Il cinema di Bruno Dumont è sempre stato in ascolto del trascendente. La letteratura sulla questione, incoraggiata dalle dichiarazioni dello stesso regista, non ha esaurito una carica paradossale: come è possibile che un mezzo di visioni come il cinema possa mostrare il trascendente, ciò che va oltre il visibile? La possibilità di mostrare l’invisibile attraverso il visibile, cioè di mostrare il trascendente attraverso l’immagine, ha come presupposto la ferma convinzione del regista che il fenomeno di trascendenza non risieda in una disposizione dall’alto del senso, in un’illuminazione strumentale e arbitraria delle cose, ma in una (deleuziana) proprietà di senso trascendente delle cose stesse: le cose sono abitate da una luminosità intrinseca, da una trascendenza immanente. Il cinema può cogliere questa proprietà tramite le proprie strategie grammaticali; Dumont di solito utilizza il montaggio campo/controcampo (raccordo di soggettiva) per mettere in moto la visione dell’invisibile: riconoscendo l’impossibilità di visualizzare ciò che si nega alla vista, il regista stressa al massimo la visibilità – tramite inquadrature superficializzanti che insistono sulla materialità, sulla cosalità e mostrano tutto – per superarla e mostrare di riflesso l’invisibilità che vibra nelle cose. Sfrutta in altre parole la particolare logica della deissi, cioè del riferimento diretto a un oggetto tramite un indicatore linguistico frustrato dal continuo slittamento del riferimento stesso. Il “questo” che l’inquadratura superficializzata (“questo è questo”) di Dumont dice di frequente, per quanto diretto, già si rivela impotente.

La frustrazione della tensione deittica è espressa attraverso la riproposizione continua di una frattura, di una faglia per cui lo sguardo del soggetto indicatore (campo) e ciò a cui esso si riferisce, di solito il paesaggio (controcampo), si rincorrono senza coincidere mai pienamente. È nel piccolo taglio di montaggio tra il campo e il controcampo in cui si produce la rincorsa che il trascendente avviene, appare fugace, come luce inscritta nell’incastro tra le cose e lo sguardo, inscritta cioè a metà, nella faglia, tra la potenziale intellegibilità del mondo e l’esclusiva attuazione di tale intellegibilità da parte dell’uomo. Il trascendente è la possibilità utopica di una coincidenza del senso tra persona e persona, tra essere umano e mondo, che appare proprio nel reale presente, non altrove, ma solo paradossalmente, indirettamente, nel negativo prodotto dai positivi della visibilità: l’invisibilità appare velocemente in una rifrazione tra immagini pienamente visibili (“pezzi di realtà” più che pezzi di rappresentazione). Questo paradosso è presente in tutti i film di Dumont, ma in France non c’è: il trascendente in esso scompare. Scompaiono le strategie di apertura, la logica della faglia e quella della deissi, scompaiono perché occluse da un altro uso della grammatica; il regista scrive infatti la storia di France, star dell’informazione televisiva, non con la grafia implicata dal trascendente immanente ma con la grafia del medium di massa che la protagonista rappresenta, la grafia dello Spettacolo; alla superficializzazione impiegata per rompere la visibilità si sostituisce l’esaurimento linguistico del visibile al fine di confermare la mediatizzazione di tutta la realtà.

In France Dumont non lascia scoperto nessun punto del reale e positivizza gli spazi di negativo attraverso un’endemica diffusione di punti macchina: usa la strategia formale propria della televisione iperrealista, che per rappresentare il reale costruisce una falsificazione radicale e lenticolare tesa alla produzione di continue presentificazioni, forme di presente assoluto (opposte allo slittamento temporale proprio della deissi). Per sviare l’impossibilità di raccontare il presente in tempo reale il medium televisivo dà l’impressione di farlo producendo continuamente immagini del presente, generando presenti fittizi da offrire come datità statistiche. Questa della televisione è un’operazione di messa in scena dell’immanenza decisamente opposta a quella organizzata dall’immagine cinematografica per cogliere l’apparizione del trascendente: nel profluvio di visibilità “il reale straparla” non per rivelarsi muto, come nel caso della deissi, ma per nascondere di esserlo. Lo straparlare nel film si fa circuito infinito, citazione continuamente re-citata, per cui France (sineddoche di una società) recita se stessa allo sfinimento: il riferimento di Dumont qui non sembra solo Debord, chiamato in causa da molti, ma anche Michel De Certau. Proprio il gesuita scriveva ne L’invenzione del quotidiano: “La nostra società è diventata una società recitata, in un triplice senso: è definita dai racconti, dalle loro citazioni e dalla loro interminabile recitazione. Questi racconti hanno il duplice e curioso potere di tramutare il vedere in un credere, e di fabbricare la realtà con dei simulacri. […] I destinatari di queste leggende non sono più obbligati a credere ciò che non vedono (posizione tradizionale) ma a credere ciò che vedono (posizione contemporanea).”

