«Voglio il buio completo»: così si esprime l’attrice di mezza età Angèle, ormai famosa in tutto il mondo e tornata alla casa del padre malato, nella provincia balneare di Marsiglia, quando dopo molte resistenze cede alle lusinghe erotiche del giovane pescatore Benjamin, che il teatro lo ha conosciuto e amato proprio grazie a lei. Dettato da quel misto di pudore e reticenza che ne ha caratterizzato non solo le scelte sentimentali, ma il posizionamento stesso nel mondo, specialmente dopo il grave lutto che, proprio in quella località, l’ha vista perdere una bambina in una sciocca disgrazia, l’accorato appello all’oscurità di Angèle, così antitetico rispetto al mestiere in cui ha trionfato ma attraverso il quale desiderio e passione paiono ancora esperienze consentite, riassume quasi inconsciamente la premessa umana e esistenziale racchiusa dentro a La ville, ultimo film di Robert Guédiguian, presentato in concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia.

In questo quadro Angèle è soltanto una delle tre presenze a cui Guédiguian dona paritariamente voce: accanto al vecchio padre colpito improvvisamente da ictus, figura mitologicamente funzionale a segnare la fine di un tempo, di una prospettiva, e naturalmente di una certa ideologia, si raccolgono anche i due fratelli della donna, Joseph e Armand. Il primo, intellettuale impegnato politicamente a sinistra e ora “rottamato” dallo stesso sistema per cui ha lavorato un’intera vita, accompagnato da una fidanzata di oltre vent’anni più giovane con la quale, giocoforza, le cose non funzioneranno. Il secondo, da sempre radicato sul territorio e fedele alla gestione del ristorante paterno, mai veramente allontanatosi da quella villa dove è nato e cresciuto e che sintetizza, a proprio modo, una più che fondata filosofia: vivere al meglio il senso delle proprie appartenenze, contribuendo a tenerle in piedi.

Su questo scenario minacciato dall’ombra di un’incombente conclusione, il buio sembrerebbe metafora di un possibile esito alle vicende dei protagonisti. Un buio che non è necessariamente tragico e dolente, come l’amore forse fugace tra Angèle e Benjamin dimostra: qualcosa di più simile a un nascondimento, a una nicchia, a un ritiro definitivo, un esilio aperto all’umorismo in cui però trovino definitivamente pace tutte le speranze tradite, le ferite ancora aperte, le lotte di classe svuotate da ogni coordinata, quel passato che, per la stessa incapacità di declinarsi al presente, accetta serenamente di cristallizzarsi. La stessa regia di Guédiguian, piana e attenta al lavoro degli attori, alle loro dialettiche così fragili e sincere di fronte al sentimento di una crisi, pare nutrire fin dall’inizio lo spiraglio di quella che, anche nella più cupa delle ipotesi, resterebbe una forma sostenibile di sopravvivenza, plausibile anche a fronte di sconvolgenti colpi di scena – il fiabesco suicidio di due anziani vicini di casa – e della trasformazione violenta di quel piccolo paradiso tutt’intorno, preda del colonialismo turistico di ricchi stranieri in yacht e occhiali firmati.

Il cinema del regista, per chi lo conosce almeno un po’, ricorda questa storia molto da vicino: factory marsigliese a tutti gli effetti, fatta degli stessi nomi da più di trent’anni – su tutti, i suoi interpreti di fiducia, la moglie Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin e Gérard Meylan –, la squadra di Guédiguian ha dato corpo nel tempo a una narrazione coerente e ininterrotta, dominata da precise scelte di campo e di classe, oggi in aperta collisione con la contemporaneità. La ville insomma non è soltanto un film sul baratro di una sconfitta: è esso stesso un’operazione autoriflessiva di manifesta sconfitta, di fronte alla quale, tuttavia, non viene meno il desiderio di ritrovare una strada. Lo capiamo molto bene quando, con un gesto poetico di montaggio intertestuale, la pigra attesa del presente, divisa tra una morte – del padre – che non arriva, e una vita – dei protagonisti – che non accenna a smuoversi, è interrotta da uno squarcio luminoso sul passato. Non una messinscena in forma di flashback, ma un altro film di Guédiguian, e più precisamente una vitalissima sequenza di Ki lo sa? (1985), in cui gli stessi interpreti, più giovani di tre decadi, sorridono lungo le libere traiettorie di una corsa in automobile fino al mare. Un mare dove, sotto alle note dense di I want you di Bob Dylan, è possibile giocare a tuffarsi e godere pienamente della propria vita. Tuffarsi nella vita, come oggi non è più possibile.

Il mare però non cessa mai di offrire un movimento, e quello che allora era il teatro ideale per uno scherzo tra giovani sodali, oggi diventa il percorso forzato di rotte molto più dolorose, quelle dei migranti clandestini che alla terra pregano di arrivare, braccati dai continui controlli di meccaniche ronde della polizia. Sono tre bambini quelli che approdano alla caletta su cui si affaccia la villa. Sono tre bambini, quasi la stessa età della figlia perduta di Angèle, che Guédiguian propone non come figure destinatarie di una pietas finora anestetizzata, ma come riflesso di una ritrovata identità per i tre fratelli protagonisti, capaci di ribadire gli slanci della propria coscienza, per quanto ormai minoritari e anzi illegali, foss’anche per il solo gusto di emanarne l’eco in un mondo che certi ideali più non conosce. Non sopravvivere soltanto, ma tornare lentamente a vivere, proprio come quel padre che, in conclusione al film, sembra vibrare di un nuovo, insperato, impossibile fremito.

Scriveva il poeta Edoardo Sanguineti che, assodata la falsa coscienza che anima ogni ideologia, un mondo senza ideologie sarebbe un mondo senza vita: nella possibilità di un confronto di tutte le voci possibili tra gli uomini, compresa quella più lontana ormai dal trasformare l’esistente, il film di Robert Guédiguian sembra suggerirci che, a modo proprio, la lotta è ancora possibile. Basta soltanto trovare la forza di tenerla viva, varcando i confini oscuri del nostro tempo.