Sis dies corrents, come l’acqua corrente ma anche i sei giorni di fila in cui l’idraulico marocchino Moha dovrà convincere il suo principale, un diffidente catalano di mezz’età, ad assumerlo nella piccola impresa di tuttofare al posto del vecchio socio, signore simpatico e riottoso ormai vicino alla pensione. L’improbabile trio percorrerà le strade di Barcellona aggiustando cavi e tubature di una clientela composita e bizzarra, inventario umano protagonista di pittoreschi inconvenienti su cui la regista catalana Neus Ballùs (a Locarno 74 nel Concorso internazionale) getta uno sguardo, tra le variazioni edilizie e immobiliari della città.

In vecchi bilocali, condomini a ringhiera e costosissime ville ultratecnologiche, Ballùs racconta i guizzi di intimità – gratuita e spesso non richiesta – con cui la clientela tende a travolgere la squadra dei tuttofare. Uno stravagante centenario vuole confidare a Moha il segreto per la longevità, una giovane coppia litiga senza interessarsi degli spettatori, una fotografa disinibita sequestra il nostro protagonista per un buffissimo shooting erotico. I micro-conflitti lavorativi coprono di umorismo quella che è la realtà una storia di difficile integrazione e pregiudizi, che culmina con un tragicomico litigio durante un’inaspettata seduta di terapia di coppia. Malgrado la complessità dei personaggi non si rinuncia alla leggerezza.

La ragione di questo grado di credibilità va rintracciato nel contesto in cui Ballùs, che ha una formazione da documentarista, ha lavorato: Sis dies corrents ha avuto una gestazione di sei anni, la storia è innestata sui tre idraulici che interpretano se stessi, e il set diventa un laboratorio, scenario di una lunga ricerca che rispetto a un copione granitico preferisce le reazioni istintive dei non attori. La riuscita dell’esperimento ha a che fare con la fiducia di Ballùs nei confronti del lungo lavoro con i tre protagonisti e con il suo interesse, ormai allenato, a contaminare realtà e finzione.

Con questa contaminazione la regista riesce per prodigio a creare con grazia situazioni di una comicità spontanea e intelligente, senza cedere a una riduzione macchiettistica. Lo sguardo di Ballùs è quello di una regista filantropa e rispettosa che raccoglie un materiale autentico grazie a uno sguardo attento e indulgente, anche al resto del mondo: tantissime le riprese sugli edifici e quindi su una quotidianità catalana che si consuma sui balconi, in un’attenzione che tende, piuttosto che al voyeurismo, a un ironico ottimismo verso il prossimo. [Rebecca Ricci]


Disperata speranza

gerda

La differenza tra la metafisica di stampo greco platonica (o neoplatonica) e quella di ascendenza giudaico cristiana consiste nel peso qualitativo assegnato alla materia. Mentre nel primo caso, semplificando molto, la materia è considerata l’elemento negativo, il ricettacolo oscuro delle forme, un luogo senza luce che è principio caotico difficilmente redimibile, nel secondo caso la materia è ciò che rende disponibile la rivelazione della luce divina: non è quindi la piega che adombra una verità superiore esistente altrove ma è la possibilità che questa verità riposi per essere svegliata. In Gerda, presentato nel Concorso internazionale di Locarno 74, a essere presentata alla protagonista è solo la prima opzione di queste due versioni: Lera è una studentessa di sociologia che sembra molto colpita dalla dottrina platonica delle idee e dell’anima; le sembra di riconoscere nella distinzione che il filosofo greco fa tra la materia e gli esseri ideali che vivono oltre il mondo sensibile una teoria che regola anche la sua esistenza. È convinta che ci debba per forza essere qualcosa di più del degrado della sua vita quotidiana.

Questo presupposto metafisico – che nel tempo è stato accettato dal misticismo ortodosso come la via maestra per l’incontro con il divino (che si realizza in un distacco molto marcato dalla materia e dai desideri del corpo) – sembra essere per Natalya Kudryashova, regista del film, un codice regolativo non solo drammaturgico, ma anche formale: mentre l’implacabile descrizione del degrado del mondo di Lera accentua una irrimediabile spaccatura tra il mondo materiale e un ipotetico mondo ideale, il film non solo incorpora nel corso degli eventi misteriose scene da un altro spazio dell’esistenza, suggerendo esplicitamente l’esistenza di due livelli di realtà, ma interviene anche  digitalmente sull’immagine, quasi a voler argomentare implicitamente di un difetto irrimediabile di quest’ultima. Argomenta così per continue sottolineature sia drammaturgiche – insistendo sull’irrisolvibilità della condizione sociale e famigliare di Lera – sia formali – come quando l’immagine è costretta a muoversi secondo digitali effetti metafisici altri – la credenza in uno spazio al di là, oltre l’immagine.

