“Il potere è dappertutto, non perché inglobi tutto ma perché viene da ogni dove”
Michel Foucault, La volontà di sapere

Il primo e l’ultimo sguardo su Yuri è attraverso una gabbia. Il destino già scritto del protagonista di Patagonia, film d’esordio di Simone Bozzelli, sembra essere l’immobilismo della provincia, tra germi di desideri inesprimibili e un’esistenza di biasimo ed iper-protettività da parte delle tre zie. “Certo che sono adulta, ma mia madre ancora non lo sa” diceva Martha nel film omonimo di Rainer Werner Fassbinder, una delle dichiarate influenze del regista. Yuri, allo stesso modo, a vent’anni vive immerso in una tutela asfissiante, fa festa assieme ai bambini e guarda la punta raggrinzita delle dita per convincersi che è ora di uscire dalla vasca da bagno. Agostino arriva a bordo di un camper e sparirà nel giro di una notte: per Yuri è l’incarnazione della libertà tanto anelata. Seguirlo non è una scelta – fino alla fine, Yuri non sceglierà mai – quanto piuttosto quello che sembra il proseguimento naturale del loro incontro.

La prima, sottile, umiliazione pubblica stabilisce le regole di un rapporto fatto di premi e punizioni, elargiti da Agostino con la stessa funzione addomesticante che riserva ai bambini. In una traduzione nel privato del binomio potere-sapere foucaultiano, Agostino esercita il suo dominio su Yuri soprattutto attraverso la conoscenza del mondo (e del sesso), gli parla di libertà e gli promette la Patagonia, mentre Yuri cerca voracemente il suo sguardo e la sua approvazione. Sulla base di questa disparità di forze si sviluppa un legame di co-dipendenza nel quale si avvicendano coercizioni e bisogni viscerali, come la sete di Yuri, che resta inappagata quando si scontra con l’inaudita violenza del silenzio di Agostino. Erotismo e dolore, metaforizzati dall’ago freddo che buca il capezzolo di Yuri prima di infilare il piercing.

Il mondo in cui Agostino lo introduce è la materializzazione di ogni sua espressa convinzione: una comunità nomade e anarchica, che abita tende e camper nella periferia desertica, zona interstiziale libera dall’iper-produttività e iper-organizzazione metropolitana. La figura di Agostino all’interno di questa forma alternativa di collettività si scontra con la sua individualità in relazione a Yuri, svelandone le contraddizioni. Possessività ed egoismo, contrapposti alla sua voglia di libertà, ne evidenziano i limiti ontologici e sono conseguenza di un ideale consumistico oramai talmente profondo da penetrare persino nella sfera relazionale, macerando i sentimenti. È per questo, quindi, che solo al di là di questa ennesima costruzione ha luogo l’unico dialogo realmente intimo tra i protagonisti, in uno spazio completamente deumanizzato e selvatico, sulla riva di un lago. La macchina da presa, contrariamente al linguaggio di piani stretti e soffocanti codificato fino a quel momento, resta distante, nascondendo espressioni e sorrisi per dare spazio al vuoto circostante.

Nell’ultimo periodo della sua vita, Fassbinder disse: “Non è facile accettare che soffrire può anche essere bellissimo, è qualcosa che si può capire solo scavando in profondità dentro se stessi”. La consapevolezza muove gli ultimi gesti di Yuri: un incendio, una lotta e la stasi. Nel finale si torna alla gabbia, con un gesto che è emblema dell’ambiguità che attraversa tutto il film e forse rappresentazione di una delle ultime considerazioni di Fassbinder: un abbraccio che può essere un addio, oppure l’aggrapparsi l’un l’altro ancora più forte di prima.