Michelle Henning ha recentemente discusso il concetto di “confusione dell’esperienza”, quell’attrazione per i dettagli contingenti che appare essere sempre più una delle preoccupazioni della fotografia e delle pratiche di immagine in movimento dell’orizzonte contemporaneo. Seguendo l’esplorazione di questo territorio d’avanguardia, dove pare che i “nuovi ibridi cinematografici che aprono molteplici cornici di realtà”[1] abitino, possiamo, dunque, affrontare un viaggio ai margini del linguaggio, nel quale, attraverso le immagini in movimento, si possono forse ridefinire quelle zone autenticamente sperimentali della cinematografia contemporanea, nelle quali vale la pena avventurarsi con la più grande curiosità. In questo territorio impenitente e radicale di film ibridi e mutanti, di cineasti artisti e artigiani, interessati al film fisico e  alla “visione aptica”[2], dove sono la dinamica tra camera e soggetto, la non linearità e le nuove cornici di rappresentazione del vero, a creare un incontro con un pubblico attivo e particolare, che si muove fluidamente tra cinema e gallerie, troviamo anche nuove forme di ricerca basata sulla pratica dell’etnografia sperimentale, che sfida e ridefinisce fieramente i paradigmi convenzionali.

In questo territorio così fecondo e mutevole  incontriamo l’opera di Salomè Lamas, il cui ultimo lavoro, Extinction (2018), contiene una frase che più di ogni altra può spiegare il lavoro della giovane e originale regista e artista  portoghese, e che descrive bene il posto che il suo lavoro occupa nelle arti contemporanee, in quel territorio proficuo all’incrocio tra documentario, finzione, installazioni artistiche ed etnografia sperimentale. Il suo lavoro si muove e si definisce attraverso il  modo in cui l’autrice esplora la violenza del capitale globale e l’effetto che questa violenza ha sul corpo di persone emarginate – i “corpi periferici” come li definisce l’artista stessa – attraverso un’estetica che costantemente mette in discussione ed estende i confini del “rappresentabile”.

“Frontiere? Cosa mi importa dei confini? La nostra anima non è un confine”, piange un uomo nel film in bianco e nero Extinction (2018). Il film inizia con interrogatori in stile KGB e diventa sempre più complesso nello stile, mescolando ritratti di persone dall’aspetto spettrale, architetture vuote, abbandonate, in rovina, foreste e paesaggi notturni, con una colonna sonora in cui momenti di dolcezza e la confusione dei suoni trovati e registrati si fondono, dove “le conversazioni agitate si susseguono, rendendo il caos di una nazione più evidente”[3] e sconcertante. Invertendo il linguaggio del film fantascientifico e l’idea di “utopia”, il film esplora, invece, una zona di “conflitto congelato”, la zona della Transinastria, un’area in cui i combattimenti formali si sono fermati ma non è stata raggiunta alcuna riconciliazione reale. Partendo dalla storia di Kolja Kravchenko, l’uomo che appare nella prima scena – ed esplorando il suo rapporto con il tema della patria – Lamas affronta l’idea di “dissoluzione” e “dislocazione” dell’ idea di Stato e, quindi, in modo quasi involontario, della cittadinanza. Le conseguenze dello scioglimento dell’URSS diventano dunque l’occasione per un’esplorazione delle linee fluide e pericolose, di quelle “linee di frattura burocratiche” che chiamiamo confini. Delineazioni che, nell’opera di Lamas, diventano parte di un paesaggio che è disumano, divisioni che appaiono come ostili, attraverso l’esplorazione di una comunità di persone scartate, dimenticate e non ascoltate. Come una profezia minacciosa, attraversata dalla rabbia degli esclusi, le parole di Kolja Kravchenko risuonano angosciose nei fotogrammi del film. “Che cosa c’è di così bello in Europa?”, dichiara Kolja nel film: “Io non ho bisogno dell’Europa e lei non ha bisogno di me”.

Con il suo post scritto, Lamas dipinge il suo intento principale nella stesura del  film. Un’esplorazione di un “mondo di confini mutevoli, leader visionari e persone dimenticate” con una dedica a “tutti i territori non riconosciuti e inosservati che giacciono ai margini della legittimità”. Questa esplorazione dei “margini di legittimità”, una ricerca sul disagio all’interno delle cornici – e dei vincoli – della rappresentazione e di ciò che è rappresentabile, è la ragione che guida anche il suo approccio al cinema. La sua stessa nota di regia recita: “In una fertile occupazione della ‘terra di nessuno’, mi riferisco al mio lavoro come parafrasi per la pratica dei media critici. Invece di abitare convenzionalmente nella periferia tra cinema e arti visive, fiction e documentario, ho cercato di creare questi miei linguaggi, percorrendo nuovi percorsi di forma e contenuto, sfidando i metodi convenzionali di produzione cinematografica, modi di esposizione e le linee tra varie forme filmiche e artistiche di espressione estetica. Queste opere di “etnografia modificata” mostrano un interesse per la relazione intrinseca tra narrazione, memoria e storia, mentre usano l’immagine in movimento per esplorare ciò che è traumaticamente represso, apparentemente non rappresentabile, o storicamente invisibile – dagli orrori della violenza coloniale ai paesaggi del capitale globale”.

