Non son proprio sicuro, ma mi pare che nel primo pezzo che scrissi per questa rivista c’era una citazione tratta da un film di Marker. È strano, non saprei nominare un altro regista che, quando compare nella mia mente, sia così legato alla memoria: arriva come un ricordo, ne porta con se tanti altri. Anche Tommaso Santambrogio, autore di questo ricordo, ha la stessa impressione, e immagino che tutti, pensando alle opere dell’immortale regista francese che quest’anno compie 100 anni, facciano un tuffo nei ricordi. Un autore immensamente discreto, di cui sappiamo poco o nulla della vita privata, ma che ha fatto della sparizione una prassi audace: un ribaltamento teso alla concretezza dell’essere. Marker si è annullato per unirsi a noi, per unirsi al mondo, e ci accompagna ancora oggi per mano nel nostro passato, personale o collettivo che sia. La sua poesia sa renderci più romantici e più radicali, spensierati e attenti. Un continuo altalenarsi fra percezione e realtà: la quintessenza del Cinema. [Davide Perego]
“Vi scrivo da un paese lontano…”
Sono le parole che aprono Lettre de Sibérie (1958), uno dei film più importanti nell’opera di Chris Marker e spartiacque nella storia del cinema, ed è da un paese lontano e frequentato dallo stesso Marker (Cuba) che mi trovo a scrivere in occasione del centenario della sua nascita (29 luglio 1921).
È proprio in una nota biografica che accompagnò l’uscita di Cuba Si, film realizzato nel 1961 (due anni dopo il golpe castrista nell’isola caraibica), che è riportato: «Un giorno dell’anno 1921, in una qualche parte del mondo, nasce qualcuno che si chiamerà più tardi Chris Marker», donando alla critica e al pubblico una delle rare informazioni biografiche che si hanno sul regista.
Un mistero che avvolge la sua vita e che lui stesso ha saputo maneggiare con intelligenza, confondendo le informazioni relative alla sua storia per sottolineare la centralità dell’opera artistica, l’unica modalità con la quale desiderava raccontarsi. Di lui sappiamo solo che nacque in un sobborgo di Parigi, sotto il nome di Christian-François Bouche-Villeneuve – anche se diverse fonti sostengono che nacque a Ulan Bator, in Mongolia, da madre russa. Non sappiamo nulla riguardo alla sua formazione, se non che lungo il suo percorso ha studiato filosofia con Sartre e che successivamente, durante la seconda guerra mondiale, ha lavorato come traduttore e paracadutista a supporto degli americani.
Il più filantropo dei misantropi: viaggiatore, scrittore, videoartista, illustratore, fotografo, musicista, cineasta e informatico. Sarebbe quindi sbagliato provare a circoscrivere “l’universo” Chris Marker – il suo sguardo sull’universo – catturato nel tempo e nelle forme da differenti eteronomi e moltitudini in cui si riconosceva (Sandor Krasna, Jacopo Berenzi, Fritz Markassin… tutti personaggi e alter-ego che contraddistinsero i suoi lavori).
Tra queste sue personalità – che ha stratificato e costruito fin nei minimi particolari – rientra anche quella di un gatto (Guillaume-en-Egypte), l’animale feticcio con cui ha sempre amato farsi rappresentare, oltre alle adorate civette e balene. È facile notare come spesso, nei suoi lavori, l’attenzione della camera fosse inevitabilmente attratta da questi animali, cogliendone la grazia, l’introspezione, la sensibilità e la perspicacia (troviamo un esempio ne L’ultimo Bolscevico, del 1992, dove, a metà dell’opera, osserviamo un commovente interludio di 3 minuti dove il gatto si gode con sorniona beatitudine la musica.
Poliedrico ed estremamente acculturato (tanto che lo scrittore Henri Michaux provocatoriamente affermerà: «Bisogna abbattere la Sorbona per mettere al suo posto Chris Marker»), venne definito dal collega e amico Alain Resnais “il prototipo dell’uomo del XXI secolo” per la sua insaziabile curiosità nei confronti delle novità espressive e linguistiche, per la capacità divinatoria – tipica solo dei grandi artisti – di raccontare e cogliere propensioni e direzioni verso cui si indirizzava il mondo.
Fu il primo a raccontare le innovazioni politico-sociali e le rivoluzioni (dalla Cuba degli anni ’50 alla testimonianza dei primi anni di Israele, oltre alla polemica sulla guerra di Algeria e la narrazione della Parigi nel maggio del ‘62), a cogliere le potenzialità di nuovi mezzi e annessi linguaggi come il Cd-Rom (straordinario il lavoro Immemory, un archivio-memoria summa dell’universo markeriano e una sorta di contenitore ideale della memoria personale di un uomo, in cui l’autore raccolse riferimenti, stimoli e spunti che cercò di salvare dalle grinfie del tempo) e a sperimentare nuove forme d’arte espressiva che gli permettessero di raccontare l’essenza del mondo e dell’animo umano.
