“Si dice: puttane da giovani, bigotte da vecchie. Non è il mio caso. Sono diventata una puttana in giovanissima età, ho conosciuto tutto quello che una donna può conoscere solo a letto, sopra i tavoli, le sedie, panche, contro i muri spogli, nell’erba, in caserma, in treno, in prigione, ma non mi pento di nulla. Oggi sono avanti negli anni, i piaceri che il mio sesso può offrire stanno svanendo, sono ricca, sfiorita, spesso molto sola. Sono sempre stata devota e credente, ma ora non mi curo di far penitenza. Io, che sono nata tra gli stenti e la miseria, io devo tutto al mio corpo”.

Immaginate queste parole lette ad alta voce da un gruppo di uomini dai 16 ai 99 anni. E, mentre leggono, immaginate che vengano ripresi pensando di far parte del casting di un film. Questo è il concept di base del film di Ruth Beckermann, Mutzenbacher, che trasforma il pretesto in contenuto. Vincitore della sezione Encounters alla Berlinale 2022, Mutzenbacher parte dalla storia di Josephine Mutzenbacher, protagonista del romanzo Josefine Mutzenbacher ovvero la storia di una prostituta viennese da lei stessa narrata, pubblicato nel 1906 e attribuito allo scrittore Felix Salten (nonostante la paternità dell’opera resta ancora oggi dubbia). Strutturato come memoir, il romanzo prende le fattezze di un diario dei ricordi erotici di Josephine, dal primo approccio con l’altro sesso a soli cinque anni fino al trasferimento in città e alla consacrazione della sua professione di prostituta, a 12 anni.

Come si approcciano quindi un gruppo di uomini ad un testo pornografico scritto (apparentemente) dal punto di vista di una donna? Il testo scatena una reazione volontaria capace di far emergere tutto quello che riguarda il discorso pubblico della mascolinità. Alcuni si mettono in dubbio, ammettono i fantasmi di possibili colpe, altri reagiscono in modo del tutto naturale a qualcosa che, invece, è oggettivamente violento. Come previsto dal dispositivo documentaristico, la regista interviene con misura per incoraggiare il discorso, per continuare a voce lo stream of consciousness che si legge nascere nelle reazioni degli attori/personaggi. Beckermann mantiene una distanza seidleiana, la freddezza di una donna consapevole di star invertendo i ruoli previsti negli ambienti sociali, incluso quello della produzione cinematografica. Ed è proprio lì che Mutzenbacher convince maggiormente: in questa distanza con il proprio soggetto che diventa oggettività del discorso; da quella capacità di guardarsi dall’esterno (perché venire ripresi è come avere un terzo occhio che ci guarda) e innescare così l’autoriflessione.

Se trasporre un libro in immagini snatura in qualche modo l’opera, perché prevede il filtro della finzione e della riproduzione di azioni, allora Beckermann non traduce la letteratura (che resta nella sua forma) ma prova a catturare un’immagine nuova, fulminea e spontanea. L’immagine che parla, quindi, non è traduzione del testo, ma evento creato ad hoc, scatenato dall’imprevedibilità, che ha molto più che a fare con il cinema documentario che con la letteratura. Se il dispositivo funziona nella sua dimensione di indagatore sentimentale, allora raccontare significa rivelare anche l’inconscio di chi guarda, scendendo nello scabroso, smascherando desideri e ipocrisie del pensiero perbenista: “Io guardo il culo alle ragazze e scatta una scintilla, che poi sparisce se capisco che sono minorenni”.

Si viaggia su un terreno stretto e scosceso, ogni parola potrebbe far scivolare nel baratro del politicamente (s)corretto, e la regista, con postura glaciale, misura un altro punto di vista, ne prende l’impronta e ne fa modello per costruire il suo discorso personale, senza mai scadere nel giudizio. Chiusi dentro un gioco triangolare di seduzione reciproca (gli attori vogliono essere ingaggiati nel film e la regista necessita la loro performance), la macchina da presa si pone come testimone invisibile delle confessioni dei protagonisti e il film diventa un riassunto del pensiero maschile sull’odierna libertà sessuale.

Come un’esecutrice Beckermann costruisce la messa in scena: organizza gruppi di uomini come gruppi di soldati, propone un reenactment delle vicende, inchioda gli attori al loro divano, evidenziando sempre la presenza del dispositivo (il microfono in campo, il set di luci, i momenti di imbarazzo e la ripetizione collettiva, a tratti ridicolizzante, di alcune battute del romanzo). Non c’è scampo dall’immagine, tutti sono costretti ad ascoltare e non c’è niente di meglio di un film che costringe: all’attenzione, alla riflessione, a sbattere contro la realtà delle cose.