Stiamo parlando qui del confine tra documentario e finzione e un tipo di regia direttamente impegnata ad abitare la tensione dialettica tra rappresentazione – l’etica della testimonianza e della registrazione – e il potere narrativo della realtà sociale. Ad esempio, nel film Eldorado XXI dove mostri la realtà poverissima e oscura della città peruviana La Rinconada, luogo inospitale, di miniera, sfruttamento, violenza e vita la confine con la morte, dove il paesaggio estremo sembra esprimere anche una frontiera della condizione umana. Un cinema, il tuo, che interagisce con il reale in un modo molto complesso – non oltre, ma “attorno al reale”[4] – un insieme di relazioni create per essere filmate – oltre, non accanto, al fittizio. E stiamo anche parlando di te come un’artista curatrice del tuo lavoro, una figura che si muove comodamente attraverso le piattaforme e ricontestualizza la propria opera, tra arte, cinema e ricerca criticando i paradigmi antropologici, senza allontanarsi da qualsiasi impegno con i paradigmi della ricerca e assumendo il controllo dei confini disciplinari. Come definiresti dunque il concetto di “parafinzione” che in parte descrive questi elementi e come descriveresti il metodo dietro alla orchestrazione dei tuoi lavori?

Ho iniziato a usare “parafiction” nel 2012 durante il Q & A di Terra de Ninguém / No Man’s Land. Più tardi nel 2015 ho fatto uno spettacolo al Serralves Museum che ha presentato Terra de Ninguém, Theatrum Orbis Terrarum e Mount Ananea nello spazio museale e che ha proiettato un paio di altri film nell’auditorium. L’ho chiamato “Parafiction”. Il termine mi sembrava giusto e sufficientemente ampio da incapsulare ciò che avevo fatto in passato, ciò che stavo facendo e ciò che dovevo ancora fare. Sembrava utilizzabile, anche se non era concettualmente teorizzato. Ma forse il concetto ha una vita propria – all’interno della famiglia dei cineasti – e dice qualcosa sul ritorno del documentario nell’arte contemporanea, come impeto riflessivo, contro la continua e insistente distinzione tra finzione e non finzione.

Questa discussione sembra più profonda ora, nel regno della progressiva appropriazione del documentario da parte dell’arte contemporanea. Il mio lavoro forse può essere inscritto all’interno di quelle linee. È iniziato come un tentativo di filmare semplici esercizi che sono diventati qualcosa di diverso e hanno ottenuto riconoscimenti. E a quel punto è diventato parte di un dialogo continuo con la comunità. Il linguaggio del documentario, mescolato con l’arte contemporanea, diventa qualcosa di indistinto.

Da una parte, il modo in cui sono cresciuta artisticamente mi ha influenzata in questa direzione, poiché sono stata molto in contatto con le arti contemporanee fin dall’inizio del mio lavoro. Il mio primo progetto, ad esempio, è iniziato grazie alla relazione con l’archivio cinematografico di Lisbona, mentre nello stesso periodo lavoravo a teatro. Con il mio primo lavoro Terra de Ninguém (No Man’s Land, 2012) la frammentazione sembrava adattarsi alla forma del lavoro. Da quel momento in poi, ho iniziato a ricevere piccole commissioni da alcuni musei per fare delle installazioni. È interessante fare qualcosa per lo spazio di un museo o di una galleria, poiché si parte da zero e si costruisce uno spazio in cui le persone possano comportarsi diversamente, essere mobili e cambiare. Costruire lo spazio per l’installazione Montanania ha significato, per me, creare un design scenico della stanza, in cui la narrazione potesse essere costruita integralmente attraverso i rapporti all’interno dello spazio e l’espansione del tempo.

