GOOD TIMES / BAD TIMES è un faccia a faccia redazionale intorno allo stesso film, due visioni opposte per suggerire uno sguardo più ampio e mai scontato sul cinema.

GOOD TIMES

Il doposole è una lozione idratante usata per rinfrescare la pelle a lungo esposta al sole.  Non previene e non protegge prima, ma, tardiva, lenisce poi. Il messaggio e la struttura del film di Charlotte Wells viene affidato in toto a questa immagine estiva, eppure in principio malinconica, insufficiente. Come l’aftersun, il film è una ricognizione di una figura, quella  paterna, e di una fase della vita, la pre-adolescenza, che può avvenire solo a posteriori. 

Il doposole funziona da icona universale: è una piccola immagine che in modo simbolico ognuno di noi ricollega ad almeno un luogo, un odore, delle mani familiari, e dunque ad  almeno un ricordo, un ruolo, una scottatura. Aftersun è allora memorabile precisamente  nella sua iconologia, questa costruita per successioni di limpidi riflessi e chiaroscurali composizioni. Il linguaggio insieme registico e narrativo di questo film è la liminalità, ovvero l’ambivalenza, l’incertezza, o il disorientamento avvertito in una fase di transizione, in un rito di passaggio, nell’esistenza tutta a ritmi alterni. L’occhio della cinepresa di Wells spesso registra, perforandole, solo gli scorci delle cose, fermandosi sulla soglia della sua stessa  percezione e scavando nella nostra. Sulla soglia lo sono anche i personaggi, che in bilico tra ciò che sono e ciò che vorrebbero essere annaspano, soccombono – non ancora  adulti e non più fanciulli, sia il padre Calum (Paul Mescal) che la figlia Sophie (Frankie  Corio) si scontrano con le soglie delle loro età, e della loro maturità, apparentemente  invalicabili. 

La soglia è luogo spazio-temporale contraddittorio – perché si è in stasi ma in tensione verso qualcosa – che tenta di afferrare l’inafferrabile. Inafferrabile è l’infanzia della  protagonista del film, nonché la relazione con il suo giovane padre spesso fuori posto, che può essere qui rievocata soltanto attraverso rifrazioni mnemoniche e filmini di famiglia  ancora corrosivi. La resa filmica, proprio come una rievocazione di ricordi, avviene per analogie visive, sequenze interrotte, messe a fuoco insolite, contro-intuitive eppure luminescenti nella loro opacità, e un refrain. Il “ritornello-rave” di Aftersun è un incontro  padre-figlia allucinatorio. Un ballo al buio, in cui i volti di questi corpi in movimento emergono progressivamente dai fasci intermittenti di luci stroboscopiche come spettrali introiezioni di una riconciliazione di intenti lungamente agognata ma rimasta inattesa, possibile solo nella tangibilità rarefatta del sogno. È in questa danza singhiozzante che le  soglie vengono meno, che padre e figlia si (ri)congiungono, distanti da mancanze e ruoli prescritti.  

All’incrocio tra coming-of-age e home movie, Aftersun è, alla fine, un lungo flashback, un blend irresistibile di reminiscenza e immaginazione, rimasto su una scheda di memoria e poco più – il che farebbe sorgere una questione annosa: quanto e come ricorderemmo di  questi vissuti remoti senza i nostri personalissimi archivi audiovisivi? 

Questo, allora, l’incanto del film: la crudele inesattezza dell’effimero ricordo liminale, e l’intima, irriducibile malinconia in cui questo sprofonda. [Sara Gelao]

BAD TIMES 

Avvertenze: nessuna parola poetica è stata maltrattata nella scrittura di questo pezzo.

