di uno dei tanti action movie di cui lo stesso LaBeouf è stato protagonista nel corso della sua carriera. Il film è infatti ispirato alla vita dell’attore, in particolare al tormentato rapporto con il padre e alla sua infanzia da child actor, e ha preso vita in seguito a uno dei tanti arresti che lo hanno visto coinvolto negli ultimi anni.

Autobiografico, ma lontano dall’essere un biopic, come sottolinea con insistenza la regista Alma Har’el, Honey Boy è un piccolo miracolo collettivo, in cui lo stato di grazia delle diverse parti messe in campo, dalla regista ai giovani interpreti alla scrittura di LaBeouf, contribuiscono insieme a raccontare una storia personale senza sconti, autocompiacimento o pietismo di alcun genere.

Nello sforzo terapeutico che da reale si fa cinematografico (prima della sceneggiatura infatti c’erano gli esercizi di memoria assegnati dalla psicologa a LaBeouf, e poi le mail scambiate con Har’el), LaBeouf si spinge oltre il mero racconto della sua vita, scegliendo di interpretare suo padre. Al di là di ogni considerazione freudiana, se ognuno di noi provasse a immaginare di dover mettere in scena il rapporto padre-figlio nel ruolo opposto a quello che abbiamo avuto nella realtà, ne uscirebbero fuori forse interpretazioni leziose, o eccessivamente accomodanti, o addirittura rancorose e sopra le righe. Ed è proprio qui che risiede la grazia del film, nel non cedere alla facilità di un simile risvolto patetico, mantenendo uno sguardo sempre aperto e compassionevole nel ritrarre una storia d’amore e di dolore estremi.

Attore prodigio sin dalla tenera età, Shia/Otis (com’è rinominato nel film), interpretato da Lucas Hedges, è un adulto sofferente e complessato, la cui esistenza piuttosto solitaria si destreggia tra le scene dei blockbuster hollywoodiani e gli eccessi nella vita personale. La dipendenza dall’alcool e l’incapacità di gestione della rabbia lo portano in rehab, dove inizia un percorso terapeutico che indaga le origini del suo malessere, culminando nella diagnosi di una sindrome post traumatica. Le scene del presente vengono così a sovrapporsi a un passato ingombrante, che vede il piccolo Otis, interpretato in maniera brillante da Noah Jupe, muovere i primi passi nello showbiz, accompagnato dal padre alcolista, ex clown di rodeo, con cui vive in uno squallido motel accanto a un bordello.

La regia di Alma Har’el, autrice di videoclip e di diversi documentari, ha un approccio materno e immaginifico, pronto ad accogliere con benevolenza i sentimenti più estremi e i gesti violenti che costellano il rapporto tra padre e figlio. Sulla scia del lavoro che si incominciava a intravedere nel sorprendente American Honey di Andrea Arnold, l’interpretazione di Shia LaBeouf è onesta e cruda, in grado di cogliere le diverse gradazioni di tono che fanno di suo padre un essere magnetico e abusante insieme.

Dietro le torte in faccia e i programmi di Disney Channel, la quotidianità di Otis è immersa in un costante stato di allerta, che si cristallizzerà nel suo comportamento disfunzionale da adulto. L’inaffidabilità del padre e la gelosia di cui lo rende oggetto circondano la stanza dismessa in cui si consumano i momenti più intensi di vicinanza affettiva e repulsiva, che lo sguardo di Alma Har’el trasforma in una meditazione sognante e delicata. Fiaccato nel suo rapporto con la mascolinità da una competizione tossica con la figura paterna, il piccolo Otis assume atteggiamenti adulti, fuma alla finestra e cerca conforto nelle carezze ambigue di una giovane prostituta di nome Shy Girl, abbandonandosi alle spirali di una tenerezza che fiorisce in un luogo senza speranze.

Trovando la sua forza nello stile che alterna momenti onirici a lunghe sequenze di duro realismo, il film di Alma Har’el crea un ponte quasi perfetto tra le interpretazioni dei principali attori: LaBeouf nel ruolo di suo padre, Noah Jupe in quello del dodicenne Otis e Lucas Hedges in quello di Otis adulto. E proprio tra Hedges e LaBeouf, che non condividono mai la scena, si realizza l’equilibrio salvifico del metacinema, nella rappresentazione di una vulnerabilità che è il cuore delle rispettive interpretazioni: misurata e rabbiosa quella del primo, instabile e imprevedibile quella del secondo.

Honey Boy è una lirica del dolore e del suo potere trasformativo, che rifugge la retorica del viaggio dell’eroe (Shia non ha risolto i suoi problemi, e fare un film non ha eliminato il trauma) ma abbraccia il lato più umano di un rapporto, quello tra padre e figlio, che non è mai perfetto né eterno. L’arte visionaria e l’esercizio collettivo del fare cinema non risolve certo, ma frena l’effetto violento della detonazione, esponendo le ferite ancora aperte e liberando così dall’isolamento del trauma.