« On ne sait jamais ce que l’on filme »

C. M.

Quand’ero ad IsReal ho potuto assistere alla Masterclass d’antropologia visuale di Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor, tenutasi il 4 e 5 maggio all’Istituto Superiore Regionale Etnografico di Nuoro. Dibattito informale, l’incontro è stato animato dall’antropologo e docente di etnografia visiva Felice Tiragallo nonché da Alessandro Stellino, Ludovica Fales e qualche dozzina di studenti di cinema provenienti da tutta Italia.

La “coppia d’arte” Paravel e Castaing-Taylor proviene dall’Accademia in gran maiuscolo (Harvard, la più nota Ivy League e niente di meno), dove Lucien dirige il Sensory Ethnography Lab (SEL), laboratorio multidisciplinare il cui scopo è «favorire combinazioni innovative fra l’estetica e l’etnografia». Con un patrimonio finanziario che sta per sfiorare i 40 miliardi, la loro “casa base” è “disgustosamente ricca”, afferma per prima cosa Castaing-Taylor, senza nulla omettere del marcissimo rapporto tra educazione e potere d’acquisto con cui pure tante volte occorre scendere a patti.

Così han fatto i due antropologi col dottorato e la macchina da presa. Si son nascosti tra i corridoi meno influenti di Harvard, “equipaggiati” han cominciato a produrre documentari sapendo che, per poter “fare qualcosa”, nelle più piccole maglie della più grande rete sempre ti dovrai inserire, in questo caso approfittando dello scetticismo di una Grande Scuola che in quel momento poco credeva negli esperimenti d’arte nuova. O in ogni caso non aveva tanto fretta di sorvegliarli.

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Seduti sui banchi dell’ISRE, i due filmaker-accademici ci tengono a non voler “offrire lezioni”. E forse non è soltanto retorica. È piuttosto la consapevolezza che, nelle masterclass come nella vita, se qualcosa dal reale verrà offerto non potrà che essere – la realtà essendo sempre in movimento – un incontro incompiuto, sghembo e un po’ rude. Un incauto indecente svelarsi. E se “parlare di sé” proprio si deve, bisognerà allora spalancare quel vaso di Pandora che in ognuno di noi, accademici compresi, contiene sogni turbe e complicazioni varie, e che in nessun caso può fornire ad alcuno studente il miraggio di attrezzi o strategie riutilizzabili.

Siamo tutti macchine umane fatte di pezzi estranei e sensibili, e se il documentario, e con esso il mistero dell’umano che l’antropologo vorrebbe indagare, resta sempre un esperimento, è proprio perché, nel bene e nel male, non c’è regola che tenga. Ad ogni riapertura del diaframma, ad ogni innescarsi d’un registratore, sempre bisognerà reinterrogare tanto “il reale” quanto il suo possibile sintetizzarsi dinnanzi ai nostri sensi, ovvero la sua rappresentazione. Ogni film porrà la stessa eterna questione: come dire e mostrare quel che abbiamo incontrato, quell’estraneità chiamata “reale”?

Le formule della rappresentazione sono la vera materia “ignota”, affermano i due antropo-registi, e i coltelli del mestiere andranno sempre forgiati e ri-affilati durante il viaggio. Un viaggio etno-visivo che, si badi bene, non crede in questo caso neppure al fantomatico e solido lavoro di “terrain”, a quell’incontro con il “soggetto” che va preparato ben prima e molto a lungo (come ci dicono alcune scuole di cinema del reale pur altrettanto feconde). Il preventivo incontro (conoscersi, abituarsi l’uno all’altro e poi cominciare a filmare) non può a loro dire che ottundere i sensi, che forse son più svegli e più acuti al di qua della “familiarità o affetto” che inevitabilmente il documentarista sviluppa verso i propri personaggi.

Lucien e Véréna preferiscono piuttosto gettarsi a capofitto in questo reale di pneumatici rotolanti e scarti di pesce, in questo spazio sia liscio che striato in cui noi tutti, umani cavi animali pesci e bulloni arrugginiti, comunque dobbiamo sguazzare, senza sceneggiatura che preventivamente c’informi su cosa incontreremo, o su cosa “assicuriamo d’incontrare”.

Sono questi i “sensi” inconsci e incoscienti che si (ri)fanno acuti nelle opere dei due registi, di cui questa terza edizione di IsReal (nella sezione “Arte del reale”) ne mostra cinque tra le più rinomate (rinomate per paura e sgomento indotto, ma che negli ultimi anni sono state esposte in tutti i musei e le fiere del cinema “che conta”).

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Se il “linguaggio” cauto e ben fornito dell’Accademia può solo insistere nel voler “spiegare e analizzare” ciò che accade, occorre infatti ad un certo punto destinarsi a «produrre attivamente esperienze estetiche, che riflettano l’esperienza quotidiana senza necessariamente chiarirla o dare l’illusione di “comprenderla”» [1]. Il che vuol dire, poco conta l’età anagrafica, prendere in macchina la camera e con quel che appare e con quel che si sente farci in qualche modo i conti, capire come “sputarlo fuori”, non soltanto descriverlo. “Raggiungere la realtà, non rappresentarla”, dicono spesso nelle loro interviste. (Che poi è un destino e un desiderio di materia viva che crediamo accomuni – e non a caso – molti “post-dottorandi”).