Lo stesso Eldorado XXI (2016) ha una versione montata come un’installazione, con riprese che non sono state utilizzate nel film. D’altra parte, nonostante le esperienze che ho fatto, sono anche critica nei confronti delle installazioni cinematografiche. Mi rendo conto che usare questa forma possa diventare una scelta dettata dalla pigrizia, a meno che non si usi il linguaggio al suo massimo potenziale. The Burial of the Dead, che deriva da Eldorado XXI, utilizza tutte le immagini secondo la loro “durata interna”. Anche se si è di fronte a qualcosa che non può essere del tutto controllato, e diventa dunque un’operazione complessa montare un’immagine simile, durante la creazione dell’installazione ho finalmente potuto usare le immagini nella loro durata reale.

Nel film lineare si creava una sorta di lotta tra l’inquadratura dei minatori e il flusso che questa immagine generava, un flusso che veniva interrotto progressivamente dal testo. La  questione, in se stessa, non si poteva risolvere al montaggio, ma alla fine sono stata in grado di usare l’inquadrature nella sua durata integrale come parte dell’installazione e la cosa mi ha soddisfatto. Questo tipo di “cinema di resistenza” va contro il ritmo veloce della realtà – è la durata stessa a creare tale resistenza. La mia scelta non ha a che fare con il concetto di cinema lento quanto, piuttosto, con la “ortopedia dell’immagine”, la sua essenza interna. Quando si ha a che fare con la realtà, preservare la durata reale diventa una questione di etica, un’etica che va difesa in ogni modo.

Si possono trovare tracce di questa scelta anche in No Man’s Land, per la creazione del quale mi sono confrontata con l’opzione di mostrare e non mostrare, ed ho scelto di non mostrare la violenza e di usare, invece, il fuori campo. Nella creazione di una ‘”etnografia sperimentale”, c’è sempre la necessità di un ritorno al reale ed un confronto con questa dimensione. Per me questo è un aspetto estremamente affascinate e importante della pratica filmica. Se ho la possibilità di creare sia un film che un’installazione, capisco che la stessa inquadratura può trovare una forma diversa in ciascun metodo. Cerco  un rapporto con uno spettatore attivo e a volte sono costretta a rinunciare alla durata estesa, ma poi, magari, ho la possibilità di inserire la stessa immagine, nella sua durata integrale. In un altra forma, in un lavoro diverso.

Passare da un progetto ad un altro mi aiuta ad avere il coraggio di rinunciare. Nel lavoro successivo, posso rielaborare tutte le altre cose delle quali non sono soddisfatta nel precedente. Inoltre, lavorare su più forme mi dà la possibilità di tornare più volte ad un progetto. Accetto il fatto che le cose possano andare storte e possano fallire. Mentre filmavo EldoradoXXI ero pronta a mandare a casa la mia squadra dopo una settimana. Anche se i miei film sono estremamente strutturati, credo in un cinema di fede. Aspettavo qualcosa che accadesse davanti ai miei occhi e non accadeva. Qualcosa che agisse come visualizzatore attivo, per me, ma che poi, talvolta, è un elemento che nel film finito devo lasciare andare. Finalmente mentre filmavamo nella miniera, quel momento è accaduto.

Il momento prezioso che cerco non cambia la macrostruttura. Spesso è qualcosa di quasi invisibile e impercettibile, un momento prezioso e rivelatore, che è mio compito come regista trovare e catturare. D’altronde è mia la responsabilità avere cura della macrostruttura del film. Per questo, da un lato, cerco questo momento, che deve accadere sul campo e che è assolutamente fondamentale per trovare il film, e dall’altro ragiono in modo matematico su un sistema di unità all’interno della microstruttura del film. È un paradosso, sul quale fondo i miei film.

Tu parli della costruzione di una prossimità con i soggetti ed il mondo che ti trovi a filmare. L’idea di filmare relazioni sociali, personali ed economiche che sono cristallizzate e che implicano un certo tipo di attesa e di costruzione della prossimità, simultaneamente attraverso e oltre la telecamera. È una vicinanza creata dall’essere testimoni e rivelare uno spazio, dove la narrativa si sveli. Altrove hai detto “”La conoscenza più profonda che abbiamo di qualcuno viene dal vedere quella persona vivere. In questo modo l’etica e l’estetica potrebbero coincidere, poiché è l’occhio che permette di vedere il quotidiano. Uno sguardo che incornicia e che per alcuni momenti sospende la vita. Se da un lato la distanza cancella l’affetto, possiamo ammettere che non capiremo mai la profondità della contemplazione. D’altra parte, è difficile sapere che non renderemo mai giustizia alla persona rappresentata perché sappiamo che non produrremo mai una teoria soddisfacente”. Cosa pensi di questa idea della costruzione della vicinanza e delle sue implicazioni etiche?

