Infine il numero 206 dei «Cahiers du cinéma» (novembre 1968) pubblicava il seguente testo collettivo della redazione: Venezia malgrado tutto.

  1. Malgrado che cosa?

«L’equipe dei “Cahiers”[1] » ha creduto di dover assistere al recente Festival di Venezia, come ha fatto ogni anno e in quanto è una parte del suo compito usuale. Ma questa volta abbiamo ritenuto utile di fare due cose innanzitutto: la prima difendendo pubblicamente questo Festival attaccato da tutte le parti, come necessario, nonostante che più che imperfetto, alla lotta per il rinnovamento del cinema; la seconda prendendo parte attiva a un dibattito su “Cinema e politica” la cui ambizione era di introdurre alla pratica del cinema politico.

Questa scelta – non a favore di un festival, fosse anche Venezia, ma semplicemente di un certo cinema che noi non abbiamo mai smesso di difendere a Venezia e altrove – c’è valso d’essere criticati da: a) certi dirigenti e cineasti dell’ANAC (Associazione dei cineasti italiani di sinistra); b) giornalisti italiani socialisti e comunisti; c) critici di “Positif” e “Cinema 68”; d) il Consiglio permanente degli Stati generali del cinema francese, che ci rimprovera: 1) d’aver fatto alleanza con un Festival borghese; 2) d’aver contribuito a impedire il boicottaggio; 3) di esserci compromessi partecipando al dibattito “Cinema e politica” per la semplice ragione che era organizzato e patrocinato dal Festival; 4) in breve: d’aver fatto il giuoco del suo direttore e di essere stati recuperati da lui.»

Delle lotte in seno al cinema

Questi addebiti richiedono qualche chiarimento. Non solamente per quello che riguarda la nostra tattica a Venezia, ma anche per ciò che concerne la nostra politica generale nei confronti dei Festival. E più generalmente ancora per ciò che è delle lotte che nel cinema oppongono le forze conservatrici (tutto il sistema commerciale dalla produzione alla distribuzione, legato ai capitali e alla influenza USA, sostenuto dai diversi organismi di Stato) e forze rivoluzionarie: spettatori, critici, cineasti, rari produttori indipendenti che vogliono e si adoperano perché il cinema cambi – e cambia non solamente nelle sue forme e nella sua estetica, ma contemporaneamente anche nella sua funzione e nella sua destinazione sociale.

Venezia e il suo festival (un’analisi un po’ seria avrebbe facilmente persuaso i contestatari) non è che un momento in mezzo a tutti gli altri, di questa lotta. I festival in generale sono, nel contesto attuale, un terreno fra gli altri (né forzatamente più né forzatamente meno propizio) di questo scontro.

Riunendo un gran numero di giornalisti e cineasti del mondo intero, che altrimenti non si incontrerebbero mai, beneficiando di una certa pubblicità (circostanza deplorevole ma di qualche utilità se si adopera come un’arme allo stesso titolo che un’altra) essi dànno l’occasione a tutti coloro che sparsi per i quattro angoli del mondo combattono per il rinnovamento del cinema, di unire i loro sforzi di aumentare la pressione sulle vecchie strutture.

Trascurare questa possibilità concreta di rinforzare le posizioni del nuovo cinema, in nome del frusto concetto romantico di “purezza”, è in effetti rifiutare il combattimento, e molto concretamente fare il gioco delle correnti retrograde.

I festival sono superstrutture; riformarli per loro stessi è scopo vano, puro dilettantismo, se non si mettono prima in questione le strutture commerciali attuali del cinema. Prendersela coi festival non è che una di quelle buone intenzioni di cui è lastricato l’inferno e na peggiore demagogia se non ci si è presi la pena di combattere e vincere i commercianti sul loro terreno, che non è quello dei festival, ma delle sale, della distribuzione, dei monopoli, dei regolamenti, del danaro.

Per Venezia a queste considerazioni si aggiunge una situazione particolare: in questo festival, da qualche anno, si scontrano violentemente conservatori e promotori del nuovo cinema. Antico bastione del commercio cinematografico, ex fiera dello spettacolo (e tanto più che è dotata dei più restigiosi alibi artistici), Venezia a poco a poco passava dalla parte degli artisti, tradendo gli interessi che la governavano e divenendo (senza che costatare tale rivoluzione debba far considerare il Prof. Chiarini come un eroe), con grave danno della mafia dei produttori pubblicitari e albergatori, un festival impegnato (non senza debolezze e viltà, ma era il principio): rispondentemente alle preoccupazioni politiche; al combattimento per l’indipendenza dei giovani cineasti, mettendosi al loro servizio nella loro lotta ideologica ed economica.