I due di Harvard vantano “l’arrogance des imbéciles”, e mostrano in pubblico tanto le invidiabili libertà quanto i “rischi fisici” del loro sguardo senz’ancora. Non sono ossessivi cinefili né romantici poeti-letterati. Sanno che occorre “mettersi a studiare” e lo faranno ancora, ben sapendo che l’interminabile studio può generare opere complesse e di difficile digestione. Poco adatte alle voglie dello spettatore, poco inclini alle esigenze dei produttori. Sanno anche che “il rappresentato” non sarà infondo che un’altra teoria, condivisibile o meno. Più o meno aspra e raramente trasparente.

Che il cinema sia uno sport da scrivania e allo stesso tempo (come direbbe qualcuno), «uno sport da combattimento», ce lo dimostra infine la più acclamata delle loro opere presentate ad IsReal: Leviathan.

Qui come in altri casi, “raggiungere la realtà” vuol dire scontrarsi con parti di esse a muso duro, ovvero predisporsi ad un’apnea di 89 minuti nei meandri di un peschereccio di New Bedford (il più grande porto statunitense per la pesca) in cui solo per brevi istanti si avrà la grazia di un po’ d’ossigeno. Vuol dire pure che un film è a volte «una reazione fisica ed emotiva ad una precisa condizione ed esperienza»[2], in questo caso alla mostruosità dell’essere umano al lavoro, quella cosa che l’uno e l’altro lega senza ritorno attraverso la magia nera chiamata alienazione. Il resto è quel mare scurissimo, fatto di scarti e coltellate continue ai suoi frutti da svendere, di sonnambulismi obbligati e piccoli cadaveri gettati in stiva. Il resto è quel mare “non più romantico”, ci dicono. È struggimento da catena di montaggio senza soluzione, non tanto lo sguardo che si perde sull’infinità del blu cobalto.

Nel Sensory Lab un documentario è un’entità percettiva non linguistica, e può dimostrarsi anch’esso una mostruosità senza via d’uscita. Ripugnante come le zone inaccettabili di quel “reale” che a volte preferiremmo non avere davanti, o quanto meno averne scampo, con un’ancora di salvezza a portata di mano.

Ma al di là dell’evoluzione della forma (e ahimè anche del formalismo) delle opere più recenti, ci sembra che l’incontro-scontro tra le macchine d’umani e la carnosità delle bestie-imprese sia costantemente indagato, anche nelle prime opere, ad esempio nel film dall’apparenza stilisticamente “piu semplice” Foreign Parts, che Véréna Paravel ha diretto assieme a J.P. Sniadecki. In esso si raccontava il quartiere in via di demolizione Willets Point, mini-penisola a nord del Queens stretta tra lo stadio dei Mets e il Flushing Bay e abitata principalmente da vivaci rivenditori e sfasciacarrozze, una zona pericolosamente vicina a quei blocks newyorkesi che dieci anni fa cominciavano ad attirare la ruspa gentrificatrice. In esso l’ironia aveva più libero sfogo, ma come nelle ultime produzioni la regia non si accontenta né di “immagini belle” né di fiabe dal vero, siano esse dolci o crudeli.

P_20180505_225101In tutta l’infinita opacità di ciò che ci circonda, come scegliere “il soggetto interessante”, come fa un regista a concedere a sé stesso di inseguire un’idea piuttosto che un’altra, chiede giustamente una studentessa?

Come tutta la loro filmografia dimostra, i “soggetti del reale” non possono mai esaurirsi. Dal più piccolo e crudele strato di pelle d’uomo al più inquieto degli oceani, dall’orrore del quotidiano alle perversioni da prima pagina nei fatti di cronaca, ogni cosa è potenzialmente filmabile perché mai interamente compresa, irrisolta nel suo darsi in maniera complessa e ambigua, mai unitaria, mai totalmente ri-conoscibile (dunque classificabile). Un darsi in cui l’invisibile (nel senso di Merleau-Ponty) è sempre la «contropartita segreta» del reale[3], la «structure ou membrure du visible»[4], l’ossatura di quel corpo (urbano fisico oceanico sonnambulo) che (seppur sfocato) in qualche modo emerge e si vede.

Durante i giorni del concorso di IsReal, con altri partecipanti ci si è ironicamente chiesti, tra noi e noi, se i film “assomigliassero” o meno ai loro autori. Neanche in questo caso credo sia dato sapere se la regola sia una e certa, ma anche per i due fondatori e artefici del Sensory Lab diremmo forse che l’ipotesi potrebbe essere tanto vero quanto falsa.

È vera perché Lucien e Véréna ci appaiono folli esploratori dalle briglie sciolte, poco attratti dalla vanagloria, dalle “cose facili” e dai terreni già dissodati, così come alcuni loro documentari. È falsa perché essi si tengono in ogni caso stretta la loro eccentrica esilarante e spesso morbida (auto)ironia. Non sappiamo se essa sia in fin dei conti solo un’utile ancora nelle nostre vite barcollanti, ma a volte ci è parso di credere che possa essere l’altra cifra di un filmare (e di un sentire) che ha provato e prova a farsi radicale.

[1] L. Castaing-Taylor, “Harvard’s Sensory Ethnography Lab”, in Avant-Doc: Intersection of Documentary and Avant-Garde Cinema di Scott MacDonald, Oxford University Press, 2014.

[2] L. Castaing-Taylor, “Il cinema come crisi epilettica. Conversazione con Lucien Castaing-Taylor e Véréna Paravel”, catalogo di IsReal, ISRE 2018, p. 49.

[3] L. Castaing-Taylor, “Harvard’s Sensory Ethnography Lab”, cit.

[4] M. Merleau-Ponty, Notes des cours au Collège de Frnace 1958-1959 et 1960-1961, Gallimard, Paris 1960, p. 194.