Verso il finale di Babylon compare un’inquadratura particolare e non giustificata, in apparente contraddizione con l’esplosione di superficiale visibilità su cui tutto il film ha insistito. È lo spiraglio che si apre attraverso una porta socchiusa, tramite cui si intravede qualcosa (il destino del personaggio di Jack Conrad, interpretato da Brad Pitt), che altrimenti sarebbe occluso alla visione. Questa stessa inquadratura dello spiraglio era l’invenzione formale con cui Scorsese illustrava il senso del suo progetto di revisionismo del genere gangster e della storia americana in The Irishman – facendola tornare più volte e trasformandola dalla soggettiva della figlia di Frank Sheeran alla prospettiva dello spettatore sulla fine dell’epica criminale. Per Scorsese quell’inquadratura rendeva visibile un punto della Storia impossibile da vedere, responsabilizzando in senso storico lo spettatore e così ribaltando gli assunti anestetici e astorici della piattaforma per cui era stata pensata: all’interno di Netflix, il regista piegava lo stile che la piattaforma aveva comprato come una griffe, per storicizzare di straforo uno sguardo algoritmico e inventare così un profilo spettatoriale cosciente all’interno di un meccanismo pensato per il livellamento e la formattazione del gusto. 

Per Chazelle quella stessa inquadratura che permette di entrare di taglio nella Storia, è invece un vezzo, un arabesco, un modo come un altro per fare scena, come tutto lo stile che la precede e quello che segue: è l’ennesimo segno del fallimento della sovraccarica ipertrofia della forma che imperversa in Babylon. Ma in effetti, quanta coscienza c’è nello stile che questo film rivendica come forma d’autore? E quanta cattiva coscienza? Lo stile fine a se stesso di Chazelle non segue la strategia del “tempo morto” del Tarantino di C’era una volta… a Hollywood, per capirci, quel tempo antinarrativo capace di ristrutturare l’esperienza percettiva dello spettatore tramite un’intensificazione sensoriale, orientata da una filosofia della storia che vede nell’immagine filmica una realtà alternativa, un’ucronia dei sensi e del senso. E non segue neanche la minuzia della contraffazione delle immagini fintamente d’epoca di Mank (e Chazelle a tratti riprende anche lo sfavillio e il bruciacchiato della pellicola…), con cui David Fincher faceva ancora il punto – sempre dentro a Netflix e alle sue strategie di mercificazione e di possesso degli immaginari – sulla post verità e sulla fine di qualsiasi possibilità di distinguere l’immagine vera da quella falsa.  

Cosa fanno allora le immagini di Babylon? Possiedono una qualche agentività, una qualche forma di azione, una pragmatica? Il film di Chazelle in fondo inganna, pur lasciando indizi tramite le sue ruberie sulla direzione delle proprie immagini: sta sotto mentite spoglie per tre ore e si rivela solo alla fine, mostrando di non essere quello spettacolo per i sensi in cui il mondo degradato degli anni d’oro della Hollywood del muto è messo in scena, tanto per il gusto di farlo o peggio ancora per rivelare di rimbalzo lo stato di irrigidimento creativo del cinema americano contemporaneo (che per il regista “non osa, non rischia, non sperimenta più nulla”). Negli ultimi minuti Babylon rilegge se stesso e si rivendica come una vera e propria teoria dello spettatore, che attraverso il personaggio di Manuel Manny Torres (classica figura-specchio che porta lo sguardo dentro a un mondo sconosciuto e lentamente fatto proprio) ri-abita una parte della Storia del cinema. In effetti, per tutto il film Manny non fa che guardare e osservare lo spettacolare disfacimento dei costumi e delle glorie di quel mondo in cui tanto vorrebbe essere qualcuno e che invece crolla sotto il suo peso. Cosa guarda Manny in particolare? Guarda gli ultimi secondi della luce mentre si fa immagine poco prima di scolorire via per sempre (come quando salva le riprese del folle regista Otto Von Strassberger, in realtà Spike Jonze, che ha bisogno del sole prima che questo scompaia dietro le montagne). Guarda cioè ciò che vivrà sulla propria pelle nel suo triste e prevedibile arco drammatico: il senso della perdita e del tempo che passa senza tornare e senza lasciare seconda occasione. Questo è ciò che Manny sa, come spettatore: il fallimento e la rovina, il rimpianto e l’assenza di alternativa. E cosa scopre invece? Quando, nel finale, torna dopo molti anni in sala e riguarda le immagini del cinema in una sala, nascosto al buio, prima crolla in un pianto irreparabile (la coscienza di ciò che ha perso), e poi ha una visione totale, in cui vede il futuro del cinema. Solo che è un futuro che non conosce, perché è il futuro del cinema dello spettatore che guarda il film Babylon, il futuro delle immagini contemporanee, da Cantando sotto la pioggia, passando per Godard e arrivando ad Avatar

