Oltre un secolo dopo la sua nascita, la pellicola è sempre più percepita come uno strumento archeologico: eppure, come possiamo vedere dai film di Gaëlle Rouard, sembra tuttora pregna d’infinite e inesplorate possibilità. Intervistiamo la filmmaker e artista proprio a partire da questo tema, in occasione della sua partecipazione all’ultima edizione di Filmmaker Festival.

Davide Palella: Credi che questo mezzo abbia ancora qualcosa di nuovo da dire al mondo contemporaneo?

Gaëlle Rouard: Non so se sono in grado di rispondere a questa domanda, però posso dirti che mi relaziono a ciò che faccio con la costante speranza che ci sia sempre qualcosa da scoprire. Non inizio mai a lavorare avendo in mente qualcosa di preciso da dire, non credo di avere alcun messaggio da veicolare. L’unica cosa che desidero è che lo spettatore raggiunga uno stato d’ipnosi. Mi piace che il pubblico dimentichi di star vedendo un film, e che anzi si addentri in un viaggio meditativo. Ipnotizzare, credo sia la parola chiave per descrivere ciò che faccio.

DP: In Francia la scena sperimentale ha sempre prosperato anche supportata dall’esistenza di laboratori come L’abominable o organizzazioni come Light Cone. In Italia, d’altro canto, dopo la scomparsa dell’avanguardia degli anni 60/70 rappresentata da artisti come Alberto Grifi e Paolo Gioli, il formato ridotto sembra essere stato in buona parte dismesso. Da cosa è stata data secondo te questa differenza?

GR: Una delle ragioni potrebbe essere che la Francia è sempre stata più ricca dell’Italia. Ne consegue che i filmmaker hanno potuto trovare e comprare la pellicola con molta più facilità. Potrebbe anche essere stata una predisposizione francese a sperimentare diverse vie quando l’Italia è sempre stata propensa a un unico modus operandi. L’ultima spiegazione che mi viene in mente potrebbe essere lo stretto legame con una più attiva scena di sperimentazione musicale.

DP: È innegabile che, nell’uso della pellicola, un certo grado di casualità e performatività sia giudicata in maniera positiva. Del resto, il termine “sperimentale”, non è accostato a queste pratiche a caso. Al contrario, nella tua ricerca, come tu stessa hai detto, eserciti di proposito un controllo meticoloso del processo e del risultato che ti prefiggi di ottenere. Per te è sempre stato così oppure il tuo metodo si è evoluto nel corso degli anni?

GR: In effetti è qualcosa di nuovo per me. Quando iniziai ormai 40 anni fa non facevo altro che improvvisare, tanto in camera oscura quanto durante le proiezioni dei miei film. Ero solita lavorare con altri filmmaker, intendendo il film e il suo farsi più come un’esperienza performativa. L’imprevisto e gli incidenti erano parte integrante del lavoro in camera oscura, ma adesso preferisco essere in controllo ed essere in controllo ti permette di modulare il ritmo della visione. Non posso però dire che sarà per sempre così.

Ilaria Scarcella: C’è dunque un altissimo livello di consapevolezza tecnica che ti permette di ottenere esattamente le immagini di cui sei alla ricerca. Eppure il montaggio dei tuoi film sembra dominato dall’intuito più che dalla ragione. Pensi mai a qualche forma di racconto durante la fase di editing?

GR: È proprio così, i miei film sono più intuitivi che narrativi. Non nego che dentro di me ci sia una componente narrativa ma è come qualcosa di astratto, e anche molto intimo. Non presto molta attenzione alla narrazione, cerco piuttosto di creare una tensione. Ecco, la tensione è la miglior forma di narrazione che ci sia.

IS: Attribuiresti mai una dimensione politica al tuo approccio al filmmaking?

GR: Non credo ci sia qualcosa di politico. La ragione per cui ho sempre perseguito questo metodo è data dal fatto che i miei occhi possono lavorare soltanto in camera oscura. Lo spazio della camera oscura permette l’accesso al campo dell’intuizione. Se dovessi usare una camera digitale non saprei da dove partire, non avrei alcuna intuitività perché mi limiterei soltanto ad attenermi al metodo d’uso corretto di tale strumento. È grazie alla matericità della pellicola che riesco a sentirmi ispirata.

IS: Quanto tempo hai impiegato a realizzare Darkness, Darkness Burning Bright (2022)?

GR: Quattro anni. Ho fatto veramente tanti test perché era difficile controllare il suono.

IS: A tal proposito in Unter (2011) mi pare che il suono, ancor più dell’immagine, sia l’elemento centrale e veicoli il senso del film.

GR: È un film subacqueo dunque il mio istinto è stato lavorare con i suoni emessi dal sottomarino protagonista del lavoro. In questo caso è stata la componente sonora a spingermi a realizzare il film.

IS: I festival dopo quanto sono arrivati nel tuo percorso? So anche che tieni molti workshop in giro per il mondo, come vivi questi appuntamenti?

GR: I festival sono importanti per mostrare i miei lavori ma non sono questi eventi a motivarmi. Mi piace molto svolgere i workshop soprattutto perché adoro viaggiare, incontrare nuove persone e imparare insegnando ai partecipanti come giocare assieme in camera oscura. La cosa più importante di ciò che faccio è la condivisione di un’esperienza, in sala e fuori da essa.