Nello stesso mondo convivono più specie, molte di queste sono destinate a non incontrarsi mai, altre a non riconoscersi mai. C’è una specie che più di tutte le altre continua a mancare questo incontro, ed è la nostra che, ergendosi da sempre a misura di tutte le cose, ha costruito la propria identità a partire da tutto quello che non è l’animale. Gli animali diventano così i senza coscienza, i senza linguaggio, il marchio della natura irrazionale da tenere lontano. L’estraneo per eccellenza, spettro di qualcosa che non riesce a dire. E tutta questa indicibilità è ben visibile anche nell’universo delle narrazioni, dove gli animali sono spesso un espediente metaforico, mimetico, che grazie a un meccanismo di antropomorfizzazione ben oliato, incarnano i nostri desideri, le nostre paure o i personaggi di una parabola di insegnamento; altre volte fanno semplicemente da sfondo, come esseri sacrificali e ambientali, oggetti di scena.

Escludendo i film d’inchiesta e i tantissimi documentari naturalistici dove viene osservata la vita degli animali (quasi sempre selvatici), nel mondo dell’audiovisivo sono poche le eccezioni che interrompono la monotona tradizione narrativa del non saper dire l’animale attraverso l’immagine.

L’esempio recente più interessante è sicuramente Space Dogs (2019) di Elsa Kremser e Levin Peter, che affronta il tema dello sguardo animale seguendo alcuni cani randagi nei sobborghi di Mosca.

Ma è soprattutto il caso dell’ultimo documentario di Viktor Kossakovsky, Gunda, prodotto da Joaquin Phoenix, presentato alla settantesima edizione della Berlinale e in Italia lo scorso novembre al Torino Film Festival. Un’opera fortemente cercata dal regista che da anni si interroga sul rapporto tra essere umani e animali.

Il film si apre con un’inquadratura fissa su Gunda, una scrofa coricata nel mezzo della porta di una casetta di legno. Il suo riposo è presto interrotto da tanti piccoli maialini che si arrampicano curiosi sul suo corpo per varcare la soglia di quello spazio e scoprire il mondo fuori. Dopo poco siamo nella casetta insieme a loro e partecipiamo da vicino al rapporto intimo tra madre e figli durante l’allattamento.

Lungo l’arco narrativo del film osserviamo Gunda con la sua cucciolata mentre la cresce, crea un legame con i suoi piccoli e insieme a loro gode del sole all’aria aperta. Più li guardiamo e più la macchina da presa diventa un mezzo che ci mette in contatto con le loro vite, fino a quando senza accorgercene iniziamo a riconoscere i comportamenti dei singoli animali e a distinguere le loro personalità. Senza troppo pensiero ci ritroviamo avvolti in una drammaturgia silenziosa fatta di tracce, perché se è vero che gli animali non parlano – come dice bene Maurizio Ferraris – sicuramente scrivono.

A un primo sguardo Gunda è una storia semplice, un’immagine quasi bucolica. Eppure questa è solo la superficie del racconto, perché si tratta di un film esperienziale, dopo la cui visione è impossibile non ritrovarsi in qualche modo cambiati, anche fosse per un istante. Il racconto della scrofa e i suoi cuccioli è inframezzato da quello di altri animali, tra cui bovini che pascolano liberi e un curioso gruppo di galline che sul loro corpo portano gli evidenti segni dello sfruttamento dell’allevamento: creste basse e scarso piumaggio. Mentre escono con diffidenza da quelle che sembrano le tipiche gabbie di costrizione impiegate nel trasporto dell’industria zootecnica, e scoprono per la prima volta cosa significa poter posare le zampe sulla terra e distendere le ali, stando con loro impariamo i piccoli gesti di cui questi animali hanno bisogno.

