Non è facile scrivere di un film di Hong Sang-soo, dato che si tratta di opere talmente fragili che qualche parola di troppo rischierebbe di danneggiarle. Come spesso capita nell’arte contemporanea, ci si muove su tracciati quasi invisibili, che richiedono un piccolo sforzo di comprensione allo spettatore, ma non certo a causa delle trame o dei dialoghi troppo complicati (a quello ci pensa Nolan). Le opere di Sang-soo sono timidi invitati alla festa, di quelli che non parlano se non interpellati, e lo fanno con un filo di voce e lo sguardo basso. Per alcuni potrà anche sembrare snervante, cercare di afferrare fra i sussurri qualche informazione. Aggiungete il fatto che The Woman Who Ran è un film fatto quasi esclusivamente di dialoghi e avrete, suppergiù, il quadro completo.

Da queste premesse viene naturale porsi una domanda: cosa ci sta chiedendo Hong Sang-soo? Niente, in realtà. Il regista coreano non ha intenzione di imporre un pensiero allo spettatore, dismettendo così la casacca dell’artista demiurgo o del poeta sociologo. Più che una dichiarazione d’intenti, il suo cinema assomiglia a un invito a casa di un’amica, sorseggiando tè e pensando assieme a quanto vola il tempo senza accorgersene. Come accade non a caso anche nel film, in cui il sottotesto coincide perfettamente con la trama: Gamhee, mentre il marito è lontano per lavoro, si concede qualche giorno per sé e va a trovare tre amiche nella periferia di Seul.

The Woman Who Ran, nel suo susseguirsi di interni, è tutto qui: in ogni appartamento la protagonista si confronta con un’altra donna, e a partire dai convenevoli e dai dialoghi, si arriva a toccare anche i punti più privati. Gamhee si renderà conto, solo a partire dalla parola, della vita complicata delle amiche che non vedeva da un po’. Ed è proprio su questo punto che entra in scena l’aspetto più ambizioso del film. Se Gamhee sperava, compiendo questo piccolo viaggio, di sopperire alla solitudine a cui l’assenza del marito l’ha costretta, si sbaglia alla grande. La protagonista che ha bisogno di compagnia, diventa a sua volta sostegno fugace nelle vite delle altre. Con questo delicato pretesto narrativo, Sang-soo apre una finestra sulla malinconia del mondo di oggi, sulla solitudine esistenziale che ha sostituito il suo aspetto tragico con una velata costanza di apatia. Non è un caso che nei rari momenti in cui Gamhee assisterà realmente ad alcune scene di intima sofferenza delle sue ospitanti, lo farà sempre attraverso un filtro: dai monitor in bianco e nero delle videocamere di sorveglianza in cortile, dallo schermo del citofono che mostra quel che accade fuori dalla porta, fino alla sala di un cinema d’essai che proietta incessantemente un mare disabitato.

A sollecitare, sul piano estetico, questa necessità di un avvicinamento fisico, il regista adotta uno zoom manuale che a volte riformula la geometria dell’inquadratura, stringendo sui personaggi o su alcuni dettagli della scena. Un movimento che, ancora una volta, ci fa sentire il calore di un gesto più che una mera funzione meccanica del mezzo: l’obbiettivo si sporge in avanti come noi potremmo fare se qualcuno ci indica un particolare fuori dalla finestra o sotto al tavolo. Nulla di più. Con il garbo e la riservatezza che fanno di questo regista il vero grande erede di Rohmer, Sang-soo è riuscito ancora una volta nell’intento di farci (com)muovere. Non di spostarci da dove stavamo, ma più esattamente: ricordarci di avere l’opportunità di farlo.