Perché Dumont nega alle proprie immagini la grammatica dell’invisibile e adotta i presupposti teorici e le regole formali dell’iperrealismo televisivo in cui si crede a ciò che si vede e ciò che si vede è un puro artefatto re-citato automaticamente? Non compie più un’operazione assimilabile alla paradossalità post-bressoniana della sua prima fase. E non sembra neanche proseguire il suo discorso sul brutto, sul grottesco e sulla caricatura della seconda parte di carriera; in France non viene reso produttivo un limite, sia esso il limite del visibile o il limite del brutto – cosa invece centrale per l’approccio hegeliano di Dumont, che non considera il male come un’entità autonoma (“il male è il bene che lotta”) ma un momento dialettico: il brutto non è che un momento del bello (così come il visibile non è che un momento concreto dell’invisibile), un polo negativo che permette anche nella distanza più lontana dal polo positivo di compiere un’inversione a u per tornare dall’altro lato. È necessario passare per tutta l’estensione del brutto per raggiungere il bello e in questa esplorazione occorre attraversare il momento del brutto più vicino al polo positivo, il punto di congiunzione, cioè il comico – anche se è necessario essere consapevoli della natura controversa dell’attraversamento, come evidenzia Ma Loute, film in cui l’invisibile inizia a essere danneggiato attraverso l’autoparodia. No, in France non c’è dialettica di visibile e invisibile, non c’è estetica del comico, non c’è sforzo di contrari, e infatti manca in qualità di motore l’altro grande tema del regista, il desiderio umano di amore salvifico non corrisposto, non coincidente, che produce principio di realtà, e che può essere la forma concreta di quell’incastro utopico tra sguardi sopra menzionato.

Il film per marcare il proprio distacco a questo proposito si conclude con un’inquadratura che è apparentemente siglata da una firma tipica – l’abbraccio amoroso tra uomo e donna e i loro sguardi – ma mostra un’impostazione teorica inedita: France abbraccia l’uomo che l’ha ingannata ma dichiara di amarla e, dopo aver assistito a una scena di vandalismo, guarda in camera, piangendo come ha fatto per il resto del film. Questo sguardo piangente, che è conferma e sigillo di tutti quelli precedenti, non è né uno sguardo in tensione per l’invisibile né dolente per la sofferenza d’amore, né uno sguardo caricaturale che ribalti il brutto in possibilità di salvezza (anche se l’esagitata espressività condotta dai tratti di Léa Seydoux può sembrare occasione di caricatura il film non suggerisce mai una difformità evidente che sia segno di disarmonia, e quindi momento di una più estesa dialettica): è pura, piana autocitazione del presente della propria immagine immanente mediatizzata, che non è disponibile alla frattura prodotta dal tempo altro e non coinvolge strutturalmente controcampo. Questo risultato formale e teorico – ottenuto con ragionamento estetico sul ridicolo involontario e sull’autoparodia del proprio linguaggio (l’intensità del primo piano solitamente segno dell’invisibile/trascendente qui si fa segno dell’opposto) – è preoccupante: Dumont, con questa nuova strategia rappresentazionale, crede ancora nel (suo) cinema? L’utilizzo in profondità della grammatica televisiva in sostituzione di quella del cinema come ridimensiona l’immagine cinematografica?

Per il regista il cinema non sembra essere più grande dello Spettacolo, ma la sua attuale piccolezza non è per forza un male. La debolezza strategica ribalta la possibilità tragica che il trascendente possa anche non essere intuito dallo sguardo (e che quindi l’uomo non incontri il senso) in un potenziale profitto contro il sistema dello Spettacolo – che è proprio l’agente responsabile (tramite vedettes, di cui France è esempio, non a caso) di una rimozione del senso dell’alterità dalle immagini: siccome l’invisibile può anche non venire alla luce occorre lavorare con i dispositivi che lo hanno soppresso per ribaltarli dall’interno. È, sempre per dirla con De Certau, la strategia del “lavoro di straforo”, con cui si opera all’interno di un’apparente sottomissione a un potere incontrastabile – la mediatizzazione spettacolare da cui non si può sfuggire: utilizzare la grammatica spettacolare per rivelare la rimozione che essa opera sulla realtà è un’astuzia che colpisce l’ordine costituito con il suo linguaggio, perché è impossibile dire qualcosa al di fuori di esso. In France non c’è più apertura al passaggio del trascendente/invisibile, non c’è possibilità di leggere nella filigrana l’essenza delle cose, ma impera l’improvvisa rivelazione della potenziale scomparsa della traccia dell’alterità: proprio annullando l’immagine cinematografica si mostra nel linguaggio del dominio che c’è un’altra possibilità. Ci si può chiedere, di fronte a questa svolta nel cinema di Dumont, se questa strategia di consapevolezza terminale, che è allo stesso tempo attestazione di una condizione di abitabilità e intuizione del disastro, metta a rischio il cinema o se per il cinema questo rischio sia stato di grazia. Fino a che punto l’immagine cinematografica può sacrificarsi come superficie omeopatica (“il simile si cura con il simile”) utilizzabile per massimizzare le chance di riequilibrare l’asimmetria tra le deboli possibilità utopiche dell’invisibile e le alte probabilità tragiche in cui versa il sentire, il vedere, il credere, prima di scomparire davvero?