Potrebbe apparire strano che un film di Judd Apatow compaia nelle classifiche di fine anno più cinefile, in mezzo ad autori come Christian Petzold, Charlie Kaufman e Philippe Garrel. Ma il produttore e regista americano, considerato il “Re Mida” della commedia hollywoodiana degli ultimi vent’anni, aveva già stravolto le forme e le dinamiche del tipico film demenziale più di dieci anni fa in titoli come 40 Anni Vergine e Funny People, dilatando in maniera a volte estenuante i tempi comici e focalizzandosi soprattutto sulla credibilità dei suoi protagonisti, sull’infantilismo e sulla loro difficoltà di maturazione compensate da un animo genericamente bonario e sensibile. Prima di realizzare Il Re di Staten Island, il limite del suo cinema è stato quello di risolvere i conflitti dei personaggi con una retorica familista e conservatrice, incapace di guardare al di là di un micro-universo caratterizzato da simpatia umana e trivialità, ma anche da una visione semplificata del canonico racconto di formazione: il passaggio all’età adulta si era sempre realizzato con l’accettazione e la condivisione di un ideale di vita borghese, dove il progetto sentimentale e matrimoniale era la risposta alle incertezze e all’immaturità di chi non è riuscito a crescere.

Il Re di Staten Island rappresenta dunque il primo vero film di rottura nella filmografia di Apatow. L’incontro con lo stand-up comedian Pete Davidson, enfant prodige del Saturday Night Live, ha portato alla scrittura di una sceneggiatura basata su alcuni dettagli del passato del giovane comico, orfano di un padre vigile del fuoco morto in servizio durante gli attentati dell’11 settembre, che ha permesso al cineasta di sviluppare e mettere a fuoco tutte quelle potenzialità autentiche ed empatiche che finora risultavano soltanto sottotraccia e che, grazie a Davidson, hanno trovato finalmente il terreno fertile per emergere. Rinunciando in maniera drastica al taglio demenziale e a gran parte delle allusioni sessuali, Il Re di Staten Island racconta un lento e graduale percorso di consapevolezza di sé, da parte di un “millennial” svogliato e insicuro, cresciuto senza figura paterna e privo di ideologie, nella periferia meno cool e urbanizzata della New York del terzo millennio, in cui persino lo skyline di Manhattan ha perduto il suo significato emblematico e attrattivo. Rispetto ai precedenti “losers” di Apatow, il 24enne nullafacente e mediocre tatuatore Scott vive rassegnato all’interno di un contesto famigliare e quotidiano insoddisfacente, dove la ferita della perdita del padre non si è mai rimarginata e in cui la difficoltà di conoscere sé stessi e realizzare le proprie inclinazioni emotive e professionali è corroborata dalla mancanza di prospettive offerte da una società capitalista in profonda crisi economica.

Il micro-universo di Scott assume così uno spazio simbolico, chiuso e generazionale, che coinvolge tutti coloro che nell’America post-11 settembre hanno dovuto rinunciare a un riferimento, di natura affettiva oppure allegorica. In questo modo, l’”isola” in cui si trascina e deambula il protagonista non è più lo specchio della pigrizia maschile di maturazione dei film precedenti, ma il luogo di scontro interiore tra i propri traumi personali e un presente precario, in cui la visione del futuro appare inevitabilmente appannata e incerta. Non è un caso che la relazione tra Scott e Kelsey non si concluda con la rappresentazione del lieto fine sentimentale più prevedibile ma che – in un finale leggiadro, che possiede la statura della commedia americana più poetica e struggente – venga soltanto suggerito e incoraggiato attraverso una piccola azione, che sposta per la prima volta il baricentro mentale del protagonista da Staten Island a Manhattan. E con un movimento di macchina inedito e sontuoso, che svela il talento e le occasioni perse dell’Apatow regista, concede a Il Re di Staten Island uno sguardo conclusivo a cielo aperto, verso l’alto, che non propone più una risoluzione conservatrice ma apre agli squarci infiniti dell’imprevedibile.