Nato nel 1977, Radu Jude è uno dei più importanti registi contemporanei. Dopo gli esordi come assistente di Costa-Gavras e Cristi Puiu, i suoi primi film si sono inseriti nella “new wave romena” servendosi di un’estetica realista e dello humor nero per esplorare la vita della Romania contemporanea in transizione, con titoli quali The Happiest Girl in the World (2009) e Everyone in Our Family (2012) a tratteggiare un ritratto tanto spassoso quanto problematico della moderna famiglia nello stato post-comunista. Ma con il film storico in bianco e nero Aferim! (Orso d’Argento per la Miglior regia alla Berlinale del 2015), Jude si è allontanato radicalmente dalle norme e dalle tematiche proprie del filone, per ritagliarsi un posto autonomo all’interno della cinematografia romena: quello di un regista propenso a rivelare alcuni degli aspetti più cupi della storia del proprio Paese, spesso rimossi dal discorso ufficiale, come la schiavitù del popolo Roma o il coinvolgimento del governo nell’eccidio nazista.

Il suo ultimo film, I Do Not Care If We Go Down in History as Barbarians (vincitore al Festival di Karlovy Vary e presentato all’interno della sezione Onde del Torino Film Festival) prende il titolo da una frase pronunciata da Mihai Antonescu, ministro romeno per la propaganda durante la Seconda guerra mondiale, e mostra un cineasta in piena forma, capace di unire passato e presente, realismo e meta-cinema con lo humor che lo contraddistingue da sempre nella vicenda di Mariana Marin, regista teatrale decisa a mettere in scena una ricostruzione del massacro di Odessa in una piazza centrale di Bucarest. Nei suoi tentativi di dare vita a un evento in grado di destabilizzare la convinzione che i romeni non siano stati altro che spettatori (se non vittime) della guerra, la protagonista porta allo scoperto non solo atrocità storiche e una propensione anti-semitica sotterranea alla società contemporanea ma getta luce anche su un processo creativo, nello sforzo di “rappresentare l’irrapresentabile”, ovvero gli eventi legati all’Olocausto.

Abbiamo incontrato il regista per affrontare con lui la complessa e sfaccettata costruzione di quest’ultima opera, in cui si mescolano realtà e finzione, oltre che numerosi riferimenti letterari e cinematografici.


Come è nato il progetto di I Do Not Care If We Go Down in History as BarbariansQuando hai avuto l’idea di creare una cornice in cui il passato (di fatto, i tuoi ultimi tre film sono ambientati nel passato) e il presente si intersecassero? 

Il momento esatto è stato quando ho assistito, durante la Notte Bianca dei Musei, alla ricostruzione storica della battaglia di Mărășești. Non ne avevo mai visto una, e la mistura di ridicolo e intrattenimento che la caratterizzava mi conquistò subito. Inoltre ho compreso che poteva fornire lo spunto per costruire un film su un soggetto che già mi interessava molto. In questo modo mi è venuta l’idea di cercare un approccio “obliquo” nei confronti dell’accaduto.

Come sono stati scelti i frammenti di testo, le fotografie e i filmati d’archivio del film, al di là del fatto che sono tutti, in diverse misure, legati al tema dell’Olocausto?

Temo siano stati scelti in maniera molto egoista: in base alla rilevanza che ho deciso di dargli io, come regista e sceneggiatore del film. Voglio dire che in questa costruzione (che potremmo definire un “collage”), ho raccolto tutto quello che mi è parso rilevante, per motivi diversi. Ti faccio due esempi: a un certo punto, Mariana (Ioana Jacob) legge un commento di Agamben a un testo di Hanna Arendt, dove lei dice, a proposito dell’Olocausto: “Non possiamo riconciliarci con qualcosa del genere. Nessuno di noi può”. È una frase essenziale, credo, e Agamben la tratta di conseguenza; ed è una frase che suscita, perlomeno a me, la domanda che ha ossessionato l’Europa del dopoguerra: come è stato possibile un simile orrore proprio al centro della civilizzazione cristiana, europea? Si tratta di una questione essenziale e ho voluto che emergesse dalla visione del film. Sicuramente, noi abbiamo trovato velocemente una risposta, perché i nostri conservatori ci hanno detto, molto semplicemente: “Hitler non era cristiano”. Ma è evidente che non è così, vista la relazione che la Chiesa ebbe con il Nazismo. E in Romania cosa possiamo dire? Un paese dove il BOR (Chiesa Ortodossa Romena, ndt) è stato sempre alleato di tutte le dittature?