È un processo che implica una traduzione, dalla persona al personaggio, un processo di traduzione del reale. Una conversazione in corso che è in dialogo con la realtà, la costruzione della verità, la mediazione – chi media? È un laboratorio, un campo di battaglia. Se si prende il lavoro del traduttore, possiamo descriverlo come il lavoro di qualcuno che trasforma una lingua in un’altra. Una buona traduzione è dire di nuovo la stessa cosa. Prendersi una libertà senza perdere la fedeltà al reale. La fedeltà deve intrecciarsi con il reale. Ne abbiamo bisogno. Questo processo richiede una pratica basata sulla ricerca – include il lavoro che è stato prodotto dagli artisti come qualcosa che può generare la conoscenza stessa. La metodologia continua a cambiare, perché si confronta con la gestione delle risorse. Scelgo i miei collaboratori sapendo che hanno la capacità di prendersi diversi tipi di libertà, mentre io ho il compito di proteggere la macrostruttura del progetto. Ho avuto la fortuna di lavorare con persone fantastiche, straordinarie, che hanno supportato il mio lavoro e che letteralmente mi hanno salvato la vita quando lavoravamo in condizioni fisicamente estenuanti.

Sono una collezionista – in cerca di luoghi del nulla. Entro con la mia squadra in situazioni dove sono presenti limiti estremi, dove ci sono telecamere di sorveglianza, frontiere, luoghi inospitali. Cose che i nostri corpi stessi sperimentano, che rimangono inscritte nel film. Le persone che abitano in questi luoghi, vivono ai margini dell’umanità – un’umanità bella e spaventosa – trovo che ci sia qualcosa di religioso in questa ricerca. Sono situazioni di limite estremo nelle quali le persone vengono trasformate dalla realtà che attraversano e vivono. Sono luoghi che hanno un grande impatto su di me. Mentre filmo sono intorpidita, cerco di creare un guscio, cerco di trattenere le mie emozioni. A casa tutto torna. In quel momento arriva il film, come un’onda.

Sono interessata a luoghi che sono molto difficili da descrivere. Non farei mai un film come attivista. Sono interessata a questioni che sono più profonde e che non riguardano la chiusura e l’ipotesi. Spero che i miei film possano essere un fattore scatenante per la ricerca, già solo mostrando il fatto che questi luoghi esistono. Voglio mettermi in una posizione etica. Sono responsabile di trasformare un problema privato in pubblico. Ciò va di pari passo con la questione dell’autorità nel documentario. Mi chiedo, per esempio, se avere Paulo davanti alla telecamera che parla di crimini in No Man’s Land, sia un modo di perpetrare la cultura della violenza. L’assenza stessa può essere più violenta della presenza. Cerco di essere onesta rivelando i trucchi allo spettatore. Riposizionamento, parafrasi, etica sperimentale, unione con l’arte installativa e la performance.

“Cosa vedo sullo schermo? Sto guardando la realtà, la verità, la manipolazione, o tutte queste cose allo stesso tempo?” Sono domande che secondo il critico Jean-Louis Comolli appartengono all’istituzione del cinema, ma quando sono esposte nel mondo dello spettacolo in cui viviamo si trasformano in domande che riguardano tutti noi. Il cinema politico oggi tiene conto di questo? Il tuo è cinema politico?

C’è sempre una risonanza politica nei miei film. Con No man’s Land ho dato vita ad un tipo di cinema radicale, mi sembra più appropriato chiamarlo così. L’ortopedia delle immagini, che affascina lo spettatore per esporre il lavoro in un modo diverso e mostrare una prospettiva diversa. Il progetto a cui sto lavorando ora, Fata Morgana, è un lavoro sul trauma, sulla democrazia, un luogo comune che non ha nulla a che fare con i territori di confine. Fare film politicamente è una cosa ben diversa da fare cinema politico. Ramificazioni e distinzioni che hanno a che fare con la realizzazione di un film incentrato su un soggetto politico. Non è disconnesso dal potere che creano immagini e che crea il regista, rapporti di potere che vanno dichiarati. Quando inizi a lavorare politicamente, inizi a politicizzare tutti gli aspetti del cinema. Il film parla di te, di noi. Puntare una telecamera, il modo in cui si punta la telecamera, diventa un modo per rifiutare il mainstream.

[1]           Marzano N,  Moody L, Frames of Representation, catalogue, Institute of Contemporary Art, London, 2016.

[2]           Marks L. The Skin of the Film: Intercultural Cinema, Embodiment, and the Senses, Duke University Press,  Durham and London, 2000.

[3]          Turner, M., Frames of Representation, catalogue. Institute of Contemporary Arts, London, 2018.

[iv]          Ribas J., “Salome’ Lamas: Parafictions”, in Lamas S., Parafictions, Mousse Publishing; Milano, 2016.