  1. Si dimenticano troppo i produttori

Tutti i Festival internazionali di qualche importanza dipendono dalla Federazione internazionale delle Associazioni di produttori di film (FIAPF). Questa dà il suo gradimento ed avendo loro concesso il titolo di Festival, come contropartita li sorveglia; cioè li manipola.

La FIAPF è controllata dalla potentissima Associazione americana dei produttori (Hollywood): la sua politica, le sue posizioni sono costantemente reazionarie (conservatrici sarebbe dir poco), tanto di fronte ai sindacati dei tecnici quanto ai cineasti stessi, si tratti di bilanci, di circuiti di distribuzione, di vendite, o di diritto di autore.

Tale è, senza possibilità di equivoci, il nemico n.1 di coloro che vogliono un cinema adulto, responsabile, non asservito ai profitti.

Da qualche anno la FIAPF ha dichiarato guerra alla Venezia di Chiarini, non sopportato: a) la politicizzazione del Festival; b) che esso favorisca i giovani cineasti indipendenti; c) che sopprima la mondanità; d) che rifiuti le selezioni teleguidate dalle Associazioni nazionali dei produttori; e) che sostenga un cinema sempre meno commerciale.

Quest’anno la guerra è diventata brutale: la FIAPF decide il boicottaggio puro e semplice di Venezia da parte delle sue Associazioni. In Francia questo si traduce nel rifiuto del produttore (vice-presidente della Camera sindacale dei produttori) di inviare a Venezia L’amore folle di Rivette, in quello di Mag Bodard (legata ai capitali USA) di mandare Una sera un treno di Delvaux, così come nel consiglio dato da Lelouch (eventuale distributore) a Karmitz di ritirare dalla competizione il suo film (ciò che Karmitz fece, ma il più tardi possibile). Senza dimenticare la violenta campagna condotta in “Paris-Presse” (del gruppo Franpar, amico di Mag Bodard) contro il Festival. Il boicottaggio al modo dei produttori non è una vana parola.

Si dimentica troppo il parlamentarismo italiano

Quando l’ANAC a sua volta lancia una campagna per il boicottaggio di Venezia da parte delle forze di sinistra del cinema, essa ha l’appoggio (oltre al fatto che fa un gran piacere alla FIAPF) di tutti i partiti della sinistra italiana. È per loro l’occasione sognata di mettere in difficoltà in Parlamento il più che vacillante governo Leone, coalizione bastarda di socialisti e democristiani.

Da questo momento la contestazione è manovrata, il suo orizzonte reale non è più Venezia e nemmeno il cinema (a eccezione di Micciché che mira al posto direttoriale). Lo testimonia il disinteresse sempre più netto dei movimenti studenteschi italiani di estrema sinistra per la “battaglia” dell’ANAC.

Noi pensiamo che i problemi del cinema politico non devono porsi o risolversi a favore dei partiti politici e della loro strategia elettorale o parlamentare. Un cinema politicizzato e che la lotta per la sua indipendenza, tutta la sua indipendenza, non può che molestare tutti i partiti politici attualmente esistenti.

Che fare?

Sì, Venezia è un Festival borghese (ancora non ne esistono altri). Senza dubbio anche la politicizzazione sempre più grande del Festival serve d’alibi alla società borghese per frenare una più generale politicizzazione di tutto il cinema. Sapendo ciò e tutto quello che precede, che fare?

Boicottare il Festival in nome di una sacrosanta solidarietà con la sinistra italiana (alla quale, bisogna sottolinearlo, non è rendere un buon servizio, passando sotto silenzio i suoi errori) era contemporaneamente fare il giuoco del nemico n.1 la FIAPF. Sostenere Venezia significava ancora fare il giuoco della buona coscienza borghese.

Tutte le posizioni: boicottaggio o contestazione, sostegno passivo o attivo, si trovavano così esposte ai rimproveri di alleanze con l’uno o con l’altro dei volti della reazione. Ma un tale rimprovero, sempre fatto in nome del concetto di “purezza”, è d’ordine morale e non politico. La vana richiesta di una purezza ideologica, la paura di sporcarsi, di compromettersi non hanno nulla a che fare con la determinazione dei mezzi e dei fini in una lotta politica come quella di cui il cinema è il fondamento e Venezia uno dei momenti.

