Il sole è oscurato gradualmente dalle nuvole. Una sottrazione funesta a cui si contrappongono il rumore del vento e un tetro suono extradiegetico. La luce che si spegne a favore di un’oscurità imminente sempre più forte e rumorosa. Poi lo squillo di un cellulare ci risveglia. È così che si apre Manifesto. Ma è stato davvero solo un incubo o abbiamo appena assistito al metaforico presagio di una tragedia?

Facendo ricorso al found footage, il film si sviluppa in un collage di video temporalmente sconnessi che, tramite il montaggio, si parlano, creando un turbine di situazioni in cui degli alunni delle scuole primarie subiscono ingiustizie, prese di potere e intimidazioni nei propri confronti. I loro cellulari registrano continue imposizioni da parte degli adulti-dittatori che, con violenza, tramandano i propri ideali. L’unico mezzo di difesa che questi ragazzi hanno è lo smartphone, che diviene vero e proprio scudo fra loro e la realtà. Un luogo sicuro in cui provare a riscoprirsi individui – e al contempo – collettività. I bambini si specchiano nei propri racconti di vita quotidiana, restituendo allo spettatore l’unica dimensione spensierata del film. «La primavera è la mia stagione preferita» dirà un alunno mentre si dirige a scuola. Ognuno con la propria storia ci donano l’illusione che prima o poi la bella stagione arriverà davvero. Speranza che verrà ben presto negata e che porterà il cellulare a divenire il tramite attraverso il quale riunirsi per contrastare il potere tossico. Nonché uno strumento di denuncia. Eppure, anche questa ennesima funzione servirà a ben poco. Manifesto, nonostante le tante vite rappresentate, non mostrerà nemmeno un esempio di liberazione dall’oppressione sociale e politica. L’intera collettività è condannata a perseguire il medesimo amaro destino.

In questa visione ultra pessimistica del presente (e futuro?) della nuova generazione russa, i titoli di coda ci rendono consapevoli – ancora una volta – che lo schermo cinematografico è il posto ideale dove far parlare le immagini. Raggruppati nel marasma dell’Internet, questi video rimarrebbero solo un puntino invisibile agli occhi del mondo. E, anche venissero visti, i singoli materiali non restituiranno mai la potenza e la profondità che Manifesto possiede nel descrivere la situazione. Tuttavia, vien da chiedersi in che modo gli autori del film abbiano agito per l’utilizzo di questi materiali. Come è stata garantita la sicurezza di questi ragazzi? In che modo si costruisce il corrispettivo della tutela concessa, per esempio, al/alla regista? Di fatto Angie Vinchito è in realtà un nome inventato, creato appositamente per evitare le potenziali persecuzioni rappresentate nel film.

Vincitore del Premio Miglior Lungometraggio all’ultimo FrontDoc, Manifesto conclude la propria dichiarazione pubblica allo stesso modo di come l’ha cominciata, riportandoci a quel cielo iniziale a cui ora possiamo dare senso. Tanto è l’abuso e tanto è il dolore che, in un segno di resa, il film si posiziona in un loop che sà tanto di martirio perenne. Un cortocircuito da brividi che finisce per essere sia un grido di rabbia che una chiamata di emergenza. Un appello che si auspica di venire intercettato da uno sguardo rivolto verso il cielo (verso lo schermo), e che incroci le inquietanti nuvole della prima inquadratura.

“Chiamata in corso…”.