Un altro esempio lo porta il frammento di un filmato di archivio del Processo a Iotului Antonescu, del 1946. Ho guardato le sei ore di materiale conservate al ANF (Cineteca Nazionale Romena, ndt.) – la pellicola era stata tagliata in alcuni momenti importanti, non si sa da chi né perché – e un dettaglio mi ha molto colpito: quando a Alexianu, il governatore della Transnistria nel 1941, viene domandato “Quando ha avuto luogo il massacro?”, lui risponde rapido e preciso, quasi scolastico: “Il massacro ha avuto luogo il 23 e 24 ottobre”. Questo mi ha impressionato per diversi motivi. Innanzitutto, perché riconosceva l’esistenza del massacro di Odessa, minimizzato o negato da tutti gli altri nazionalisti e antisemiti. Credo sia l’unica prova filmata di questa ammissione e, per quanto ne so, non viene menzionata da nessuna parte, non la si trova neanche nelle trascrizioni del processo Antonescu (dove però, compaiono altre testimonianze, compresa quella del generale Pantazi, citata in uno dei dialoghi).

In secondo luogo, mi ha impressionato il tono, l’intonazione della risposta di Alexianu. Sono cosciente della superficialità con la quale si svolse il processo Antonescu, del fatto che fu una penosa farsa (anche se non arriva ai livelli di quello di Ceaușescu) ma comunque ci trovo alcuni dettagli molto utili. Dettagli privi di importanza al tempo della registrazione, che oggi rivelano tutta la loro importanza. Quella di Alexianu è una risposta puramente tecnica, il tono è secco, e anche Mihai Antonescu, visibile alle sue spalle, non tradisce nessuna reazione. Tutto questo, dopo che Alexianu ha affermato di non essere stato a Odessa nel periodo del massacro – difendendosi quindi dalle accuse, ma riconoscendo l’esistenza dell’evento. Bene, il modo tecnico e impersonale con il quale ha risposto alla domanda è, per quanto mi riguarda, la prova chiara dell’esistenza di questo massacro. È una prova che, in quel momento, la sua esistenza fosse consapevolezza comune, per questo Mihai Antonescu non reagì in nessuna maniera (nessuna reazione udibile anche dal Maresciallo Antonescu, che però era fuori dall’inquadratura). Ecco perché ho deciso di inserire questo frammento nel film, e di “dedicarlo”, per così dire, ai negazionisti.

Come si riflette tutto ciò nella costruzione del personaggio di Mariana Marin? Quanto padroneggia il bagaglio di informazioni con cui lavora alla creazione dello spettacolo, e trovi che sia sufficiente in rapporto alla posta in gioco?

Non ero interessato a questo aspetto. Ma, per risponderti, credo che lo padroneggi (almeno quanto me) piuttosto bene, ma questo non le impedisce di fallire, perlomeno in parte. Un’opera d’arte dice sempre qualcosa in più rispetto all’intenzioni dell’autore. E alcune possono sfuggire di mano.

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Mi sembra anche che il suo personaggio rappresenti una sorta di sottile critica a certi circoli intellettuali romeni – come quelli che si dichiarano femministi e antifascisti, guardano spettacoli di teatro politico e indipendente in spazi alternativi, ascoltano band di neo-manele come i Rază de soare, e così via; ma i cui sforzi non hanno eco al di fuori delle loro conoscenze. Credi sia così? E perché?