Si trattava di valutare quella tattica, quella posizione – costituendo un inevitabile compromesso con la reazione – che gli avrebbe fatto sul proprio terreno perdere di più. E guadagnare di più al cinema.

Che cos’è che fa perdere di più?

Portata pratica delle posizioni della contestazione.

Noi potevamo, obbedendo alla parola d’ordine del boicottaggio dei contestatari non andare a Venezia. Saremmo stati i soli a rimanere a casa nostra: obiettivamente il boicottaggio fu uno scacco, giacché fu rifiutato da un gran numero di cineasti, i quali si collocano a sinistra quanto i dirigenti dell’ANAC (Lapoujade, Bertolucci, Pasolini prima versione, Straub, Kluge, ecc.). Non andarvi, sarebbe stato dunque indebolire le loro posizioni, che tutto il resto del tempo abbiamo cercato di sostenere.

Andandosi, si potevano fare come “Positif” e “Cinema ’68” pietose dichiarazioni di incoraggiamento: si poteva, come loro, tenerci a una posizione di spettatori. Era fare il giuoco di tutti e sopratutto una comodità: nessun risultato[2].

Andarci e passare alla contestazione violenta, al sabotaggio al modo di Cannes: niente a Venezia lo permetteva: primo perché sono stati gli studenti e gli scioperanti di magio che hanno fatto chiudere Cannes, e non Godard o Truffaut; secondo colpa della disorganizzazione scandalosa dell’ANAC e della sua incapacità a mobilitare studenti e operai al suo gusto per le chiassate piuttosto che per le azioni (Pasolini seconda versione messo con le spalle al muro da Papatakis, che gli proponeva di andare a interrompere la proiezione di Teorema, preferì tenersi a un breve discorso sulle generali: “Questo film passa contro la mia volontà, coloro che mi vogliono bene escano dalla sale, ma io non me la prenderò con gli altri”).

Portata pratica della lotta sul terreno

Essendo Venezia, avendo scelto di andarci per politica generale, bisognava fare in modo e con tutti i mezzi che questo Festival servisse comunque la causa del cinema.

Di qui: partecipazione al dibattito “Cinema e Politica”.

Il programma del Festival non era soltanto audace, ma politicamente ben orientato (Straub, Kluge, Baldi, Bertolucci, Cassavetes, Lapoujade, Moullet, Sembene, Pasolini …): buon terreno per qualsiasi dibattito, ma specialmente per quello enunciato.

Restava il rischio, certo, che il dibattito in questione fosse “recuperato”: che si mettesse innanzi in un festival borghese la parola politica, e che ci si guardasse bene dal farla: Venezia passando per un Festival veramente politicizzato il giuoco era fatto.

Ora, la paura del “recupero” non deve impedire nessuna azione, paralizzare ogni iniziativa. Si è visto, tutto il problema era di sapere se Venezia “recuperava” la politica o se la politica “recuperava” Venezia. Ci è sembrato che fare di un dibattito del festival un fòro in cui la politica si discutesse politicizzava più questo Festival di quanto quello non rendesse festivaliera la politica.

E un dibattito non si controlla che poco agevolmente: aperto a qualsiasi argomento, esso è ciò che vi si dibatte, né più né meno, esso vale ciò che vi si dice (e sono state dette, le pubblicheremo, cose molto utili).

Boicottare questo dibattito significava diminuirne le possibilità e il peso: fare dunque, dell’anti-politica.

Illustrato da proiezione di film militanti, il dibattito diventa realmente un confronto di idee e della pratica politica per il cinema. L’atteggiamento dello SNEsup e degli Stati generali, di rifiuto alla proiezione dei loro film durante il dibattito, da una parte per timore di “compromettersi” dall’altra parte per il fatto che non sarebbero stati visti da studenti ed operai, ma da giornalisti e cineasti, è assolutamente infantile. Film militanti sono veramente “recuperati” dal momento in cui non sono proiettati a un pubblico di militanti? Evidentemente no. Se sono film di battaglia e, senza paura della definizione, di propaganda politica, essi si rivolgono soprattutto ai non militanti non convinti, piuttosto che a quelli già convinti. Fare del cinema militante un dominio riservato, un nuovo ghetto, è riproporre le peggiori discriminazioni dei mercanti di cinema. Il dibattito di Venezia, per le sue assenze come per le sue partecipazioni, avrà provato almeno che resta ancora parecchio cammino da percorrere agli Stati generali per sfociare in una pratica politica del cinema. Noi chiediamo loro di desistere da un protezionismo desueto.