Marker rivoluzionò il documentario e frantumò il confine fra cinema ed arte, con la tenacia di non essersi mai piegato a stilemi o canoni pregressi, ma lasciando che la sua intelligenza si muovesse libera, in maniera quasi infantile, guidate dalla curiosità e dalla più pura urgenza espressiva. Le prime sensazioni che i suoi film mi hanno sempre suscitato, immagino come a molti, sono la giocosa passione che guida ogni sua inquadratura e contemporaneamente l’istintiva perspicacia di chi danza sul tempo, con una stratificazione linguistica unica e inimitabile.
Fin dai primi film elaborò uno stile narrativo-artistico molto personale, che lo portò a riflettere sulle tematiche che hanno poi contraddistinto per l’intera esistenza i suoi lavori; già dalla prima collaborazione con Resnais su Les Statues meurent aussi (1953), affronta infatti la tematica della memoria e dell’eredità artistica nelle società post-coloniali, o in Olympia 52 (1952) dove concentra il suo sguardo sul viso umano dei soggetti piuttosto che sulla folla oceanica che prese parte alle olimpiadi. O ancora in Dimanche a Pekin (1956) e in Cuba Si (1961), in cui racconta la sua esperienza, il suo stato d’animo e la sua ricerca in relazione a fenomeni storici oggettivi, raggiungendo un punto di vista analiticamente personale anteposto alla camera. In Lettre du Sibérie (1957) riesce poi a fare quello che Bazin definirà come «un saggio in forma di reportage cinematografico sulla realtà siberiana passata e contemporanea […] adattando la formula usata da Vigo per À propos de Nice (“un punto di vista documentato”), direi: è un saggio documentato attraverso il cinema. Dove la parola chiave è saggio, inteso nello stesso senso che ha in letteratura: un saggio storico e politico, ancorché scritto da un poeta». E ancora: «L’elemento originario è la bellezza del sonoro, ed è da qui che la mente viene condotta verso l’immagine. Il montaggio procede dall’orecchio all’occhio».
In sintesi, Marker ha inventato un nuovo approccio al montaggio (definito “orizzontale”, in quanto parte dal sonoro e dal commento scritto dall’autore per andare poi a definire la narrazione visiva) introducendo allo stesso tempo una forma innovativa di “saggio” nel mondo del cinema, dando un nuovo sapore e valore al commentaire (il commento in voice-over sulle immagini), e creando una versione nobile del travelogue (una testimonianza epistolare dell’esperienza del viaggio).
Nel suo percorso cinematografico si è poi “cinementato” in un lavoro ciclopico quale Le Joli Mai (1962), in cui adotta un approccio personale di cinema-verità. In questo film, grazie alle interviste frontali, indaga e analizza il tessuto sociale parigino dopo l’immediata fine della guerra d’Algeria. Lo stesso anno realizzerà quello che è considerato uno dei film più innovativi e d’impatto della storia del cinema, La Jetèe (1962): «28 minuti di un uomo segnato da un’immagine della propria infanzia». La prima volta che vidi questo film ebbe un effetto sconvolgente; tuttora è un lavoro che posso considerare come una ferita aperta nella mia esperienza artistica e in cui mi ritrovo spesso a cercar rifugio, come è possibile fare solo nei grandi amori e nelle grandi opere che trascendono il tempo e lo spazio. «L’amore sono lo spazio e il tempo resi sensibili al cuore», scriveva Proust, ed è questa la sensazione che provo ancora di fronte all’opera di Marker.
La Jetèe è un fotoromanzo ambientato in un contesto distopico post-apocalittico, in cui la vicenda di un uomo costretto da inquietanti scienziati a viaggiare nel passato e nel futuro (i suoi ricordi generano l’energia necessaria per una ripartenza della specie umana), tocca tematiche quali la centralità della memoria nell’esperienza umana, l’angoscia e la ciclicità del tempo, ma soprattutto l’amore, unica e perfetta icona di felicità. Marker racconta la vicenda di un uomo che, davanti a un avvenire sicuro ma privo di amore, sceglie invece di rivivere un passato contraddistinto dall’immagine della donna amata e cementificata nella sua memoria fin da bambino. Non è un caso che quando Marker tra i suoi film preferiti abbia spesso citato Vertigo di Hitchcock, oltre ad Ali (1927) di William Wellmann e a Aileta (1924) di Yacov Protazanov. Vertigo, come La Jetèe, è un film percorso dal desiderio di vincere il tempo dove è più difficile farlo, cioè sul terreno dell’amore perduto/morto. Il mito del ritorno, come quello di Euridice ed Orfeo, sarà alla base di molti altri lavori successivi dell’autore francese.