Sì e no. Le canzoni dei Raza de soare compaiono nel film su suggerimento di Cătălin Cristuțiu, se bene ricordo. Le ho lasciate perché mi è sembrato che il modo in cui sono state costruite risuonasse con la struttura del film. E, quanto alle critiche che muovi nella domanda, credo che la situazione abbia un po’ più di sfumature. Sicuramente c’è il desiderio di mettere alla berlina quell’attitudine di superiorità presente nelle realtà di cui tratta il film. Una superiorità che ritroviamo anche su Facebook, dove ho l’impressione che molta gente senta il bisogno di dare lezioni, di dimostrare, criticare, educare e infierire su chi ha un’altra opinione, un altro punto di vista. Qualcosa di simile mi sembra accada anche nel mondo culturale, soprattutto per l’arte “politica”, e mi chiedo se parte del problema non venga dall’applicare questa etichetta, “arte politica” (esiste arte che non lo sia?), perché nel caso non lo sia giustifica la superiorità morale di chi commenta. Mentre, al contrario, può essere visto come un elemento di inferiorità (con commenti tipo “Tizio è solo un propagandista, non fa vera arte”).

Io credo che, a prescindere dall’attività culturale praticata, a nessuno venga conferita una superiorità, meno che mai morale. Mi sembrano un po’ ridicoli gli artisti dichiaratamente antifascisti o anticomunisti, che dicono di lottare contro i regimi con i loro libri o le loro opere d’arte prodotte oggigiorno, quindi all’interno di un sistema (finora) democratico, magari con finanziamenti pubblici. Non dico che queste opere non sono importanti – se lo credessi non avrei realizzato i miei film – ma questa pretesa di superiorità mi sembra ridicola, soprattutto perché schierarsi dal lato giusto della Storia mi sembra molto semplice, adesso. Ricordi quell’intervista di Amos Oz, dove lui si dichiara apertamente contro la guerra e la violenza, ma racconta di come qualcuno della sua famiglia (una nonna o una zia?) ricordasse che a liberarli dal campo di concentramento nel quale erano internati fu l’Armata Rossa, e non quelli che organizzavano le marce per la pace? Così come, se vuoi lottare attivamente contro un’ingiustizia, esistono metodi più efficaci di un’opera d’arte, un articolo stampato o un post su Facebook.

Recentemente ho fatto parte della giuria di un festival cinematografico e ho visto un film tailandese bellissimo, poetico e raffinato, che era dedicato, nei titoli di testa, alla minoranza Rohingya. A scapito delle buone intenzioni, mi è sembrata una cosa grottesca: quegli uomini sono morti in massa sotto gli occhi di tutto il mondo, non abbiamo fatto nulla, ma ecco che un regista sensibile gli dedica il suo film poetico. Ah che bello!

Quindi sì, credo che l’arte, se importante, lo sia in un altro modo. Sicuramente non serve a conferire all’artista un senso di superiorità morale. Per di più, almeno nel cinema, è un metodo spesso usato per coprire la mancanza di talento. Ci sono film brutti – anzi, bruttissimi – il cui unico valore sembrerebbe il punto di vista politico utilizzato. E credo anche sia importante dire che non sono solo le buone intenzioni (politiche o di altro tipo) a dare importanza a un’opera d’arte, ma qualcos’altro (non sta a me dire cosa, ci sono i critici e i teorici del cinema per questo).

Se il rischio di un’arte non-politica – passami il termine – è il filisteismo, quello di un’arte “impegnata” è di semplificare, fare del semplicismo. Se Straub e Huillet sono dei grandi cineasti questo non è dovuto alle loro posizioni antifasciste e anticapitaliste, ma dal fatto che i loro film sono incredibilmente complessi, radicali, innovativi (Gilberto Perez ha fatto un’analisi incredibile di History Lessons, dove dimostra quanto complessa e sottile sia la loro arte). In sintesi, questa era la mia intenzione: mostrare che esiste il rischio di semplificare, e cercare di evitarlo. Non so se ce l’ho fatta.