L’immersione totale nelle immagini è possibile grazie a quattro scelte registiche precise: l’osservazione, l’altezza della macchina da presa e il bianco e nero. Lo sguardo osservativo e paziente, insieme alla mancanza di voci umane, musica e suoni che non siano esclusivamente diegetici, è ciò che permette allo spettatore di entrare a poco a poco nel ritmo dell’etologia animale, e in qualche modo di svestire la sua umanità. Già come nello straordinario Space Dogs, anche qui la camera si abbassa per portare alla stessa altezza chi guarda con chi è guardato: un mutamento di postura per cambiare prospettiva, ottenuto da Kossakovsky e dal direttore della fotografia Egil Haskjold Larsen grazie all’uso di teleobiettivi per riprendere da lontano la vita degli animali, senza interferenze. E infine il bianco e nero, la sottrazione del colore che ha qui lo scopo di restituire agli animali la loro essenza, allontanandoli da tutti quegli scenari da pubblicità o fotografie a cui siamo abituati e che ci mostrano solo l’immaginario povero e avvilente in cui li abbiamo relegati.

Apparentemente i luoghi in cui vediamo Gunda e i cuccioli e gli altri animali co-protagonisti della storia sono identici, contesti naturali che permettono una vita tranquilla, ma è sul finale che si interrompe d’improvviso lo sguardo contemplativo e veniamo gettati nel reale: il destino dei piccoli maiali, ormai cresciuti, non è quello di essere liberi, ma quello di diventare cibo.

Il finale struggente della separazione tra madre e figli, che il regista stesso ha voluto filmare cercando di entrare in totale empatia con il dolore della scrofa, è la rivelazione della menzogna che sta dietro ai cosiddetti allevamenti estensivi, dove sì gli animali nascono e crescono con maggiori cure rispetto al modello intensivo, ma rimangono costretti in recinti, gabbie più grandi, in cui la vita è addomesticata per poi essere estinta.

Questa la vera vita di Gunda, una scrofa che vive in una fattoria biologica fuori Oslo e che come tante altre probabilmente ripeterà nuovamente questo ciclo di maternità e separazione, diverso invece il destino degli altri protagonisti del racconto, filmati in alcuni santuari tra la Spagna e il Regno Unito, ovvero luoghi dove gli animali tipicamente considerati “da reddito” vivono liberi da ogni sfruttamento fino alla fine della loro vita.

Kossakovsky ci invita a essere presenti, a non essere semplici spettatori passivi, a prendere una posizione. Per questo Gunda è un film fortemente politico, il cui messaggio, mai esplicitato, è chiaro e fissa da subito negli occhi il pubblico per porgli una domanda.

Il regista vuole apertamente scoperchiare l’argomento del mancato rapporto tra umano e animale e renderlo visibile allo spettatore, portandolo a una maggiore considerazione di quello che ogni giorno consuma sulla propria tavola: “Sappiamo che li uccidiamo”, afferma in un’intervista, “ma preferiamo non pensarci”. E l’accento dell’indagine filmica è qui messo su quelle parti dell’incontro tra essere umano e animale che più di tutte ne rappresentano la difficoltà e l’incapacità di attraversarne il confine: la mancanza di parola. L’umanità nel film è la grande assente-presente, evocata solo alla fine con una presenza tecnica (il camion che porta via i figli di Gunda).

L’essere umano moderno vive tutti i giorni nel disconoscimento di ciò che potrebbe vedere e udire del mondo che gli sta attorno, ma che sceglie di non fare, quasi come atto di protezione. Possono accadere però momenti di cedimento, cercati o non cercati – come può essere la visione di questo film – in cui si riconosce e ci si riconosce come animali e si apre la speranza di una precarietà condivisa che fa della perdita il suo momento di incontro. Ed è magari attraversando le corsie dei supermercati che improvvisamente ci potremmo ricordare di Gunda e dei suoi figli, e quei pezzi di carne imballati allora non ci sembreranno più merci, ma corpi in esposizione: ossa, grasso, muscoli e tessuti di esseri che un tempo sono stati vivi. E, per un attimo, saremo in lutto per tutti gli animali senza nome che stanno di fronte a noi.