Da quanto leggo su ogni testata, piattaforma o magazine, sembra che Aftersun sia un miracolo cinematografico, un film carico di poesia e con tutte le carte in regola per diventare un vero classico dei nostri tempi. Occupandomi di cinema e di tante altre cose ingombranti (come pagare le bollette), riesco a vedere molti meno film di quelli che vorrei, quindi chiedo scusa in anticipo se mischio esperienze di vita e suggestioni personali per provare a spiegare le ragioni per cui Aftersun a me non ha detto proprio un bel niente. Perché, come mi era già successo per America Latina dei D’Innocenzo o La timidezza delle chiome di Valentina Bertani, mi scopro una voce fuori dal coro per ragioni ai miei occhi totalmente chiare e basilari, che mi fanno sinceramente domandare se non mi sono perso via qualche pezzo. Ovviamente lo so che i film appena citati son molto diversi fra loro, per stile e visione (intesa come il modo in cui un/una regista dovrebbe saper raccontare la vita grazie al suo mestiere: “l’arte è quella cosa che rende la vita più interessante dell’arte”), ma forse dovrebbero essere accostati. Perché ho l’impressione di trovarmi davanti a film che non affrontano mai direttamente quel che raccontano, preferendo girarci attorno. Usano le armi segrete della sceneggiatura per colpire lo spettatore, ma si tratta quasi sempre di scelte già viste e spesso manichee, proprio come gli entusiasmi scatenati dalla critica e da (un certo tipo di) pubblico, che a tratti mi ricorda solo una fan-base affamata di nuovi idoli, apparentemente più autentici o “autoriali”.

Volenti o nolenti, siamo sempre immersi nel mondo del post-moderno. E non ci sarebbe nulla di male se l’opera riflettesse in maniera critica sulla condizione di ritrovarsi soffocati all’interno di narrazioni preimpostate e storie già sentite, ma la montagna di pubblicità che ci sommerge ci ha abituati ad accontentarci, a generare in noi sentimenti opachi, e confondere la poesia con l’uso programmato di immagini poetiche, il che è molto diverso. Tornando ad Aftersun, e provando schematicamente a riassumere i temi principali del film, abbiamo in tavola:

– la relazione fra un bel papà e una brava figlia (con l’accento francese su belli e bravi);

– il racconto intelligente di un modello genitoriale “diverso” poco convenzionale (tengo a confessare che io stesso sono cresciuto solo con una madre come riferimento, e per questo il mio modello di “normalità” è proprio quello di un’educazione anti-convenzionale);

– il fascino di una location “esotica” (la Turchia), desaturata dall’intervento architettonico (postmoderno) di aeroporti e villaggi turistici, cioè non-luoghi;

– gli anni ’90 che, come in ogni ambito artistico (e quindi culturale), sono tornati a bomba dopo che ad esserci propinati fino allo sfinimento erano gli ’80 (anche se ci stiamo già ripiegando nella proposta del filone Duemila. Paola e Chiara a Sanremo sono l’esempio più pop e decifrabile di questa tendenza dozzinale). Perciò, scegliere i ’90 come gli anni in cui ambientare il film dona allo spettatore medio –ventenne/trentenne – quel sentimento nostalgico e conciliante dell’infanzia perduta, che non a caso Mubi sottopone all’utente social come richiamo accattivante nella promozione del film);

– una latente e fortunatamente mai strillata sofferenza, soffocata nell’accettarsi omossessuali in un mondo prevalentemente etero e razzista. Anche se questo tener nascosta la questione a me puzza più come scelta calcolata: quella spesso elogiata maniera “giusta” di raccontare il mondo delle pulsioni umane, sapendo di attraversare un solco già lungamente tracciato e che oggi si divide in due grandi filoni: o una cosa la racconto portandola all’estremo (vedi Titane, Bones and All…), o bisbigliandola, pensando che questo la renda automaticamente più “poetica”;

– una colonna sonora struggente che alterna pezzi di Bowie, Queen e Blur a sonorità “oniriche” e “sognanti” (provate a scrivere questi due aggettivi su un sito di ricerca per acquistare composizioni non coperte dai diritti e sentite cosa offrono: per chi non lo sapesse, metà delle pubblicità son fatte così);