Level Five (1997) ne è un chiaro esempio. Laura (Catherine Belkhodja), dialogando direttamente con lo schermo e dunque con l’osservatore, si trova a portare a termine un videogioco sulla battaglia di Okinawa che il suo compagno, appena scomparso, non è riuscito a terminare. Quella di Laura (e dunque di Marker) è una ricerca volta a completare un linguaggio che permetta di tornare indietro nel tempo – quello storico della feroce battaglia di Okinawa e quello personale del lutto della persona amata – per poi ritrovarsi a sfogliarlo e ripercorrerlo senza fretta, tramite un divertissement (il videogioco) che pone le radici nell’urgenza più profonda dell’essere umano: quella di sconfiggere la morte, di superare il terrore del fallimento e avere una seconda chance, una seconda vita che ti permetta di rimediare ai propri errori e di godere del presente come è possibile fare solo quando è già passato. Una seconda vita che Marker stesso ha creato tout court nella realtà virtuale, in Second Life, dove con il profilo del suo alter ego felino Guillaume-en-Egypte dà vita a un’isola virtuale immaginata sulla falsariga dell’ambientazione di L’invenzione di Morel, libro scritto dall’autore sudamericano Adolfo Bioy Casares che Marker stesso indicò ai curiosi come opera d’arte esaustiva di tutto ciò che lo riguarda.
Chris Marker realizzò poi tantissimi altri film, alcuni su personaggi mitologici come Alexandre Medveskine (Le Tombeau d’Alexandre, 1992) – regista russo di capolavori sommersi realizzati negli anni ’30 sul Cinetreno –, altri veri e propri omaggi a maestri quali Akira Kurosawa (A.K., 1985) e Andrei Tarkovskij (Une journèe d’Andrei Arsenevitch, 2000). Il suo contributo si estese poi – soprattutto nei primi anni del suo ricco percorso artistico – a romanzi o saggi come quello su Jean Giraudoux, a collaborazioni come quelle che portarono alla realizzazione dei Petite Planete (raccolta di libri fotografici che racchiudevano gli scatti realizzati da Marker nei suoi innumerevoli viaggi) o di articoli per riviste come Travail et Culture.
Per concludere, non possiamo esimerci dal citare Sans Soleil (1982), considerato il film-saggio per eccellenza, l’elegia dell’immagine, annoverabile tra le opere fondamentali del Novecento sul tema del ricordo. Tramite la voce narrante di Florence Delay e lo sguardo di un cameraman, Sandor Krasna – che attraversa nel tempo e nello spazio Giappone, Guinea Bissau, l’Islanda, Île-de-France, Stati Uniti (ripercorrendo i luoghi in cui è ambientato Vertigo a San Francisco) e Capo Verde –, Marker da vita a un flusso di memorie, immagini, riflessioni malinconiche e sguardi eterni. Sans Soleil è forse l’opera che meglio raccoglie l’universo Marker, con i suoi lampi sinestetici, lo scorrere di emozioni, immagini che «sono la mia memoria». Il regista si domanda «come fanno a ricordare le persone che non filmano, che non fotografano, che non registrano, come ha fatto finora l’umanità per ricordare?». Tramite la sua complessa stratificazione e la contestuale immediatezza emotiva, è un film che riesce ad emozionare, a incidere nella memoria dello spettatore frasi ed immagini, come quella dei tre bambini islandesi all’inizio del film che rappresentano «l’immagine stessa della felicità», o come la riflessione sulla preminenza dell’assenza sulla presenza, del non-essere sull’essere («Chi l’ha detto che il tempo viene a capo di tutte le ferite? Sarebbe meglio dire che il tempo viene a capo di tutto tranne che delle ferite. Con il tempo la piaga della separazione perde i suoi margini reali. Col tempo il corpo desiderato non ci sarà più, e se il corpo che desidera ha già cessato di esserci per l’altro, ciò che resta è una piaga senza corpo»).
L’opera e la vita di Chris Marker devono continuare ad essere uno stimolo per ogni regista contemporaneo. I suoi film accendo il dibattito attorno alla nostra libertà di espressione, tornano a farci desiderare ed affermare l’esigenza di un cinema più personale e più libero. Terminando con un ritorno al principio dell’articolo – dalla “spiralità” del tempo non è esente neanche la scrittura – in Lettre de Sibérie Chris Marker annotava che «l’arte è ciò che rimane, quando tutti se ne sono andati via» per poi aggiungere, citando Prevost, che «la morte non è così grave, consiste solamente nel raggiungere tutto ciò che abbiamo amato e perduto. La morte del cinema non sarà che quello, un immenso ricordo».
Ed è dunque in questo ricordo che un grande spazio sarà per sempre occupato dalla sua intelligente, ironica e umana arte e dalla sua curiosa, straordinaria e misteriosa figura.