La regista non potrebbe compiere questa operazione con il montaggio o con il piano sequenza perché in entrambi i casi le soluzioni direbbero della costitutiva presenza, nell’immagine cinematografica, di un ordinamento formale all’interno della materia, di un principio organizzativo non secondario al caos (non secondario nella misura in cui il cinema attraverso il montaggio o il piano sequenza ordina il caos mentre lo afferra): adottarle significherebbe seguire più il precetto metafisico della materia come traccia di luce, più che quello della materia come ricettacolo oscuro. È quasi inquietante la durezza con cui la regista argomenta con coerenza a sfavore di una possibilità di salvezza presente in questo mondo: ma questa durezza non è illegittima, se si considera il film anche come una testimonianza delle difficoltà esistenziali di una generazione. E non è poco commovente, se la si legge come ultima possibilità di una disperata speranza. [Leonardo Strano]


L’aureola non fa il santo

nebesa

Cos’è un miracolo? Un evento straordinario, operato da Dio o da una delle sue creature, secondo il dizionario Treccani. Per Stojan invece, comunista convinto, una sventura da cui bisogna liberarsi. Quando infatti la grazia di Dio calerà su di lui dotandolo di un’aureola fin troppo luminosa, lui e la moglie faranno di tutto per tornare alla normalità, anche se questo vorrà dire diventare i peggiori tra i peccatori. È con questo miracolo non richiesto che parte Nebesa, un viaggio di svariati anni attraverso un paese che affronta la transizione dal comunismo verso la religione, dalla fede nella politica a quella verso un Dio che, in quest’opera, sembra agire solo per complicare le cose, come un narratore che non può fare a meno di aggiungere conflitti a una storia già piena di ostacoli. Un film (presentato nel Concorso internazionale) estremamente denso e stratificato, forse troppo, che ha il pregio di saper essere completamente inaspettato e imprevedibile. Ogni volta infatti che lo spettatore crede di aver capito cosa succederà e che strada prenderanno le vicende, la storia svolta completamente e ricomincia da un altro punto di vista, da un nuovo capitolo, sempre legato alle vicende raccontate ma anche profondamente indipendente.

Diviso in tre parti, come fosse una pala d’altare, il film straripa di simbolismi, rimandi, tematiche: Srdjan Dragojevic, regista del film, affronta temi come la santità, la corruzione, la purezza dell’anima, il ruolo salvifico dell’arte o la negazione di questo stesso ruolo e, soprattutto, l’incidenza dei miracoli sulla vita delle persone. Quanto può impattare su una famiglia, su un popolo, un evento straordinario, soprattutto quando non richiesto e non compreso? Come può una persona utilizzare un dono che non vuole? Perché questo dono è stato concesso? E soprattutto, siamo sicuri che ciò che succede sia opera di Dio? È un’opera che si può facilmente aprire all’amore o all’odio da parte del pubblico, ma che in ogni caso pone delle domande e instilla riflessioni decisive. Il film riesce a mitigare la sovrabbondanza di tematiche grazie ad una regia eclettica, che utilizza elementi pop (difficile dimenticare Stojan che usa un cero come fosse una mazza da baseball) insieme a colori ed energie gitani, molto vicini a Kusturica, in una storia che passa senza difficoltà dalla commedia al dramma più nero.

La capacità di variare continuamente non è tuttavia limitata al lato formale dell’opera, ma anche ai suoi contenuti: lo sviluppo su un lungo arco temporale permette a ogni personaggio di passare dal ruolo di vittima a quello di carnefice e viceversa, senza che questo appaia mai forzato. I ruoli, i rapporti di potere, i miracoli stessi non sono fatti per durare e gli unici personaggi che sopravvivono a questa ruota della fortuna divina sono quelli che riescono ad adattarsi, a cambiare loro stessi o a fuggire quando il momento lo richiede. Tutti gli altri rimangono simulacri di un’epoca o di una parte della loro storia, che non esiste più. Emarginati o cadaveri. È difficile farsi un’idea su cosa il regista pensi o voglia comunicare dell’operato divino, ma come per ogni miracolo che si rispetti comprendere non è richiesto. È necessario abbandonarsi a questo viaggio, abbandonare le convenzioni e osservare una delle storie più vecchie del mondo: cosa fanno le persone quando il mondo smette di comportarsi come si aspettano e come cambiano di conseguenza. È necessario osservare quanto ci possa cambiare un film che non si comporta secondo le nostre aspettative, quanto ci possa toccare, quanto ci lasci piccole sensazioni, piccole idee: come il lucido pensiero che non è l’aureola a fare santa una persona. [Mattia Borgonovo]

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