Insegnamenti

Facendo di Venezia l’idolo da abbattere, vedendovi il vitello d’oro che non è più, i contestatori dell’ANAC – quelli almeno che non servivano in questa faccenda i loro interessi privati o quelli del loro partito – hanno dato prova di una sorprendente immaturità politica, e di un’ancora più grande incapacità di condurre un’azione coerente, che sfociasse, all’uscita degli interminabili tunnel di discorsi e discussioni, nel minimo atto concreto. Ponendo un numero incalcolabile di falsi problemi, rifiutando ostinatamente di partecipare al dibattito su una questione che per loro dovrebbe essere centrale, essi hanno impedito una occasione (ma ce ne saranno altre) di porre in piena luce i problemi più urgenti del cinema presente.

Condannando per principio tutti i festival, i membri del Consiglio permanente degli Stati generali, se con ciò sono fedeli alle opzioni di maggio, mancano singolarmente di realismo e fanno dubitare della loro capacità a condurre la battaglia di avanguardia del cinema. Peccato davvero che la loro purezza teorica gli impedisca di sfruttare quegli elementi di lotta che restano, in un cinema in cui le vecchie strutture sono sempre a posto e sempre da spazzar via, in cui la reazione resta padrona dell’essenziale (sale, sistemi di produzione ecc.), festival come quello di Venezia che, più o meno bene, si mettono al passo col cinema d’oggi, che, se possono ancora dare un po’ di buona coscienza al commercio, gli dànno molto più filo da torcere.

Noi pensiamo, e Venezia lo conferma, che bisogna, perché si imponga e trionfi sul vecchio una nuova concezione e una nuova pratica del cinema, non smettere di battersi, in tutti i campi, con tutte le armi. I Festival sono a doppio taglio? Sia: cerchiamo di servirci della parte più tagliente, lasciando ai mercanti le consolazioni che il lato più ottuso gli procura. LA REDAZIONE. »

Ci sembra opportuno concludere con l’opinione di Rossellini, che i giovani registi francesi (i migliori almeno) considerano giustamente come un maestro. Venuto a Venezia a tenere una conferenza stampa, egli volle ribadire la sua posizione nei confronti del Festival, posizione che aveva già definita rispondendo a un’inchiesta di «Paese Sera», cui si riferisce il comunicato dell’ANSA che qui si riporta:

«Roberto Rossellini ha fatto conoscere il suo punto di vista sulla situazione della Mostra cinematografica di Venezia con l’invio di un telegramma indirizzato a un quotidiano romano. Ecco il testo: Ogni eventuale buona ragione contro la Mostra cinematografica di Venezia et Charini naufraga nel ridicolo a causa dell’eccessivo accanimento dei gruppi che contestano gli interventi politici le interrogazioni al governo ecc. stop Mi sembra si sia perso ogni senso delle proporzioni. Gli articoli che pubblicate con grande rilievo vogliono dimostrare che tutti gli uomini di cultura sono contro la mostra. Nel mondo democratico che anche voi auspicate deve contare l’opinione di tutti ed io che appunto non appartengo a quella cultura voglio fa sapere che sono a favore di Venezia. »

Anche Blasetti, facendogli eco, espresse in termini analoghi il suo punto di vista sulla situazione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia rilasciando all’«Ansa» la seguente dichiarazione: Aderisco pienamente alla dichiarazione di Roberto Rossellini su Venezia. Non riesco a comprendere quale più avanzato criterio possa da chiunque essere adottato perché la Mostra di Venezia possa avere una tendenza culturale che sia più a sinistra, che sia più di avanguardia, che sia più di apertura verso i giovani. Qualunque possa essere una migliore strutturazione della Mostra, strutturazione indubbiamente auspicabile, non si potrà mai arrivare oltre i confini raggiunti in tre anni di battaglia da Chiarini.

[1]    Jacques Aumont, Jean-Louis Comolli, Jacque Doniol-Valcroze, Pierre Kast, André-S. Labarthe, Jean Narboni e Sylvie Pierre.

[2]    Segnaliamo a questo proposito, come esemplare di questo punto di vista di Sirius, la posizione del «movimento del 22 marzo», un rappresentante del quale, di passaggio a Venezia, tenne una conferenza stampa e dette torto a tutti, condannando tutte le tendenze di sostegno e di contestazione, ivi compresi, perché no?, lo SNEsup e gli Stati generali.