– il flashback come strumento cinematografico prediletto, per riportarci in quello che, a quanto pare, sembra sia l’unico e inderogabile luogo prescritto per mettere in scena la morte e l’amore nell’era contemporanea, ovvero la discoteca (con tanto di luci strobo e musica diegetica martellante, o, nell’alternativa più “autoriale”, il totale silenzio fra le immagini abbaglianti);

– l’uso di materiale video a bassa definizione (in netto contrasto coi nostri sentimenti tridimensionali), in cui si cerca di sviscerare l’anima segreta racchiusa nelle immagini domestiche. Tematica che, negli ultimi anni, ha prodotto centinaia di film, di mostre, di saggi e di festival nel nome di una ritrovata libertà, più agevole in quanto familiare, ottenuta da un mezzo ancor più maneggevole che è la videocamera digitale;

– per concludere, il fantasma della morte che trascina lo spettatore nell’oblio dell’unica certezza, quella della fine e della ferita dovuta alla scomparsa (per chi resta). Un colpo di pennello che rimette in discussione tutta la visione appena conclusa, lasciandoci in quello stato di sospensione che per molti è fonte di riflessioni profonde, per me di poca chiarezza generale.

Non ha senso in queste pagine dilungarsi sul piano tecnico col quale Aftersun è girato, e mi perdonerete se mi limito a dire che la regia non brilla di originalità. Non ci sono scelte drastiche ma non c’è nemmeno la scelta di una regia invisibile, che valorizzi le necessità narrative del film. In questo caso siamo di fronte a un ibrido. Mi permetto di fare una cosa un po’ da nerd e prendere come esempio un’inquadratura che penso possa essere un buon esempio per chi ha già visto il film e se la ricorda: si tratta dell’immagine di una pozza d’acqua torbida, dove papà e figlia hanno appena fatto l’esperienza dei fanghi nel loro giro turistico. Pochi secondi di un’immagine piatta, dove un ricciolo di terra si sfalda sul filo dell’acqua grigia. Cambio di scena. Inquadratura di raccordo. Non ci troviamo davanti a una scelta ragionata, già stabilita in fase di scrittura, ma non è nemmeno un’immagine rapita dalla realtà che, per una ragione più profonda dettata dallo spirito che accompagna l’intero processo artistico, un documentarista saprebbe immortalare durante le riprese. Ci troviamo esattamente a metà. Se la guardo con gli occhi del filmmaker, sono certo che Charlotte Wells abbia avuto un approccio da documentarista nel raccogliere questa visione imprevista. Solo che poi ha scelto di proporla perché è una buona immagine di raccordo. O meglio: perché lo spettatore è abituato a questo tipo di immagine come è abituato a pensare che quella sia un’immagine “poetica”.

Quando vedo quella pozzanghera so già che cosa vedrò dopo, che suoni ci saranno e quale sarà il ritmo del film. E forse è colpa di tutto quel che abbiamo visto e studiato, delle scuole di cinema che oggi ci insegnano come girare in maniera “autoriale”, dell’esserci abituati a ragionare per compartimenti stagni sul mondo che ci circonda, a sentirci i figli diretti di generi e categorie nel quale abbiamo bisogno di ritrovarci per non sentirci persi, di Mubi che tanto ammiro ma che allo stesso tempo è una piattaforma proprio come Netflix e Amazon, solo più raffinata (il fatto che la connessione sia più lenta me la fa immaginare un po’ come la biblioteca pubblica dello streaming). Tutti parlano bene di questo film, e non riesco a non pensare che sia perché c’è poco altro da vedere, perché è nell’interesse di Mubi distribuire film così, legati a questioni apparentemente necessarie, ma soprattutto trendy. Non basta. Ora userò una parola che in critica non si usa mai, ma ho già chiesto troppe volte scusa e quindi ci sta: Aftersun non è un film brutto. È un film come un altro. Mi auguro solo qualcosa di meglio, per tutti. [Davide Perego]