Partendo da un personalissimo trascorso autobiografico, il documentario di Duccio Chiarini è una ricognizione sulla dolorosa parabola novecentesca italiana, sondata tra pubblico e privato, che riavvolge il nastro del passato individuando nella figura perduta del bisnonno del regista, reduce della prima guerra mondiale e poi fedelissimo esponente del partito fascista, il personaggio chiave per costruire un mosaico problematico su un secolo contraddittorio e a tutti gli effetti irrisolto, non solo per la famiglia dell’autore, ma per un paese intero.

Presentato al Festival dei Popoli del 2020, dove ha vinto il Concorso italiano, L’occhio di vetro – titolo/metafora che rimanda al personaggio e al contempo alla miopia storica che fece scivolare buona parte della nazione nelle lusinghe impossibili del ventennio, presto smascherate dalla tragedia della seconda guerra mondiale – non si affida semplicemente al ricco materiale d’archivio ufficiale a sua disposizione, ma lo aggancia alle testimonianze private della famiglia del regista, in particolare alla lettura dei diari del prozio Ferruccio, per intervallarlo a momenti di cinema in prima persona che ritraggono Chiarini accanto ai suoi genitori, già protagonisti del precedente Hit the Road, Nonna, mentre viaggia dalla natia Toscana ai luoghi della Repubblica di Salò, in cerca di prove, testimonianze, riscontri.

Il risultato è un film di disarmante sincerità – cifra strutturale nel cinema del regista, sempre sospeso tra le domande del presente e le mancate risposte del passato – dove il silenzio che circonda il “ramo” fascista della sua famiglia continua a ripresentarsi nel tempo come un inquietante, assordante rumore di fondo. L’indagine risponde al desiderio di ovviare a una rimozione ben più che soltanto privata, ma si accompagna alla consapevolezza che il fascismo è stato un clamoroso errore con cui il nostro DNA di italiani ancora oggi deve fare i conti, mettendo in gioco se necessario anche la pena verso la follia in cui tanti uomini e donne, per orgoglio o inettitudine, non si accorsero di essere complici.

In questo atto di sconfessione pietosa, a tratti commossa, del proprio passato familiare, Chiarini ribadisce il suo apparente disimpegno formale, dietro cui però si celano scelte coerentissime e identificative della sua poetica: i perfetti tempi comici dei tanti momenti di confronto con i suoi genitori, la malinconia priva di retorica con cui sintetizza in quadri elementari e sguardi bambineschi la propria percezione del mondo, la natura frustrata di una ricerca che giocoforza dialoga con le grandi ambivalenze dei sentimenti. E nella sequenza in cui legge i diari del prozio tra le sale di un albergo di Maderno sul Lago di Garda, rifugio e centro di comando della Repubblica Sociale Italiana, Chiarini ricrea per pochi istanti il suo personalissimo Shining, dove il cinema si riconnette ai fantasmi maledetti e tuttavia umani della nostra Italia.