È qui, in questo inatteso saggio visuale lanciato nel vuoto, che Chazelle rivela la natura ricattatoria della propria teoria spettatoriale, mostrando che per lui lo spettatore non è, come per tutti gli altri registi citati sopra, un profilo da inventare, uno sguardo da costruire, ma è una vittima da compatire e soprattutto strumentalizzare. Chiaro e tondo, nell’equazione del regista, il prezzo da pagare per il futuro del cinema, che nessun altro spettatore se non Manny (consapevole di cosa è stata l’esperienza degli anni ‘20) possiede in visione, è la coscienza della perdita. Potrebbe sembrare qualcosa di simile alla linea teorica che percorreva l’ultimo West Side Story di Spielberg, teoria della Storia del cinema come percorso museale da riabitare, ma non potrebbe essere in realtà più diverso: dove Spielberg faceva coincidere lo sguardo dello spettatore con una macchina da presa capace di rivitalizzare le rovine del cinema attraverso la forza di una credenza impossibile (certo, frustrata, ma ancora virtualmente da rilanciare), Chazelle nega qualsiasi forma di riscatto alle rovinose spoglie che pone di fronte allo sguardo e a cui dona un preciso senso escatologico, escrementizio. Per lui il fulgore degli anni ‘20 è una materia che sta in sacrificio per il futuro, non l’occasione per una ristrutturazione dello sguardo che oggi è sempre più appiattito sul presente e non avendo prospettiva storica non sa mettere ordine tra le immagini.  

Ecco che allora Babylon è ben lontano da uno spettacolo che non funziona perché non ha un pubblico, come spesso si dice in sede di analisi dei fallimenti al botteghino, ma è uno spettacolo che non funziona perché non inventa nessuno spettatore: pare uno di quegli elefanti bianchi menzionati in apertura da Kenneth Anger in Hollywood Babilonia (il saggio da cui Chazelle ruba tutto, finanche il senso del suo montaggio), non per dire di una rara eccezione ma di uno spreco inutile e senza ritorno economico (l’espressione italiana corrispondente sarebbe “cattedrale nel deserto”).  Per un’autentica esperienza di cinema come ristrutturazione della coscienza storica, una coscienza che si apre al futuro, approfittando degli anni ‘20 come piattaforma privilegiata per ragionare sulla perdita della luce e quindi sulla responsabilità archeologica dello sguardo, più che assistere a Babylon occorre tornare proprio al montaggio grafico prodotto da Anger in quel suo saggio, dove suggestionava il lettore alternando il racconto letterario mitologico – usando la parola come massima superficie opaca, intoccabile e quindi catalizzatrice del mito intoccabile – all’uso di crude e ravvicinate istantanee fotografiche (anticinematiche, immobili e quindi senza più vita), capaci di investirlo della realtà dei corpi morenti di quegli anni. In uno shock sensoriale che riconosceva nel voyeurismo nel lettore adorante e desideroso di sporco gossip un occhio da riconfigurare rivelandogli il proprio peccato.