Per antica convenzione la commedia è quel genere in cui l’ordine del reale temporaneamente si sovverte, si dileggia, e infine si ricompone. Cosa accade quindi quando l’ordine è sovvertito in partenza?

Hermia & Helena è il primo film ”americano” di Matías Piñeiro. È girato tra New York e Buenos Aires, e coinvolge, insieme alle fedelissime Agostina Muñuz e Maria Villar, alcuni volti nuovi provenienti dalla cerchia statunitense del regista. Da quattro anni, infatti, Piñeiro vive a cavallo tra la madrepatria e New York, città a cui è arrivato per ragioni – ci tiene a ribadire – esclusivamente sentimentali. Ma Hermia & Helena non è un film americano. Piñeiro cambia senza cambiare, si adatta senza adattarsi. Niente grande salto: il regista argentino si tiene strette le proprie pratiche, i volti dei suoi attori, le proprie ambizioni. Film di transito, quindi? Sì, ma in un senso più complesso di quello banalmente geografico.

Camila prende il posto dell’amica Carmen in una residenza per artisti newyorkese. Lavora a una traduzione spagnola di Midsummer Night’s Dream – mentre Carmen lavorava a un romanzo, senza successo. Una giovane donna prende il posto di un’altra. Un testo genera un altro testo. La pagina bianca resta arida. Il cinema di Piñeiro è sempre transitorio: la creazione è uno spostamento orizzontale. Il testo shakespeariano si accampa direttamente sullo schermo, appare in sovrimpressione, al fianco delle immagini. La macchina da presa è meno mobile che in film come Todos Mienten o Rosalinda, ma al movimento interno all’inquadratura si sostituisce quello, altrettanto orizzontale, del montaggio.

Di più. I personaggi di Piñeiro hanno più o meno la stessa età: l’età del regista. Di film in film, gli interpreti non cambiano. Gli stessi nomi ritornano spesso. Le caratterizzazioni si inseguono: artisti, scrittori, studenti. Di più ancora: questi attori, questi tipi umani, formano il contesto in cui Piñeiro effettivamente vive. Il film “americano” nasce da una familiarità privata con la città in cui il regista, per ragioni appunto private, si trova a vivere. Rosalinda, Viola, Princesa de Francia e Hermia & Helena nascono tutti da un pasticcio teatrale messo in scena da Piñeiro e i suoi nel 2010. Insisto su questa dimensione ricombinatoria e sodale perché mi sembra che essa non si limiti a illuminare il processo creativo, ma dica qualcosa di fondamentale sul tipo di ispirazione alla base dei vari lavori. Volendo semplificare, si potrebbe ascrivere a Piñeiro quell’atteggiamento (jamesoniamente) postmoderno di riappropriazione giocosa rispetto alla tradizione come destino, al senso cogente della storia, dell’eredità dei padri.

Non a caso, l’erotismo che attraversa la messinscena come una corrente continua si esprime in relazioni amorose tanto vaporose quanto interscambiabili. È la giostra sovversiva della commedia, cui accennavo all’inizio: mascheramento e peripezia. Le coppie si formano e riformano: ma non è solo l’amore. Qui è tutto un sistema di determinazioni sociali a venir meno: l’identità come fatto immutabile, certo, e la relazione amorosa come momento in cui l’unicità dell’individuo si esprime al suo grado massimo (lei, lui, e nessun altro). Resta forte la tentazione di leggere, in questa sovversione dell’identità, un risvolto anche politico, legato all’emergere della generazione del dopo-dittatura in Argentina – cui Piñeiro appartiene. Ma il cineasta sfugge l’ermeneutica facile, e riferimenti espliciti all’eredità politica argentina, dopo Todos Mienten, sono pressoché assenti.

Allo stesso tempo, c’è l’ovvio dettaglio che i testi – le commedie shakespeariane, ma anche quelli della tradizione letteraria argentina evocati altrove – sono di per sé una tradizione. Il contesto orizzontale del film si apre a una profondità: i padri sono sì fuori scena, ma nondimeno costantemente evocati, ricercati. Esiste quindi una dimensione verticale? Camila prende il posto di Carmen: lo stesso appartamento, la stessa relazione. Quella che inizialmente appare come una permutazione perfetta si rivela però una mossa a ritroso. Camila era già stata a New York: aveva lasciato in sospeso un’altra storia, e soprattutto, vi torna ora per cercare un padre mai visto. Il montaggio non lineare rivela questi dettagli a poco a poco. Il film è effettivamente strutturato a episodi (come Rosalinda), ognuno dei quali inizia e ritorna al giorno della partenza di Camila da Buenos Aires, rivelando un dettaglio ulteriore e modificando la forma complessiva dell’opera. È una molla: ogni volta si ritorna al punto di rottura iniziale, e ogni volta ci si allontana un po’ di più, ci si proietta, con fatica, verso possibili direzioni nuove.

Camila si ricongiunge col padre. Fuori città, e dopo aver aggirato l’ennesima mancata coincidenza, i due si siedono l’uno di fronte all’altro e si raccontano. Ed è proprio in quel raccontarsi, da ultimo, che la sur-narratività del cinema di Piñeiro trova infine una nota che si potrebbe quasi dire di speranza. Perché il racconto è forse invenzione di sé e del passato, ma anche, almeno in parte, condivisione, incontro. La vita è ingiusta, come chiosa Camila, ma non è detto che non possa comunque finire bene.