L’anima grave, dolente di un’allemanda nel corpo lieve, brioso di una bagatella. E dove sta la novità? Non c’è, ma Woody Allen, francamente, se ne infischia, coniando, con Rifkin’s Festival, un’appagante, adorabile commedia che, nella consueta ora e mezza racchiusa fra i titoli in Windsor con il loro swing di sottofondo, propone l’ennesima riaffermazione di un’antropologia e di una Weltanschauung consolidate: l’esistenza non ha alcun senso, nessun disegno provvidenziale guida il cosmo, Dio è un ente inaffidabile o, più probabilmente, non sussiste proprio, il genere umano è in balìa di una casualità coreografa di incontri fortuiti dai risvolti ora devastanti ora piacevoli, l’amore e il sesso, finché durano, sono tutto ciò che ci resta. Be’, non proprio. C’è anche il cinema.

Forse, il parente più prossimo di Rifkin’s Festival nella copiosa filmografia alleniana può essere individuato in Stardust Memories, per il ruolo che, in entrambi, giocano l’impasse creativa del protagonista, i ricordi che arpionano il passato e i suoi travagli, le digressioni oniriche, il dichiarato omaggio a Fellini. Ma, a dire il vero, Woody, in quest’ultima fatica, c’è tutto intero, lì a scrutare, dall’angolo di un marginale che certe logiche mai le ha capite o condivise, la fatuità del mondo dello spettacolo. Il ritorno in Europa e nella Spagna di Vicky Cristina Barcelona lo conduce, infatti, al festival di San Sebastián, ove la ragioni dell’arte si mescolano promiscuamente alle regole del commercio e ai più vacui rituali della mondanità, tra un cineasta che tenta d’irretire una bionda esplosiva suggerendole che sarebbe una perfetta Hannah Arendt in una pellicola su Eichmann in cantiere e altri che progettano una versione di Lisistrata al femminile (!).

Mort Rifkin, docente di storia del cinema in pensione, fiero estimatore dei maestri europei ed “esperto dell’influenza di Pasolini su Bertolucci”, a San Sebastián ci è arrivato, dagli Stati Uniti, al seguito della moglie, press agent di un albagioso regista francese, un Louis Garrel che, nella finzione, sublime perfidia, si chiama Philippe come il padre. Talmente presuntuoso da ritenere che la sua prossima creazione contribuirà concretamente a risolvere le controversie israelo-palestinesi (idea ancor più risibile alla luce degli ultimi quarti di Luna) e da voler firmare un remake di Fino all’ultimo respiro, il francese ha, tuttavia, conquistato Mrs. Rifkin. E, così, mentre elucubra mestamente sul romanzo che si è incaponito di scrivere ma che non riesce a elaborare, Mort assiste, impotente, al tracollo del suo matrimonio. Ci sarebbe di che deprimersi, se un acciacco cardiaco non favorisse la conoscenza di una tenera, avvenente terapeuta iberica. E si sa che, come lo stesso Woody sentenziava in Hannah e le sue sorelle, “il cuore è davvero, davvero un muscoletto molto elastico”. Infatti, per quanto fisiologicamente malconcio, quello di Mort comincerà a battere per il dolce medico, regalando al titolare uno sguardo più lieto sulle cose.

Insomma, tra battibecchi di coppia, idilli inaspettati e ricombinazioni sentimentali, Allen sciorina un’altra storia di mariti e mogli colma di allusioni autobiografiche, interrogativi metafisici, battute acide, gag sagaci. Quanto, in definitiva, può sgorgare da un talento inesausto e diligentemente allen-ato. Mort è un alter ego esemplare del suo demiurgo: ebreo newyorkese, destinato a finire, per vie rette o traverse, con donne più giovani di lui, fascio di ipocondrie e di nevrosi, socraticamente àtopos e alienato quant’è corretta la definizione di assurdo di Albert Camus (e, infatti, a un certo punto viene citato Il mito di Sisifo), nonché animato dalle stesse devozioni cinematografiche. Egli sogna e fantastica in bianco e nero, ripercorrendo e pensando la sua vita negli stilemi di altrettante scene di Quarto potere, , Jules e Jim, Un uomo, una donna, Fino all’ultimo respiro, Persona (l’inserto più spassoso, con tanto di dialogo in svedese), Il posto delle fragole, L’angelo sterminatore, Il settimo sigillo. Sequenze che, con ironia, rendono una testimonianza carnale dell’immaginario di chi, personaggio e autore, ha sempre osservato la realtà con gli occhiali della settima arte e, nella celluloide, ha cercato di ricomporre quella stessa realtà a partire dai suoi frantumi, anche i più taglienti. D’altronde, all’amore per il cinema d’antan, allo studio e a ciò in cui, un tempo, si era rivelato bravo, Mort tornerà, quando sarà ormai palese che il romanzo è stato abortito e che anche Afrodite lo ha scaricato. Perché, per quanto crepuscolare e pessimista possa essere, il vecchio Konigsberg non indulge in necrofilia e, anzi, fa perdere alla Morte (Christoph Waltz) la bergmaniana partita a scacchi con Rifkin. Esiste, dopo tutto, un’energia vitale che ci consente di attraversare quell’ambulacro di sofferenze che è lo stare al mondo senza soccombere. Basta coltivare le proprie attitudini, come girare un film all’anno, e non inseguire vani propositi. Basta lasciarsi cullare, di tanto in tanto, da qualche sogno d’amore che ci dia di che palpitare. Basta che funzioni. E, poi, magari, raccontare tutto allo psicanalista, come Mort che, rasserenato, ci consegna l’avventura spagnola in un fluviale flashback.

Un applauso tutto per sé merita Wallace Shawn che, nel dare forma a Rifkin, frammischia echi del suo passato di interprete di perdenti (la sua più rappresentativa performance sullo schermo ha tratteggiato il proverbiale zio čechoviano in Vanya sulla 42esima strada di Louis Malle) a un lavoro di identificazione con Allen (anche Shawn, tra l’altro, è un ebreo della Grande Mela) che investe addirittura la sfera fisica, dalla corporatura minuta al buffo passo barcollante.

Se, dunque, nulla si può rimproverare a sceneggiatura e attori, è, sorprendentemente, la fotografia a non convincere del tutto. Vittorio Storaro sembra, infatti, eccedere in carrelli talora compiaciuti, esibizionistici, gratuiti. D’accordo che i modelli figurativi di Mort Rifkin sono Raoul Coutard e Gianni Di Venanzo, ma occorre non dimenticare che un carrello è, pur sempre, una questione morale…