Presentato e premiato a Cannes 2023 nella sezione Un certain regard, e ora in distribuzione per Teodora e MUBI, How to Have Sex è il brillante debutto alla regia di Molly Manning Walker e una sottile storia di formazione. All’indomani degli esami scolastici tre sedicenni britanniche Tara (Mia Mckenna Bruce), Em (Enva Lewis) e Skye (Lara Peake), decidono di partire per Mali, una cittadina sull’isola di Creta, imbarcandosi in quella che dovrebbe essere “la migliore vacanza mai avuta”. Tutto comincia al meglio: l’isola è un paradiso pieno di vita, fiumi di alcol e giovani ragazzi, come i vicini di stanza Paddy (Shaun Bottomley) e Badger (Shaun Thomas), con il quale l’allegra Tara – unica tra le tre a non aver ancora perso la verginità – entra immediatamente in sintonia. Ma le amiche la spingono verso Paddy, visto come il ragazzo perfetto, così quando questi la convince ad appartarsi in spiaggia l’invito si configura come la soluzione all’onta della verginità. Il mattino dopo la ragazza fa ritorno all’appartamento lungo strade desolate e affronta le domande delle altre, desiderose di un resoconto dettagliato dell’accaduto, ma Tara non sa cosa dire. In questo frangente rinveniamo uno snodo centrale del film: la protagonista ha imparato cosa dovrebbe volere dalle coetanee che, come lei, non possiedono il giusto vocabolario ma nemmeno la consapevolezza necessaria per parlare di sesso e di desiderio. Si trova quindi in una condizione di incomunicabilità che la spinge a chiudersi (e nel suo silenzio emerge un grande lavoro sul sonoro come dimensione ovattata, riflesso dell’interiorità sofferta della protagonista). Come si può parlare di stupro in una cultura che vede il sesso come un traguardo da raggiungere?

Poco cinema ha saputo rendere in modo così lucido e sensibile la solitudine che si prova quando si è giovani, sprovvisti di parole per descrivere la violenza, se di violenza si può parlare quando si annida in zone grigie (come quando Paddy approfitta del sonno di Tara per avere un secondo rapporto con lei, nell’intimità e confidenza delle chiacchiere degli amici in sottofondo). In questo senso, How to Have Sex è un film sul diventare donne attraverso la sessualità, in un mondo dove sia il genere che il sesso sono diventati qualcosa di grottescamente legato alla performance (le ragazze che si vestono con abiti attillati cantando e bevendo prima di andare a ballare non possono, in luce della loro età, non ricordare bambine che indossano i vestiti delle madri per scherzo; così come sono performance anche i giochi sessuali a cui prendono parte collettivamente). Il tutto confezionato in una cinematografia che è sì dinamica, accesa di neon e colori, ma mai pop o estetizzante, anche grazie al lavoro del direttore della fotografia Nicolas Cannincioni che, non a caso, viene (così come la stessa Walker) dall’esperienza del documentario – e le riprese hanno in effetti qualcosa di estremamente realistico. Il realismo che affiora è dovuto anche all’accurata ricerca svolta prima del set: la regista ha passato un intera stagione a Mali raccogliendo materiale per il film, tra cui brandelli di conversazioni, unito al bagaglio personale di esperienze sue e di sue ex compagne di college: questo consente anche una rappresentazione tridimensionale dei giovani, che spesso sono vittime di stereotipi e approssimazioni, al cinema come in televisione.

Puntuale è anche la volontà di non rappresentare ragazze e ragazzi in una dicotomia vittima-carnefice: si tratta piuttosto di un problema culturale che riguarda e ferisce anche gli uomini, perché nemmeno loro sono pronti ad affrontarlo, privi di educazione in tal senso. Certo, Paddy è un ragazzo difficile, lo confida Badger in uno degli ultimi scambi con Tara, ma si conoscono da tanti anni, è un suo amico, cosa potrebbe dirgli? La risposta è semplice e pare più che mai urgente: bisognerebbe parlare; parlare per arginare la violenza, anche nelle sue dimensioni più sottilmente diffuse e accettate; parlare per liberare le vittime dal loro senso di colpa e di inadeguatezza; parlare perché ora più che mai, negli anni del “post-me-too”, la responsabilità di agire sulla società che ci circonda deve essere ragione condivisa. Educare per creare un vocabolario che ci permetta di parlare, ancora e meglio, di sesso e violenza, al di là di qualunque facile manicheismo o istanza accusatoria.