«Un film è solo una scuola di percezione, basta. Bisogna essere coscienti e modesti e sapere di cosa si tratta. È uno strumento per aiutare la gente a vedere e a guardare, e a vedere meglio e a sentire meglio». Straub e Huillet lo avevano capito, James Cameron ancora lo sa, e infatti Avatar: La via dell’acqua è una scuola di percezione, uno strumento per comprendere il panorama mediale contemporaneo e del futuro. Vedere e sentire meglio, a tredici anni di distanza da una rivoluzione formale che nel linguaggio del blockbuster inventava un nuovo profilo spettatoriale di massa, significa ripensare la natura di quegli effetti digitali che ormai sono diventati lo sfondo insensibile e invisibile dei film che detengono cittadinanza nell’immaginario collettivo presente, e nello specifico restituire a quegli effetti la carica vitale e la dignità esistenziale rimossa da una visione dell’immagine come superficie interessata a fingersi mondo realistico attraverso posticce soluzioni prospettiche (come nella tecnologia Stagecraft, presentata come il futuro di Hollywood). Non si tratta più quindi, per Cameron, di sbalzare lo spettatore fuori dalla sua salda poltrona e coinvolgerlo in un’esplorazione virtuale capace di istanziare il cinema come un’esperienza di ristrutturazione percettiva, ma di riconfigurare la postura di quello stesso spettatore ormai pienamente mediatizzato, implicato nelle dinamiche dell’orizzonte digitale ma anche anestetizzato dalle stesse. 

Come? Attraverso l’immersione in un mondo formale teso a dimostrare la vitalità senza pari dell’immagine digitale. Ecco allora l’acqua come elemento non solo atmosferico e immersivo ma erotico e sensuale in quanto strutturalmente sinestetico e superficiale, alla maniera di un’immagine digitale che anche quando tridimensionale non rinnega l’istantaneità, l’immediatezza epiteliale dei propri effetti e quindi non si presenta come un’illusione realisticamente prospettica ma si dà invece come una superficie abissale in quanto pellicolare. Filmando un ambiente acquatico che è percepito come vero anche se (in parte) non esiste e contiene cose che (in gran parte) non esistono, Cameron non solo constata l’ormai inarrestabile declino del “principio di individuazione” della cosa reale nell’orizzonte dell’immagine digitale (è l’epoca dei falsi live action più veri del vero) ma riconosce in questo orizzonte quel campo di materializzazione di realtà non esistenti teorizzato dal cinema assoluto degli albori, quella macchina al lavoro non per una finta morte (un’imbalsamazione fotosensibile esercitata 24 fotogrammi al secondo sugli oggetti del reale) ma per una vera vita (un atto di creazione movimentato al doppio della velocità e della fluidità, 48 fotogrammi al secondo). L’immagine digitale nel trattamento di questo avanguardista non è un’immagine depauperata e senza dignità auratica, se si vuole, ma una forma di vita aliena, un pezzo di realtà altra capace di riorientare da capo i giudizi esistenziali allargando il conferimento del diritto d’essere a oggetti solitamente considerati “senza vita” – come di solito fa il cinema d’animazione. 

Tale conferimento avviene nel passaggio dello sguardo attraverso lo schermo mobile costituito dalla superficie acquatica che diventa, inquadratura per inquadratura, ambiente atmosferico pronto a farsi sentire e a farsi percorrere secondo leggi prima esperienziali che intellettuali, prima estetiche che logiche e prima moderne che postmoderne, anzi, per niente postmoderne. Cameron non è infatti uno di quei registi interessati a salvare le sensazioni di un vecchio mondo rovinoso, è piuttosto uno degli ultimi grandi moderni, un regista classico interessato a fondare un programma sensoriale per le immagini del futuro. Avatar: La via dell’acqua di conseguenza non opera le strategie culturali di un reboot come Dune, intenzionato a riprogrammare le sensazioni spettatoriali mantenendosi saldamente dentro alle logiche del riciclo degli immaginari; è piuttosto un’opera contraddistinta da una classicità fuori tempo massimo, commovente nell’ingenuità utopica che preferisce il Mito alla Storia (vedi Titanic), nella sua fiducia nelle vecchie grandi narrazioni, nella sua radice umanista e, in ultimo, nell’attaccamento al senso di uno sguardo. Non è un caso che alla fine tutto il film riguardi nel profondo il vedere attraverso, il comprendere mediante uno sguardo affettivo. Questo sguardo è quello che si immerge nella via dell’acqua, si squaderna e si fa senso espanso fino ad abbracciare anche sensazioni impossibili, per poi rientrare negli occhi dello spettatore nella forma di un’esperienza, in un solo tempo antica e mai provata prima: l’esperienza del cinema come spazio tra le cose.