Nelle critiche mosse dalla sua squadra e dal suo compagno, si ha la sensazione che, aldilà della posizione ideologica individuale, Mariana venga attaccata anche perché donna. È un tentativo consapevole di esplorare il machismo radicato nella società romena?

Si, è sicuramente una dimensione che esiste nel film, ma non è proprio il machismo che mi interessava (non so neanche quando possano essere definitivi macho i personaggi del film), piuttosto il contrasto che risultava dal mettere una donna a capo di un’attività dominata dagli uomini – mi riferisco alle ricostruzioni storiche. E, senz’altro, il comportamento dei personaggi principali sarebbe stato diverso se al posto di Mariana ci fosse stato un uomo. Così diverso che non ho mai avuto alcun dubbio riguardo il fatto che il personaggio principale dovesse essere una donna.

A proposito delle reazioni negazioniste: come sono stai costruiti i personaggi secondari e i loro discorsi? A quali fonti ti sei ispirato? 

Ho cercato, per quanto possibile, di utilizzare argomenti che trovo interessanti – soprattutto nei discorsi del personaggio interpretato da Alexandru Dabija. Ma le idee le ho raccolte un po’ ovunque, da mie interazioni con diverse persone, dalla rete, dai libri, etc.

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Come mai hai scelto di inscenare lo spettacolo di Mariana in uno spazio pubblico? Quante, tra le reazioni che vediamo nel pubblico, sono quelle di persone qualunque? Inoltre ci sono alcuni cameo di personalità importanti della sfera culturale locale – Dana Bunescu, Gianina Cărbunariu – che, aldilà del quadro della finzione, creano un raccordo con la realtà sociale della Romania.

Lo spazio è stato scelto affinché avesse una connessione con la storia, e ho deciso che tutti gli esterni del film dovessero possedere elementi degli anni ’40, per creare una commistione di periodi storici in ogni inquadratura. Questo, però, non si vede nel film, quindi è stato probabilmente inutile. E, oltre alle figurazioni pagate tra il pubblico, ci sono anche i passanti che assistono allo spettacolo. A volte hanno reagito come gli spettatori del film, ma questo ha più a che fare con la voglia di mettersi in gioco, piuttosto che con la consapevolezza dei temi trattati. Per quanto riguarda Dana Bunescu, avevamo bisogno di qualcuno che sapesse usare i software audio in quella scena, mentre Gianina è venuta in visita sul set e io le ho chiesto di fare un cameo – lei è stata così generosa da accettare. Esiste una scena con Radu Afrim, ma è stata tagliata in montaggio (non a causa di Radu, ovviamente).

E alla fine, perché Mariana Marin fallisce? È possibile che prima o poi i romeni riescano ad accettare le sfaccettature oscure della propria storia?

Ma lei non fallisce, di fatto, porta a termine lo spettacolo. Solo che non ottiene un grande impatto – ma questa è evidentemente una scelta del regista del film. Qualcuno potrebbe considerarlo un atteggiamento pessimista (vedi cosa ne ha scritto Radu Toderici), altri propaganda anti-romena, io invece la considero solo una forma di autocritica.

Sicuramente è possibile che i romeni accettino la loro storia, in parte già lo fanno. Motivi per essere pessimisti però, se ne trovano. Il più recente è stato il risultato del sondaggio sottoposto ai professori nel quale due su tre hanno evitato di dare una valutazione a Ion Antonescu, preferendo rispondere che non hanno informazioni sufficienti per rispondere. Tra quelli che hanno risposto, la maggioranza afferma che Antonescu ha conseguito dei risultati generali “buoni o molto buoni”, il 22%, contro un 14% che ha risposto che i risultati sono stai negativi o molto negativi…

(traduzione dal romeno di Ivan Casagrande Conti)